Marx apprende l’italiano leggendo Dante e Machiavelli. La Divina Commedia e specialmente l’Inferno, nonostante l’orientamento metafisico di Dante, risultano essere in linea con gli interessi della vita di Marx, come il Faust di Goethe e la traduzione di Lutero della Bibbia.
di Lelio La Porta – Rifondazione.it
Vanno ricordati alcuni passi significativi dell’opera marxiana nei quali i versi danteschi assumono una torsione non soltanto descrittiva ma anche fortemente contenutistica se non perfino, in alcuni momenti, autobiografica. La conclusione della Prefazione del 1867 alla prima edizione del Capitale suona nel modo seguente:
Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!
In realtà, Marx opera una variazione rispetto al verso originale che suona così:
Vien dietro me, e lascia dir le genti…
A parlare è Virgilio; sostituendosi al poeta mantovano è come se Marx affidasse a se stesso il compito di percorrere le strade della ricerca seguendo i propri interessi. Ancora: Marx condivide con Dante la sorte di esule. Rispondendo ad “un insultante articolo di fondo del Times” nei confronti degli esuli, in particolare dei rifugiati politici, Marx, dalle colonne del New York Daily Tribune del 4 aprile 1853, risponde con le parole con cui l’antenato Cacciaguida, nel canto XVII del Paradiso, predice a Dante l’esilio ricordandogli com’è amaro il pane degli altri, elemosinato nella povertà dell’esilio, e com’è duro e penoso il cammino nello scendere e salire le scale degli altri in cerca di aiuto e di protezione. Chiosa Marx:
Beato Dante, un altro esponente di quella infelice categoria chiamata dei “profughi politici”, che i nemici non potevano minacciare con l’infamia di un articolo di fondo del Times! E ancor più beato il Times al quale non è capitato un “posto riservato” nel suo Inferno!
Eppure anche Dante avrebbe trovato difficoltà a descrivere come luogo infernale una manifattura di fiammiferi del 1833, luogo in cui la disumanizzazione e la brutalità del capitalismo trovano un’esemplificazione così bestiale da non poter essere espressa con un linguaggio letterario.
Secondo Marx l’aspetto più importante di tutte le letture di Dante è che l’Inferno costituisce un metro di paragone, un riferimento col quale caratterizzare e valutare l’inferno sulla terra che, a suo avviso, l’epoca vittoriana aveva creato per i poveri delle città e delle campagne.
Nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica Marx ricorre proprio all’Inferno per indicare la direzione ferma e decisa che seguirà nel suo percorso di ricerca, chiarendo le sue intenzioni con un piglio già esplicitamente polemico:
Questo schizzo nel corso dei miei studi nel campo dell’economia politica deve solamente servire a dimostrare che le mie concezioni, in qualsiasi modo si voglia giudicarle e per quanto coincidano ben poco con i pregiudizi interessati delle classi dominanti, sono il risultato di lunghe coscienziose ricerche. Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell’inferno, si deve porre questo ammonimento:
Qui si convien lasciare ogni sospetto
Ogni viltà convien che qui sia morta.
Sembra di poter dire che, attraverso Dante, Marx manifesti il nesso dialettico fra la certezza del suo percorso di ricerca e lo spirito polemico con cui l’affronterà avendo come massima Nihil Humani a me alienum puto (Terenzio) e come motto De omnibus dubitandum (Cartesio).
«…chi legge Dante con amore? I professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici», scrive Gramsci alla compagna Giulia il 1° giugno 1931. Gramsci vuole sottolineare che il suo approccio a Dante non è quello degli accademici e della cultura ufficiale, bensì è quello ideale e metodologico del marxismo che sa distinguere la valutazione estetica dalla compartecipazione all’ideologia dell’artista: Gramsci definisce il suo approccio la «filologia vivente». È grazie a questa impostazione che il detenuto 7047 dice di aver compiuto una «piccola scoperta» nel Canto X che servirà in chiave anticrociana e di reinterpretazione dello stesso Canto e del ruolo dei due protagonisti.
Nella lettera a Tania, sua cognata, del 21 settembre 1931, Gramsci scrive: «Io sostengo che nel decimo canto sono rappresentati due drammi, quello di Farinata e quello di Cavalcante e non il solo dramma di Farinata».
Questa è la «piccola scoperta»; mentre Farinata diventa quasi pedagogo, si fa struttura, Cavalcante è straziato dal dolore indicibile del padre che ignora la sorte del figlio, è lui il vero destinatario della legge del contrappasso riservata agli epicurei, vivere in un “cono d’ombra”. Il verbo «ebbe» del v. 63 («cui Guido vostro ebbe a disdegno») del Canto X dell’Inferno racchiude il segreto del dramma, il cuore poetico del Canto e collocarlo in posizione centrale spiazza tutti quei critici che scorgevano nel «cui» e nel «disdegno» le parole significative del verso.
Quello di Gramsci è un grande lavoro di «filologia vivente», «molecolare», che consente, come scriverà nelle note del Quaderno 4, ai «rappresentanti di un gruppo sociale subalterno» (si riferisce a se stesso) di «far le fiche» (il richiamo è al v. 2 del Canto XXV dell’Inferno), ad intellettuali ruffiani e di bassa lega il cui accademismo stride con la realtà di ciò che è profondamente e poeticamente umano.
Intervenendo ad una riunione sulla letteratura indetta nel maggio del 1924 dalla Sezione stampa del Cc del Pcr(b), Trotsky invitava a considerare l’opera di Dante nell’ottica della comprensione dello «stato d’animo di determinate classi di un’epoca determinata» senza sottovalutare il fatto che, comunque, la Divina Commedia poteva essere affrontata come un documento storico. Come trovare la sintesi fra le due esigenze? Bisogna, afferma Trotsky, «che questi sentimenti e stati d’animo raggiungano un’espressione così vasta, così intensa e possente, che li sollevi sopra la limitatezza della vita del tempo. Naturalmente, anche Dante è il prodotto di un determinato ambiente sociale. Ma Dante è un genio. Egli solleva le esperienze interiori della sua epoca a un’altezza poetica enorme. E se noi, mentre oggi trattiamo le altre opere d’arte medioevali soltanto come oggetto di studio, consideriamo invece la Divina Commedia come una fonte di percezione poetica, ciò avviene non perché Dante fu un piccolo-borghese fiorentino del XIII secolo, ma in notevole misura nonostante questa circostanza […]
E quando mi dicono che il significato poetico di Dante per noi è determinato dal fatto che egli esprime il modo di vita di una determinata epoca, non si può che restare perplessi. Sono convinto che molti come me, leggendo Dante, dovrebbero sforzare assai la memoria per ricordare il tempo e il luogo della sua nascita, eppure questo non impedirebbe di ricevere un piacere estetico, se non da tutta la Commedia, almeno da alcune sue parti. Poiché non sono uno storico della cultura medioevale, il mio rapporto con Dante è principalmente poetico. […] che i marxisti ci mostrino in che modo gli interessi di classe hanno dettato la Divina Commedia…un marxista italiano, il vecchio Antonio Labriola, scrisse all’incirca così: “Cercare di interpretare il testo della Divina Commedia coi conti delle pezze di panno, che gli astuti mercanti fiorentini spedivano ai loro committenti, è cosa che possono fare dei semplicioni soltanto”».
Soltanto un “semplicione”, come li definisce Labriola, potrebbe evincere dalle parole del filosofo di Treviri, autore insieme ad Engels del Manifesto del Partito comunista, del detenuto di Turi, rifondatore del Pcd’I, poi Pci, nel 1926, e del fondatore dell’Armata Rossa (attenzione alla prima vocale dell’aggettivo: è una “o” e non una “u”) che si potrebbe inserire Dante nella schiera dei marxisti e dei comunisti. Quello che diceva Togliatti di Gramsci, cioè che con lui, con il suo lascito teorico, etico e politico, non si doveva scherzare vale anche per Dante. Sarebbe facile, sulle orme di Carlo Verdone, fare il remake della nota scena di Un sacco bello utilizzando, al posto di Mario Brega, la figura del poeta e fargli dire: “Nun so’ communista così [solo un pugno sollevato], io so’ communista così…![con entrambi i pugni sollevati]”. Sarebbe come sparare sulla croce rossa ricordare cosa l’attuale ministro della cultura aveva detto, poche ore dopo aver giurato di fronte al Presidente della Repubblica, proprio di Gramsci, del quale voleva (forse vuole ancora, ahinoi!) diventare una sorta di patrocinatore, come avvenne da parte di qualcuno al Congresso di Fiuggi che determinò la transizione dal Msi ad Alleanza Nazionale. Gramsci (che si scagliava contro la filosofia della prassi, disse il ministro, ossia Gramsci che dava le testate al muro facendo della spina dorsale del suo impianto teorico, appunto la filosofia della prassi, oggetto di distruzione), Leopardi e altri stanno per assidersi, secondo Sangiuliano, nel Pantheon della destra avendo Benedetto Croce quale nume tutelare.
E se non vorranno assidersi, certo non dirà loro di accomodarsi per favore; li farà sedere per forza, come sta accadendo a Dante che, essendo esule, già soltanto per questo, non può rientrare nella prospettiva culturale di chi è contro esuli e rifugiati e di chi ha come parenti, neanche molto lontani, coloro che condannavano gli oppositori all’esilio, proprio come accadde al Sommo Poeta. A parte il fatto che l’ex Direttore del Tg2 usa i termini sbagliati: destra e sinistra sono concetti che cominciano ad avere un senso con la Rivoluzione francese e da noi con il primo Parlamento dell’Italia unita per approdare ad un significato più prossimo a quello novecentesco, almeno nel nostro paese, con la presenza del primo deputato socialista in aula (ci scusi il senatore Gasparri, non ce ne voglia, sa che non vogliamo fare lezioni di storia a nessuno!!!; in ogni caso, per non spingerlo a dover leggere qualche manuale ad uso dei Licei, possiamo fargli presente che si tratta di Andrea Antonio Baldassarre Costa, eletto nel 1882, e sempre rieletto fino alla morte sopraggiunta nel 1910). Anche definire Dante reazionario non lo colloca nell’universo della destra, come spiega bene Luciano Canfora (intervista del 16 gennaio alla Stampa), in quanto al termine va dato il significato che gli compete. Allora? Si tratta soltanto di una mossa da propaganda del tipo Minculpop oppure c’è dell’altro?
Francamente si spera soltanto di non dover continuare a discutere intorno a quelle che, con termine di indubbia origine oxfordiana e molto utilizzato alla Sorbona per la sua raffinatezza, Cacciari ha definito “puttanate” (intervista del 14 gennaio alla Repubblica).
A cittadine e cittadini quali noi siamo, alieni da ogni forma di arrendevolezza, sia essa politica sia essa culturale, per nulla, quindi, dimissionarie e dimissionari nella quotidiana battaglia delle idee, non resta che ripetere, con umiltà, proprio i versi del Poeta rivolti a chi manipola, mistifica e non si ricorda di quell’esercizio che il ruolo ricoperto quasi obbliga a fare, poco alla volta, ma ogni giorno, cioè studiare:
«non ragioniam di lor, ma guarda e passa».