Per quale assurda ragione si tenta di accreditare alla destra italiana una originalità culturale che derivi, niente di meno, direttamente da Dante Alighieri? E che, anzi, proprio il Padre della lingua italiana sia stato un antesignano dei valori della stessa destra! C’è tra stropicciarsi occhi, orecchie e gettarsi acqua fredda in faccia per vedere se si sta sognando o se si è veramente svegli…

Chiunque abbia tentato una operazione di questo tipo è, sempre, ma veramente sempre, finito per calcare il sentiero del ridicolo, per trascinarsi addosso polemiche altrettanto speciose, viziate e viziose al tempo stesso, costruite su una oziosità di argomentazioni che si affastellano e si compenetrano tenendosi insieme sul niente. Un po’ come queste righe che state leggendo.

Tuttavia, siccome è il ministro della cultura a fare quella che egli stesso definisce una “affermazione forte“, non si può non stigmatizzare questo azzardo. Se ci trovassimo nel bel mezzo di una piece teatrale, la boutade ci starebbe tutta e divertirebbe anche un sacco: l’Alighieri un uomo di destra.

Per giunta della destra moderna, di quella sovranista, nazionalista, addirittura post-fascista che, a far data dal Novecento, si è inventata un tutto un mondo entro cui circoscriversi e in cui stare, al riparo proprio da un ecumenismo di condivisione della cultura stessa col resto del mondo.

Non è vero che la cultura sia di sinistra piuttosto che di destra: è vero, invece, che molti dei valori nati e sviluppatisi dopo l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e nel pieno del capovolgimento dello status quo decretato dal Congresso di Vienna, siano stati e siano tutt’ora pilastri di un progressismo di varia e molteplice natura.

La destra, invece, ha sempre e soltanto rivendicato la diversità come elemento negativo, come attentato alle specificità nazionali, serrandosi entro i confini di sé stessa e attribuendosi la rappresentanza di un conservatorismo che, probabilmente, ha sopravvalutato proprio in quanto a teoria politica, prima ancora che come fenomeno culturale, sociale e civile.

Tutto il pensiero liberale novecentesco sta nettamente nel campo di una destra che tenta di alternarsi ad una sinistra socialista e comunista nel dispiegarsi della dialettica politica con al centro il grande campo largo del democristianesimo.

Eppure, nonostante questo, quando parliamo di cultura, oggettivamente è sempre a sinistra che si guarda con attenzione: perché la cultura è prima di tutto critica dell’esistente, ricerca nell’oggi per un superamento dell’odierno e una proiezione in una futuribilità migliore, per una società nettamente differente da quella contraddittoria in cui continuiamo a vivere.

La destra è, invece, conservazione, arretramento, preservazione dell’esistente a scapito del futuro, con la testa tutta rivolta al passato da aggiustare un poco per renderlo più sopportabile. Prima di tutto a sé stessa, come legittimazione di una ragionevolezza dei contenuti che sia la base di una proposta politica accattivante in quanto a semplicità comunicativa e, quindi, a semplificazionismo estremo dei programmi.

La sinistra si interroga, discute, si divide, si rimette assieme, ma genera continuamente passaggi critici che sono di spunto a tutte le arti e le scienze: pittura, scultura, cinema, televisione, letteratura, giornalismo e tutti gli altri saperi sono stimolati dalla messa in discussione di ciò che già c’è e di quello che potrebbe invece esservi.

La destra non innova criticamente nulla. Constata e, al massimo, dà vita a fenomeni rivoluzionari, sostenuti ovviamente dalla borghesia del tempo, che puntano a cambiare la società soltanto per impedire che il mutamento sia veramente una evoluzione egualitaria, una espansione dei diritti, una nuova vita al posto della vecchia.

La frustrazione che il ministro della cultura esprime chiaramente, quando rivendica per la destra una cultura valoriale che origini dall’autore della “Commedia“, è un complesso di inferiorità che, prima ancora d’essere trattato dialetticamente e criticamente, va indagato psicologicamente. Le radici di questa sensazione sono profonde e fanno bene gli esponenti dell’attuale governo a “vedere” questo disagio, ad accorgersene coscientemente.

Dante Alighieri non c’entra niente né con la destra né con la sinistra del 2022. Quella del ministro è davvero una, eufemisticamente parlando, esagerazione voluta. Almeno si spera. Perché se così non fosse, se davvero ritenesse possibile mettere il grande fiorentino nel pantheon del conservatorismo di nuovo modello, allora saremmo davanti ad un problema nettamente maggiore e ben al di là della presunzione politica o dell’ignoranza propriamente intesa e detta.

In questo caso si confermerebbe veramente l’assunto un po’ primitivo e banale che assegna alla sinistra il primato culturale, anche se non è bene dato vedere oggi come si esprima, ad esempio, sul piano politico, visto che le destre prevalgono sul terreno elettorale e, quindi, se ne deve dedurre che riescono a convincere gli italiani della bontà delle loro intenzioni e dei loro programmi.

E’ tutto parte di un insieme di contraddizioni che si mescolano e si simbiotizzano malamente: soluzioni semplici a problemi complessi. Quello che i cittadini vogliono sentirsi dire come risposta ai loro disagi, ai loro affanni quotidiani e alle insicurezze che sono costretti a sopportare, è esattamente ciò che la destra offre populisticamente loro, salvo poi dover fare i conti con la dura realtà dei fatti: quella dei numeri di un bilancio dello Stato in cui non c’è posto per tutti.

O si favoriscono i privati con politiche, appunto, di destra, oppure si mette l’accento sul mondo del lavoro, su un rispetto della Costituzione che parta dalla valorizzazione dei ceti sociali più fragili per fare emergere tutte le diseguaglianze: quelle evidenti così come quelle sommerse.

Dante non c’entra nulla in tutto questo, se non nell’ambito scolastico ed universitario: nel fatto che lo si studia poco, male e poi si finisce, da ministro della cultura, a citarlo a sproposito, eguagliando illustri predecessori che tentarono persino di far entrare Antonio Gramsci o Che Guevara nel parterre de roi di un pessimo spettacolo della destra, allora, tutta berlusconiana.

Non passano nemmeno poche ore che la recidiva ha subito seguito: la Presidente del Consiglio cita Garibaldi. «Qui si fa l’Italia o si muore!». Qui siamo nella teatralità di un’enfasi ai massimi livelli: a Calatafimi, trasportati in una delle pagine enormi del Risorgimento italiano. Insomma, il governo delle destre è come la spedizione dei Mille: è partito per un’impresa eroica e si dà questa missione, del riuscire o del perire.

Deve essere la giornata della distrazione ricercata per far dimenticare il pasticciaccio brutto sulle accise e provare a spostare la marea dei commenti negativi da Palazzo Chigi al ‘300 e al 1860. In parte il governo ci riesce, in parte no. Perché la furia dei distributori di carburanti è congelata come il loro sciopero. Tutto è rimandato all’attesa della crescita o meno del prezzo di benzina e gasolio.

Si naviga a vista e l’imbarcazione inizia a mostrare qualche piccola faglia nella chiglia della sicumera proposopeica, ormai lontana mesi dalla propaganda elettorale. Anche qui Dante non c’entra per niente e tanto meno c’entra il povero Garibaldi che è, e rimane, un simbolo di libertà, anche antifascista e mai e poi mai può diventare tratto distintivo della retorica meloniana.

Ecco perché la destra fatica a riprendersi culturalmente: perché è avventata, pensa di poter utilizzare tutto e il contrario di tutto per i propri scopi; così finisce soltanto per ridicolizzarsi oltre il dovuto, per mostrare di sé stessa ancora più tracotanza di quella che le è propria. Una violenza che non ha niente a che fare con, invece, la ricerca dettagliata sui problemi sociali, persino sulla storia del nostro Paese, persino sulla e dentro la sua grande cultura plurimillenaria.

Non ce la possono fare. Perché la loro idea di Italia sta stretta all’Italia stessa, che ha bisogno di pensarsi e guardarsi dentro contesti più grandi ma non esclusivamente monetari e finanziari: dall’Europa al mondo, il nostro Paese può svolgere un ruolo importante se fa del suo patrimonio culturale un valore aggiunto per tutta la popolazione, fruibile anzitutto dai banchi di scuola.

Tentazione stupenda per milioni di turisti che vengono da noi a conoscere non solo la bellezza naturale ed artistica, ma anche i tesori nascosti delle enormi differenze che esistono tra nord e sud, che devono rimanere tali sul piano della distinguibilità dei territori, delle espressioni gergali, delle tradizioni e della grande ricchezza che abbraccia pensiero, azione, suolo e persino la gastronomia.

Ma per fare dell’Italia un paese veramente all’avanguardia in questa società globale e liberista, bisogna farla uscire dalle troppe differenze di classe che permangono, dalle diseguaglianze che si acuiscono e si ingigantiscono. Di questo il ministro della cultura e la Presidente del Consiglio parlano soltanto per slogan, senza avere piani di intervento strutturale.

Non serve citare Dante per mostrare di averlo letto o per dare alla propria destra quella originalità culturale che non ha. Non serve impadronirsi di una frase che Garibaldi, probabilmente, neppure ha detto a Nino Bixio dalle alture davanti al colle del Pianto romano, per mostrare alla popolazione una determinazione esagerata, tutta elettoralistica, che oggi si infrange contro la durezza degli scogli di una crisi economica inaggirabile.

Serve invece potenziare la scuola della Repubblica, dandole quei finanziamenti che invece finiscono al riarmo voluto dalla NATO, alle spedizioni militari in Ucraina.

Serve tassare gli extraprofitti per sostenere quel taglio delle accise – tra l’altro – che avrebbe dato una boccata di ossigeno a tanti lavoratori, soprattutto pendolari, a tanti studenti che sono anche riders e che metteranno nei serbatoi delle loro auto e delle loro moto una buona parte di quegli stipendi miseri che prendono ormai con una malcelata prima, e non voluta oggi, rassegnazione.

E per far contento il nostro ministro della cultura, val bene citare proprio il Padre Dante: Inferno, canto XV:

Lo mio maestro allora in su la gota
 destra si volse in dietro, e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota»“.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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