di Giacomo Gabellini per l’AntiDiplomatico
Lo scorso 20 gennaio, i 40 Paesi riunitisi presso la base Nato di Ramstein hanno definito quantità e tipologie di sistemi d’arma da fornire all’Ucraina. Nello specifico, gli Stati Uniti si sono impegnati a consegnare sistemi mobili Avenger, veicoli a ruota Stryker, Mrap e Hummer, mezzi corazzati M-2 Bradley più quasi 300.000 proiettili per i cannoni di cui sono dotati, missili anticarro Tow, munizioni per i sistemi Nasams e Himars, mine antiuomo M-18 Claymore e decine di migliaia di proiettili d’artiglieria da 105, 120 e 155 mm. Il controvalore – 2,5 miliardi di dollari – delle armi inviate nell’ambito di questo nuovo pacchetto porta l’ammontare complessivo dell’assistenza militare assicurata dagli Stati Uniti all’Ucraina a qualcosa come 24,7 miliardi di dollari. Nel computo occorrerà peraltro inserire i 31 carri armati di fabbricazione statunitense M-1 Abrams che, stando alle dichiarazioni del Pentagono e del presidente Biden, dovrebbero arrivare in Ucraina entro l’autunno del 2023.
Altrettanto imponente si rivela l’entità del sostegno predisposto dalla Gran Bretagna, comprensivo di 14 carri armati Challenger-2, mezzi corazzati Crarrv, cingolati da combattimento Bulldog e Spartan, elicotteri Sea King, droni, missili Starstreak, Araam e Brimstone, obici semoventi da 155 mm e munizionamento di vario genere.
Attorno alla Polonia va tuttavia emergendo una folta schiera di comprimari, a partire dai Paesi baltici: l’Estonia ha predisposto l’invio di obici da 155 e 122 mm, oltre a un cospicuo numero di munizioni e di armi anticarro; la Lettonia ha assunto l’impegno non solo a fornire missili Stinger, elicotteri Mi-17, droni, mitragliatrici e pezzi di ricambio, ma anche ad addestrare ulteriori 2.000 soldati ucraini, che vanno a sommarsi ai 1.000 formati lo scorso anni; la Lituania invierà invece cannoni antiaerei da 40 mm, elicotteri Mi-8 e pezzi di ricambio. Il contributo della Repubblica Ceca verte sulla fornitura di obici semoventi da 155 mm, mentre quello del Canada sulla consegna di 200 veicoli Senator, più una batteria di difesa aerea Nasams. L’Olanda, dal canto suo, ha messo a disposizione dell’Ucraina due batterie di Patriot, mentre la Svezia, che vede le proprie prospettive di ingresso nella Nato frustrate dall’irremovibilità provvisoria della Turchia, ha pianificato l’invio di cingolati Cv-90, obici da 155 mm e lanciarazzi Nlaw. La Finlandia, la cui adesione all’Alleanza Atlantica rimane anch’essa appesa a un filo, ha invece specificato soltanto il controvalore (400 milioni di euro) delle attrezzature belliche consegnate a Kiev senza entrare pubblicamente nel merito delle tipologie di armi fornite. Un po’ come l’Italia, che non ha fornito dettagli circa l’assortimento dell’ultimo pacchetto di assistenza militare all’Ucraina, che dovrebbe comunque includere il sistema di difesa aerea Samp-T. La Danimarca, al contrario, si è addirittura spinta a privarsi di tutti i propri 19 semoventi da 155 mm Caesar che erano stati ordinati dalla Francia per sostituire gli obici dello stesso calibro che erano già stati consegnati nel corso dei mesi precedenti all’Ucraina. «Si tratta del primo caso in cui un esercito della Nato si priva totalmente delle sue capacità in un settore specifico (in questo caso l’artiglieria) per fornire la totalità dei suoi mezzi a Kiev», evidenzia «Analisi Difesa».
Quello della Danimarca è un caso estremo ma altamente rivelatorio circa le enormi difficoltà in cui tutti i Paesi membri della Nato schieratisi a favore di Kiev stanno imbattendosi nel reggere i ritmi forsennati che scandiscono il conflitto russo-ucraino. Vale a dire una guerra sostanzialmente simmetrica, considerando il contributo determinante in termini militari e di intelligence assicurati all’Ucraina dall’Alleanza Atlantica, e ad altissima intensità, implicante cioè una gigantesca profusione di mezzi e risorse. Stando alle confidenze rese da un alto rappresentante della Nato al «New York Times» in merito alla situazione vigente lungo la “linea di contatto” nel Donbass nell’estate del 2022, gli ucraini sparavano qualcosa come 6-7.000 colpi di artiglieria al giorno; i russi, 40-50.000. Nel corso della ventennale operazione militare Nato in Afghanistan, sono stati esplosi non più di 300 colpi di artiglieria al giorno. Allo stato attuale, con i suoi 15.000 proiettili d’artiglieria fabbricati ogni mese, nemmeno il poderoso “complesso militar-industriale” statunitense riesce a stare al passo con l’andamento del conflitto. Figurarsi le nazioni europee, la cui inadeguata produzione industriale a fini bellici le ha costrette ad attingere alle riserve strategiche fino a mettere a repentaglio la propria capacità difensiva per soddisfare l’insaziabile domanda di armi da parte di Kiev. Ad essere sacrificati non sono infatti soltanto “ferrivecchi” da cui vengono comunque prelevate componenti da riciclare come parti di ricambio per mezzi maggiormente avanzati, ma anche sistemi d’avanguardia di limitata disponibilità come i Samp-T italiani. Per non parlare dei carri; alla vigilia dello scoppio della guerra, Germania, Francia e Italia combinate disponevano di meno di 4.000 carri armati (di cui 800 operativi), a fronte degli oltre 10.000 (di cui 3.330 operativi) in dotazione alla Russia.
Il PUNTO DI VISTA (MILITARE) DEGLI USA
Non è un caso che gli Stati Gli Stati Uniti abbiano implementato la fabbricazione ex novo dei carri armati Abrams da inviare in Ucraina, in conformità al duplice obiettivo di foraggiare l’influentissimo “complesso militar-industriale” e preservare allo stesso tempo scorte di sistemi d’arma giudicati vitali per la gestione di altre crisi internazionali come quella incentrata su Taiwan. Coniugandosi con la disarticolazione delle catene di approvvigionamento globali verificatasi sulla scia della pandemia da Covid-19, la necessità di rimpinguare gli arsenali ucraini ha del resto comportato l’accumulo di forti ritardi nella fornitura di materiale bellico a Formosa. Si parla di mancate consegne per un valore complessivo pari a 14,2 miliardi di dollari, comprensive di caccia F-16, velivoli da ricognizione Ms-110, obici Paladin e missili Patriot, Stinger, Harpoon e Slam-Er.
Si vengono così a creare le condizioni per quel sostanziale incremento della produzione industriale invocato con forza dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg non soltanto in un’ottica di fiancheggiamento dello sforzo militare ucraino, ma anche di ricostituzione delle riserve strategiche dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, visto l’esaurimento delle scorte di sistemi d’arma, munizioni e pezzi di ricambio di fabbricazione sovietica da inviare a Kiev. In questa direzione si sono già orientati i membri europei della Nato, i quali hanno votato compattamente l’allineamento della spesa militare al limite minimo previsto dal Patto Atlantico (la Germania ha addirittura varato un aumento della spesa militare di 100 miliardi di euro). Anche compagnie belliche del “vecchio continente” quali Krauss-Maffei Wegmann, Rheinmetall e Leonardo-Finmeccanica si sono mosse, disponendo un incremento della produzione di carri armati e radar sulla scia degli ottimi risultati conseguiti in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino.
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Affinché il conflitto prenda una piega solidamente favorevole a Kiev occorre tuttavia predisporre uno sforzo generalizzato di gran lunga più intenso, implicante in primo luogo il drastico e continuativo drenaggio di risorse verso il settore della difesa da far digerire ad un’opinione pubblica impoverita e sempre meno aderente alla linea dello scontro con la Russia promossa dalla Nato. Dal 24 febbraio 2022, nello specifico, l’Unione Europea ha inviato forniture militari all’Ucraina per un importo quantificabile in circa 30 miliardi di euro. L’ammontare potrebbe tuttavia salire a una cinquantina di miliardi, qualora la struttura comunitaria dovesse tener fede all’impegno assunto dalla presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen di consegnare a Kiev attrezzature belliche per un controvalore di 18 miliardi di euro entro il 2023.
L’UNIONE EUROPEA ALL’ANGOLO
D’altro canto, la fornitura di materiale bellico in grado di porre l’Ucraina nelle condizioni di resistere all’urto russo presuppone per l’Unione Europea la perfetta funzionalità di catene di approvvigionamento adeguate. La dipendenza netta dall’estero per quanto concerne l’accesso alle materie prime combinata alla preclusione del fondamentale fornitore russo obbliga il “complesso militar-industriale” del “vecchio continente” a cimentarsi nella ricerca affannosa di canali alternativi, con conseguente allungamento dei tempi – che l’Ucraina non può assolutamente permettersi – e incremento delle pressioni inflazionistiche sulle materie prime destinate a scaricarsi inesorabilmente sui costi di produzione.
Le difficoltà colossali che si stagliano dinnanzi all’industria bellica europea e gli sbilanciatissimi rapporti di forza in seno alla Nato lasciano supporre che il “keynesismo militare” messo in cantiere dall’Unione Europea sfoci in un vero e proprio diluvio di sistemi d’arma statunitensi sul “vecchio continente”, che combinandosi all’afflusso massiccio di gas naturale liquefatto Usa a prezzi esorbitanti concorrerà a correggere il pesante squilibrio commerciale vigente tra le due sponde dell’Atlantico. L’incremento del prezzo dell’energia e delle materie prime sottrae competitività al “vecchio continente” e spinge le industrie europee a spostare la produzione negli Stati Uniti, dove al costo degli input nettamente inferiore si sommano gli incentivi alla rilocalizzazione sul suolo nazionale previsti da norme come l’Inflation Reduction Act, approvato dal Congresso e promulgato da Biden nell’agosto del 2022.
La reindustrializzazione degli Stati Uniti sembra quindi passare per il sacrificio dei vassalli europei, che al netto di qualche tardiva e ininfluente protesta assistono passivamente non solo alla propria desertificazione manifatturiera, ma anche a un incessante deflusso di capitali andato puntualmente a mitigare – di quasi 2.000 miliardi di dollari in appena otto mesi – la posizione finanziaria netta degli Usa. L’instaurazione di un clima finanziariamente sfavorevole sul teatro europeo determinatasi sulla scia di quel conflitto russo-ucraino che gli Stati Uniti hanno fomentato con ogni mezzo a loro disposizione ha infatti stimolato la fuoriuscita di liquidità dal “vecchio continente”. A settembre, Isabella Rosenberg di Goldman Sachs evidenziava che l’Europa perdeva ininterrottamente capitali d’investimento da ben 24 settimane, buona parte dei quali si era reindirizzata proprio verso il “porto sicuro” statunitense ridimensionandone le passività nei confronti dell’estero.