Le speranze di pace in Ucraina sono tutte legate ad una fine del conflitto che non può immaginarsi con la vittoria di una delle due parti. Se si ritiene…
Le speranze di pace in Ucraina sono tutte legate ad una fine del conflitto che non può immaginarsi con la vittoria di una delle due parti.
Se si ritiene che la prevalenza di uno dei due blocchi che si fronteggiano debba essere il punto di arrivo su cui costruire il nuovo processo di ricostruzione dell’area dell’Est europeo, della stessa nazione aggredita, nonché la rimodulazione dei rapporti globali che implica un passaggio di questa natura, si rischia di perdere di vista prima di tutto il carattere precipuo di questa guerra.
Si tratta di un conflitto che riguarda le sfere di influenza in Europa (e non solo) giocate cinicamente tra Alleanza Atlantica (quindi Stati Uniti d’America) e Russia.
Tuttavia l’Ucraina non è un semplice pretesto per farsi la guerra per procura da un lato e direttamente dall’altro: il posizionamento strategico è, in quel settore dello scacchiere geopolitico, fondamentale per limitare da un lato l’espansione della NATO verso est e dall’altro il ritorno ai confini post-bellici avevano portato l’URSS quasi al centro del Vecchio Continente.
La partita del gas e delle altre materie prime presenti nei grandi bacini energetici del Donbass è, inoltre, un grande appetito che sostiene le ragioni dell’espansionismo tanto dell’uno quanto dell’altro contendente.
Se non sgomberiamo il campo dalla mistificazione narrativa di una guerra tra Russia e Ucraina, iniziando a vedere i fatti per quello che sono, ossia che si tratta di un piano di riposizionamento tra poli economico-militaristi opposti, rischiamo di eludere e non vedere nettamente chiaro ciò che è oggettivo: la guerra è tra due mondi nel mondo e non tra due nazioni in Europa.
Da più parti, con diversità di vedute di non poco conto, si è tentato di sospingere Ucraina e Russia ad una trattativa che portasse quanto meno ad un “cessate il fuoco“.
L’ONU in questa partita ha avuto molto poco conto: il ruolo maggiore lo hanno esercitato singoli capi di Stato, come Emmanuel Macron per la parte più occidentale, europea, atlantica seppure critica nei confronti della condotta della guerra per procura da parte di Biden e del Pentagono, e Recep Tayyip Erdoğan per un fronte di interessi e di paesi che guarda di più all’asse che dal Mar Nero va fino all’Arabia Saudita.
E’ evidente che, pur non essendo soltanto una guerra tra Russia ed Ucraina ma, come già abbondantemente sottolineato, molto ma molto di più, le condizioni per una fine del conflitto devono riguardare formalmente i confini e l’integrità del paese aggredito ma, nella pratica, una serie di compensazioni che portino ad un nuovo equilibrio veramente intercontinentale e, nella consequenziale relazione con quel resto del mondo asiatico, mediorientale ed africano, ad un raffronto con le altre potenze emergenti.
Per quanto una visione possa essere critica, per quanto si possa e – in un certo qual modo – si debba tentare una sorta di equidistanza tra i contendenti nel conflitto se si parte da una posizione pacifista o, quanto meno, pacifica, per arrivare ad una cessazione delle ostilità, rimane un dato di fatto che le sollecitazioni provocatorie all’intervento russo siano state tante e siano state silenziosamente fatte passare innanzi alla pubblica opinione come “difesa” dell’Europa civile, democratica e benestante.
L’espansione della NATO verso est, tema obbligatoriamente trattato in qualunque analisi che voglia dirsi tale e che, quindi, non sia una semplice partigianeria politico-propagandistica di un liberismo militareggiante, manicheista e mascherato da difesa dei valori democratici occidentali, è e resta una delle ragioni dell’aggressione militare russa all’Ucraina.
Qualunque tentativo di accordo tra Mosca e Kiev, per questo, non può non essere letto anche come un riavvicinamento (o, a seconda dei casi, di un progressivo non allontanamento) tra il Cremlino e la Casa Bianca.
Sembra di essere tornati ai tempi della Guerra fredda, mentre ci troviamo in una modernità in cui l’interesse imperialista è molteplice e, al momento, ha come spettatore il gigante cinese con, attorno a sé altri paesi non meno irrilevanti in quanto ad armamenti e condizionamento geopolitico (India, Iran, lo stesso Brasile…).
Dai macro-sistemi economico-statali da cui la guerra deriva, poi la partita si gioca comunque sul terreno insanguinato ogni giorno di una Ucraina stremata, con un popolo privo delle più elementari forniture, senza poter soddisfare i più naturali bisogni quotidiani di una vita sconvolta ormai un anno fa nel suo complesso, già da oltre un decennio nelle zone del Donbass e della Crimea.
Come osservano puntualmente strateghi militari e politologi più indipendenti, se si parla di pace si deve parlare anche di “zona smilitarizzata“, di una intercapedine tra i belligeranti, di una striscia di terra in cui, anche visibilmente, sia tangibile la tregua, la sospensione del conflitto, per procedere ad una intavolazione delle trattative. L’impressione che, fino ad ora, se ne ha è che Putin debba necessariamente andare avanti, pena la detronizzazione che gliene verrebbe con una sconfitta totale sul piano militare.
Zelens’kyj, dal canto suo, per rafforzare il suo ruolo politico nel dopo-guerra, deve proseguire nella sua campagna di liberazione totale dell’Ucraina, nel ritorno ai confini precedenti l’annessione della Crimea, riprendendosi tutti i territori conquistati dalla Russia e ottenendo in questo modo una consacrazione quasi eroica a padre della patria.
Il problema politico è qui tutto regionale, ricondotto ad una logica di piccole patrie ma, proprio per questo, paradossalmente amplificato e di tanto rispetto alla più grande – e forse meno complicata – questione globale tra le dinamiche imperialiste in atto.
Il ruolo che l’ONU non ha avuto fino ad oggi, potrebbe trovare spazio proprio in questi frangenti, nella disposizione di una forza di interposizione come i Caschi Blu, amministrando direttamente i territori sottratti alla furia della guerra, assumendo così il controllo della verifica sul campo della tregua, presupposto essenziale per il ritorno alla pace.
Al momento, invece, sembra che la guerra debba prolungarsi e di molto: lo lasciano intendere i proclami putiniani e zelens’kyjani sul riarmo a tutto tondo, tra richieste di armamenti sempre più pesanti da parte del governo di Kiev e rimbrottamenti di funzionari governativi moscoviti sui contratti di produzione per l’incremento della potenza di fuoco russa.
I due presidenti lamentano lungaggini burocratiche e tentennamenti: gli ucraini verso la Germania (mentre la Gran Bretagna sta per mandare i primi dodici carri armati sul fronte est con una sessantina di uomini addestrati allo scopo) e i russi sostituendo i comandanti militari e mandando presto al fronte altre centinaia di migliaia di soldati.
A questo proposito si parla già di “offensiva di primavera” da parte di Mosca e, quasi certamente, del tentativo di arrivare al Dnepr per avere un controllo di metà del paese invaso e la possibilità di contrattare una tregua nella cosiddetta “operazione speciale” (che ormai anche in Russia tutti chiamano apertamente “guerra“) che in queste settimane ha preso la forma di un confronto continuo di artiglieria, di missili che finiscono su abitazioni civili uccidendo decine e decine di persone.
Pare di essere ormai in una fase di stabilizzazione del conflitto, pur nella mutevolezza delle condizioni che lo riguardano su entrambi i fronti: il silenzio tedesco sulle forniture di carri armati, le sostituzioni dei vertici militari russi, il piano di arruolamento, da parte del Cremlino, di un milione e mezzo di uomini nei prossimi anni, con la divisione del paese in nuovi distretti, l’ostinazione occidentale ad includere necessariamente l’Ucraina nella NATO, l’esaurimento di scorte di munizioni vicendevole.
Sono tutti indicatori di una guerra che è lontana dal terminare con una azione diplomatica, praticamente inesistente, o con la prevalenza di uno dei due blocchi sull’altro. La tattica è fallimentare da entrambe le posizioni. La strategia, poi, è qualcosa di ancora, davvero più drammatico. Per il futuro dell’Europa, per quello del mondo intero.
MARCO SFERINI