Nella giornata di ieri una vera e propria fiumana di gente si è riversata nella capitale peruviana, Lima, per marciare verso il palazzo del governo e chiedere le dimissioni della presidente Dina Boluarte e dell’intero gabinetto. A prendervi parte sono state anche delegazioni di rappresentanti delle regioni più povere del Paese, quelle più vicine all’ex presidente Castillo (arrestato lo scorso 7 dicembre), le quali hanno marciato per giorni per ritrovarsi nella capitale. Seppure il corteo non sia riuscito a portare a termine la sua marcia, la giornata di ieri ha segnato un momento di culmine nelle proteste di queste settimane (anche perché il numero di vittime negli scontri con le forze dell’ordine è salito a 55) e ha reso evidente il totale scollamento tra il governo e la società che dovrebbe rappresentare.
Qualcuno l’ha rinominata la seconda Marcha de los cuatros suyos (letteralmente “la Marcia dei quattro punti cardinali”): la prima si era svolta nel 2000 e aveva portato alla caduta del governo Fujimori. La richiesta dei manifestanti è sempre la stessa: che la presidente Dina Boluarte, salita al potere dopo l’arresto del presidente Castillo, e tutto il suo governo si dimettano e che si vada ad elezioni anticipate (e non attendere il 2024, come vorrebbe l’attuale esecutivo). Le proteste, che proseguono dallo scorso 7 dicembre, hanno praticamente paralizzato il Paese. Tuttavia, Boluarte non ha nessuna intenzione di abbandonare il suo incarico. «Il governo è saldo e il suo gabinetto è più unito che mai» ha dichiarato, addossando la colpa di quanto avvenuto ad «alcuni cattivi cittadini che vogliono far fallire lo Stato di diritto, generare caos, disordine e prendere il potere». Ben 11.800 poliziotti sono stati schierati nella sola Lima, per far fronte alla fiumana di manifestanti che si sono dati appuntamento nella giornata di ieri per marciare uniti in direzione del palazzo del governo e del Congresso. A dar loro man forte vi era la popolazione di Lima, che si è adoperata per offrire riparo e aiuti di vario genere a coloro che protestavano. Due università, quella di San Marcos e quella di Ingegneria, sono state circondate dalle forze dell’ordine proprio per questo motivo, ma nel momento in cui scriviamo non si sono ancora verificati scontri. L’inizio del corteo era previsto per le 16 di ieri, ma qualcosa è andato storto nell’organizzazione e la marea umana non è riuscita a giungere di fronte ai palazzi governativi. Numerosi sono stati gli scontri violenti con le forze dell’ordine e, nella serata, un intero edificio ha preso fuoco nei pressi della centrale Plaza San Martìn. Sono necessarie cinque autopompe e tre autocisterne per spegnerlo. Alcuni manifestanti sostengono sia stato innescato da una bomba lacrimogena, ma il governo smentisce.
Il braccio di ferro tra popolazione e governo, non perde quindi d’intensità e anzi, dopo la pausa delle festività le lotte hanno ripreso più intensamente di prima, complice il fatto che a prendere parte alle contestazioni sono le regioni più povere del Paese, come Apurimac, Puno, Cusco, Arequipa, Huancavelica, Ayacucho e Madre de Dios, le più vicine all’ex presidente Castillo. Chiamano Boluarte asesina, per la responsabilità sua e del suo governo nella morte di coloro che hanno preso parte alle proteste. Stando ad alcuni video, oltre che alle testimonianze dei presenti, le forze dell’ordine avrebbero letteralmente assassinato alcuni manifestanti, esplodendo loro colpi di arma da fuoco in pieno petto. Alle motivazioni politiche, dunque, ora si somma la necessità di fare giustizia per queste morti. La Coordinadora Nacional de Derechos Humanos ha denunciato «l’uso di armi letali proibite per il controllo della folla, l’uso indiscriminato della forza, che colpisce le persone che aiutano i feriti, i giornalisti e coloro che non hanno nemmeno partecipato alle mobilitazioni. Inoltre, sono stati sparati proiettili e gas lacrimogeni, sulle case e persino contro i corpi delle persone». Secondo i sondaggi oltre il 70% della popolazione è favorevole alla rimozione di Boularte dal suo incarico e quasi il 90% sarebbe favorevole allo scioglimento del Congresso, eppure il governo non mostra di avere l’intenzione di abbandonare la nave, nonostante si configuri già come uno dei più sanguinari della storia recente dell’America Latina. A soffiare ulteriormente sul fuoco sono le frasi della presidente, che si è scusata «per quello che non è stato fatto» per impedire le proteste.
Attualmente, in diverse regioni (tra le quali quella di Lima) e province del Paese vige lo Stato di emergenza, che permette la sospensione di diritti costituzionali quali l’inviolabilità della casa, la libertà di movimento, di riunione e di sicurezza della persona. Tuttavia, a livello internazionale regna ancora un silenzio assordante.
[di Valeria Casolaro]