Notizie di stampa e numerosi commentatori all’inizio del 2023 ritengono che la ratifica da parte del governo Meloni del MES sia imminente o, se non immediata, ineluttabile; perciò è utile tornare sull’argomento: viste le sue origini e il suo assetto, occorre valutarne le prospettive in vista.
Il testo che riforma il Trattato istitutivo del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) è stato approvato dall’Eurogruppo nel giugno del 2019 e dovrà essere adottato ufficialmente da tutti i Capi di Stato e di Governo dell’area euro. L’Italia è rimasto l’unico paese a non aver proceduto in tal senso, e nella evidente impossibilità di modifiche al testo già approvato dagli altri membri, si trova di fronte ad uno scenario “prendere o lasciare”.
Ci sono molte ragioni per le quali l’Italia dovrebbe “lasciare”, ovvero opporsi alla ratifica del nuovo Trattato. I dettagli della riforma sono stati spiegati molto bene su Aspenia e molti aspetti critici sono già stati rilavati dal Centro Europa Ricerche durante l’audizione alla Camera dei Deputati il 20 Novembre scorso. Qui ci soffermeremo solo su alcuni punti particolarmente critici della riforma.
La prima ragione per lasciare è di tipo quasi filosofico. Il MES nasce come strumento emergenziale durante la cosiddetta crisi dei debiti sovrani della zona euro per prestare a tassi “agevolati” risorse a quegli Stati che avevano perso accesso a tassi sostenibili sul mercato dei titoli di Stato. Il MES si sostituiva quindi agli investitori privati ed i prestiti erogati venivano associati agli ormai famosi programmi di aggiustamento della Troika: soldi in cambio di “riforme strutturali” e tagli alla spesa pubblica. Riformare, e quindi rendere permanente il MES, significa prospettare un futuro nel quale il tossico e controproducente “metodo Troika” passa dall’essere emergenziale al diventare normale amministrazione. Anche ponendosi in un’ottica federalista, non si capisce come una decisione che cristallizza la spaccatura fra “debitori” e “creditori” nella zona euro, possa essere considerata positiva per il perseguimento dell’integrazione europea.
La seconda ragione è relativa alla natura dello strumento stesso. Il MES presta euro a Stati la cui valuta è l’euro. Questo è estremamente strano ed inedito. Nonostante ci siano stati tentativi di rinominare il MES “Fondo Monetario Europeo”, la differenza con il vero Fondo Monetario Internazionale (FMI) non potrebbe essere più profonda. Il FMI infatti presta ai governi valuta estera, non nazionale (per la precisione, i prestiti sono denominati in SDR – Special Drawing Rights – una sorta di moneta sintetica il cui valore è basato su un paniere di valute). Questo permette a paesi (per esempio l’Argentina) con debiti pubblici o privati in valuta estera (come il dollaro) di rimpolpare le proprie riserve valutarie internazionali in un momento di crisi (per esempio dovuto al crollo delle sue esportazioni).
In nessun caso il FMI presterebbe pesos all’Argentina, perché la Banca Centrale Argentina può creare pesos a piacimento. All’interno della zona euro invece gli Stati membri si trovano nella peculiare situazione di aver adottato, come loro unica valuta avente corso legale, una moneta di cui non controllano più l’emissione. La Banca Centrale Europea, che in qualunque altro Paese al mondo sarebbe un’agenzia pubblica al servizio del governo, si trova quindi a far parte della Troika, ovvero presta denaro ai propri governi a rigide condizioni e con la pretesa di essere rimborsata. Sottoscrivere la riforma del MES significa quindi convalidare questo meccanismo che paradossalmente porta i Paesi della zona euro nella direzione opposta a quella di “democratizzare” l’euro, di creare un bilancio e un governo comuni nella zona euro. In questo modo, invece, si rende la moneta unica sempre più simile ad una “valuta estera” sulla quale i governi non hanno controllo.
La terza ragione riguarda la natura delle riforme proposte. Innanzitutto il MES verrà incaricato di svolgere il ruolo di “backstop” (o rete di sicurezza) del Single Resolution Fund (SRF). Il SRF è stato istituito con un Regolamento dell’Unione Europea nel quadro della cosiddetta “Unione Bancaria”; si tratta di un fondo che dovrebbe consentire la risoluzione di banche in fallimento fornendo garanzie, prestiti ponte, pagando compensazioni agli azionisti, etc. Il fondo è alimentato interamente da contributi privati di banche e istituti di investimento europei. Il MES dopo la riforma potrà, in caso di necessità, prestare risorse all’SRF qualora i fondi privati raccolti si rivelassero insufficienti a coprire i costi relativi alla liquidazione degli istituti bancari falliti. In teoria il prestito del MES dovrebbe essere ripagato nei tre anni successivi attraverso contributi dello stesso SRF, sarebbe quindi “neutrale” dal punto di vista della finanza pubblica. Il condizionale è però d’obbligo, perché in realtà le cose potrebbero non filare così lisce. Il meccanismo potrebbe funzionare bene nel caso di una piccola banca che andasse in crisi in modo isolato; difficilmente invece potrebbe rivelarsi sufficiente a risolvere una crisi sistemica nella quale fallissero grossi istituti di credito. Si preannunciano quindi scenari in cui ci potrebbero essere grossi oneri di finanza pubblica derivanti dall’utilizzo di questo backstop.
Infine, la riforma prevede la creazione di due differenti linee di credito per gli Stati che ne avessero bisogno. La prima, detta “precauzionale”, è una linea di credito senza condizioni (ovvero senza ricorso ai programmi della Troika) per governi con “fondamentali solidi” e che non presentino “squilibri eccessivi”. Ciò significa che potranno attingere a questo credito incondizionato solo paesi che rispettino i famosi parametri di Maastricht sul deficit e sul debito (rafforzati dal Fiscal Compact) e non abbiano squilibri macroeconomici, definiti nel 2011 dalla Procedura per Squilibri Eccessivi (PSE). In altre parole, la linea di credito precauzionale non sarà disponibile per i paesi che più ne avranno bisogno, poiché è presumibile che nessun paese con i “fondamentali solidi” si troverà mai nella situazione di dover chiedere un prestito al MES mentre nessun paese costretto a rivolgersi al MES avrà conti pubblici in ordine e una situazione di equilibro macroeconomico. Tuttavia per puro esercizio intellettuale potremmo chiederci se paesi come la Germania e i Paesi Bassi, che regolarmente violano uno dei parametri della PSE – quello per eccesso di surplus commerciale – saranno mai privati della linea di credito precauzionale qualora ne avessero bisogno…
La seconda linea di credito, ‘rafforzata’, è invece quella prevista per i paesi che non rispettano i parametri di deficit e debito ed hanno squilibri eccessivi. Ovvero quelli che davvero hanno bisogno dei prestiti del MES. In questo caso, per ottenere il credito il governo dovrà sottoporsi ad un programma di aggiustamento dettagliato in un Memorandum of Understanding. Dovrà cioè accettare le riforme e la sorveglianza della Troika. Tutto ciò non sembra molto diverso dal vecchio MES, che in fondo faceva esattamente questo. Tuttavia la riforma del MES prevede che tutti gli Stati membri emettano titoli di stato con una nuova clausola (single-limb collective action clause) che renderà più rapida la decisione di ristrutturare il debito pubblico qualora esso sia giudicato non sostenibile dal MES (in un’analisi congiunta con la Commissione Europea). Quest’ultimo aspetto è particolarmente rilevante per paesi come l’Italia, ad alto debito pubblico, poiché l’introduzione di una simile clausola porterebbe gli investitori a ritenere molto più rischioso investire in titoli di Stato italiano e quindi a richiedere tassi di interesse più elevati. Alle prime avvisaglie di crisi, inoltre, gli investitori potrebbero volersi sbarazzare rapidamente dei titoli italiani onde evitare di subire una “ristrutturazione” (in pratica, un default) dei propri investimenti. Ciò creerà una dinamica negativa per i titoli italiani in tempi normali, ed una dinamica “pro-ciclica” in tempi difficili, accelerando e acuendo eventuali crisi e spingendoci più rapidamente fra le braccia della Troika.
Alcuni potrebbero obiettare che la condizione degli Stati della zona euro non è poi molto diversa da quella degli stati degli Stati Uniti d’America: in entrambi i casi i singoli stati non hanno controllo sulla moneta ed anche per gli stati USA sono previsti meccanismi di default. Il problema con questa analogia è che, prescindendo dal giudizio se sia o meno desiderabile seguire il modello USA, in America esiste un governo federale che copre la stragrande maggioranza della spesa pubblica (pari a circa il 25% del PIL USA) e che in caso di necessità effettua ingenti trasferimenti verso i singoli Stati (in modo automatico e incondizionato, fino ad oltre il 20% del PIL degli Stati maggiormente in difficoltà). Niente di tutto questo esiste nella zona euro.
L’ultima argomentazione addotta da chi vorrebbe firmare questo trattato è quella della cosiddetta “logica di pacchetto”: il nuovo trattato MES non è probabilmente favorevole agli interessi italiani, però approvandolo potremmo avere anche una convergenza degli altri stati sull’approvazione dell’Assicurazione Europea sui Depositi e sul bilancio per la zona euro.
L ’Assicurazione Europea sui Depositi secondo i desideri tedeschi dovrebbe contenere delle clausole per calcolare il valore dei titoli di stato detenuti dalle banche sulla base del loro rating. Ovvero titoli con rating basso, come quelli italiani, perderebbero valore e quindi ridurrebbero la capitalizzazione degli istituti di credito. Di conseguenza, questi ultimi avrebbero un incentivo a vendere titoli italiani e comprare titoli tedeschi (facendo perdere ulteriore valore ai primi e guadagnare ai secondi). Sebbene slegata dalla riforma del MES, quest’ulteriore riforma sarebbe un vero e proprio colpo di grazia per il settore bancario e la finanza pubblica italiana.
Il cosiddetto bilancio per la zona euro – di cui ormai non si parla praticamente più – sarebbe invece uno strumento di dimensioni insignificanti, con una struttura assolutamente rigida (l’obiettivo di stabilizzazione macroeconomica è intenzionalmente escluso). Tale ragionamento resta valido anche considerando lo strumento del Next Generation EU, che vede il coinvolgimento del bilancio comunitario per ripagare la parte dei grants (sovvenzioni), per il quale è stato alzato il livello dei finanziamenti degli Stati membri a beneficio dei fondi controllati direttamente dalla UE; sia perché il NGEu, – la cui entità difficilmente può considerarsi decisiva sul piano macroeconomico – è considerato uno strumento contestuale al post-Covid, e non permanente, sia perché il funzionamento del NGEu amplifica i difetti dei finanziamenti comunitari – imponendo condizionalità tali da mettere in questione la stessa sovranità democratica dei parlamenti nazionali.
Risulta quindi molto arduo trovare all’interno di questo “pacchetto” gli elementi convenienti per un paese come l’Italia. La “logica di pacchetto” avrebbe senso nel caso in cui i vantaggi superassero gli svantaggi; questo caso invece assomiglia più a un “pacco”, da non farsi rifilare.
Considerati tutti i punti di cui sopra, è davvero difficile trovare ragioni per sostenere la riforma del MES, sia che la si guardi attraverso la lente del “federalismo europeo”, sia che la si valuti con il metro dell’interesse nazionale. Il MES continuerà a seminare odio e risentimenti fra i paesi della zona euro e perpetuerà gli stereotipi di un’Europa divisa fra cicale e formiche, fra Stati responsabili e PIGS.
A chi paventa l’isolamento dell’Italia in caso di non ratifica, andrebbe ricordato che recentemente la Francia – da sola – si è opposta ai negoziati di adesione all’Unione Europea di Albania e Nord Macedonia. Nonostante ciò, nessuno ha isolato la Francia e nessuno ha smesso di considerare Macron il campione continentale di europeismo. Dire no alla riforma del MES rallenterebbe, per una volta, la spirale regressiva delle riforme della zona euro portate avanti sin qui. Sarebbe un’evoluzione positiva che soprattutto gli europeisti più convinti dovrebbero supportare