La dichiarazione del ministro della cultura Sangiuliano su Dante Alighieri, designato come il precursore del pensiero di destra è degno di una riflessione che riguarda l’incapacità italiana di fare del proprio passato una linea di orientamento per il futuro. Una visione strategica e unitaria del paese di appartenenza non può estinguersi nella gestione del presente, deve ricollegarsi a miti fondativi, condivisi, elaborati dopo lunghe riflessioni dalla comunità intellettuale, accademica, culturale per fornire una continuità con il passato in vista di una proiezione futura, progettuale, fatta di valori e idealità. Una visione strategica in Italia c’è stata in passato, ora è completamente assente, sostituita dal vivere alla giornata (elettorale), nel succedersi di un’esecutivo ad un altro, composti di persone per lo più ignare. Fare del sommo poeta – il più celebrato rappresentante della poesia e della cultura italiana a livello mondiale, che parlava di unità italiana nei secoli medievali e auspicava un equilibrio e una divisione dei poteri temporale e spirituale, indicando così la strada da seguire per le generazioni future – il rappresentante di una singola parte, anziché del “tutto” italiano, è simbolicamente la più significativa di questa inconsapevolezza italiana. Non solo una falsità storica, ma un errore che rivela, appunto, l’inadeguatezza dei politici italiani a fondare l’Italia su elementi unificanti del suo passato storico. Dante è uno di questi. Ma nessuno parla più del Risorgimento (non vi è una festa nazionale che lo celebri), come mito fondativo dell’identità italiana. Il ministro in questione avrebbe potuto, di fronte alle sfide poste dall’immigrazione e alla necessaria risposta di integrazione che queste richiedono, vivificare il dibattito spentosi intorno alla complessità del processo storico, politico e culturale del Risorgimento; fare da innesco per un confronto pubblico e costruttivo sull’eredità che la comunità riceve da esso per leggere il presente alla luce di un’analisi critica del passato. Perché, come dice il manifesto della Public History Italiana[1], “la crescita di una piena e consapevole cittadinanza passa attraverso una più diffusa conoscenza del passato, che consenta il superamento dei pregiudizi e delle paure che vanno moltiplicandosi nella contemporaneità”. Altrimenti a quali altri scopi dovrebbe votarsi un Ministero della Cultura? Se non quello di stimolare il dibattito pubblico rispetto alle modalità in cui riflettere sulla costruzione dell’identità nazionale in una società in continua trasformazione? Per essere nazione è necessario elaborare un passato condiviso che dia un senso alle azioni politiche oggi.
Un’altra dichiarazione di un ministro del governo (stavolta quello dell’Istruzione e del merito, Valditara) rivela tutta la inadeguatezza di questa classe politica. Segno che ormai i ministri si muovono seguendo la tattica dell’ annuncio pubblico per creare rumore mediatico, per indicare agli occhi di tutti quale potrebbe essere l’azione di governo, salvo poi ritirare tutto alle prime contestazioni. E riproporre su un altro piano, la settimana successiva, lo stesso meccanismo. Il Ministro in questione dichiara di voler fare entrare i privati nella scuola pubblica perché lo stato non è più in grado di sostenere le spese necessarie al settore dell’istruzione, compresi gli stipendi degli insegnanti che andrebbero “rivisti” e adeguati alla variabilità del costo della vita sul territorio nazionale. Dichiarazioni che fanno impallidire il disegno dell’ “autonomia differenziata”, in forza di un liberismo spinto senza ormai più freni, dove anche l’ultimo baluardo dell’unità nazionale, l’istruzione pubblica, viene fatto a pezzi. Indifferenza del Ministro al fatto che la scuola è già stata fatta a pezzi da anni di interventi divisivi e svalorizzanti del suo ruolo formativo critico, per prediligere una funzione economica (il collegamento al mondo lavorativo) rivelatasi fallimentare. Un altro settore che dovrebbe essere la base di partenza in cui elaborare valori fondanti lo Stato, verrebbe così degradato e depredato dai privati che, secondo l’ingenuità del ministro Valditara, entrerebbero, così, per puro filantropismo nel campo dell’istruzione, senza voler orientare e predisporre il sistema ai loro interessi. Ma è tutta la pantomima dichiarazione-sollevazione-marcia indietro, già vista innumerevoli volte, a segnare anche in questo caso l’inerzia e l’abulìa della classe dirigente italiana.
Ma, come se non bastasse vi è un’ulteriore intempestività del Governo che ne rivela l’approssimazione e il pressapochismo, riguardante l’eterna discussione sulla giustizia. Ruotante nuovamente intorno alla questione delle intercettazioni, un cavallo di battaglia berlusconiano da trent’anni (il quale non per nulla ha intessuto gli elogi del Ministro della Giustizia). Un altro segnale di avvelenamento, di declino e di degrado del dibattito pubblico italiano, laddove l’opinione pubblica percepisce che i problemi della giustizia non sono legati alle intercettazioni e che le dimensioni della questione intrecciano politica e magistratura.
Ma il vero tradimento politico rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale, si è compiuto sulla questione delle accise sui carburanti. Occasione in cui questo governo dichiarantesi sovranista posto di fronte ad una crisi sociale sistemica, cha ha pochi paragoni con il passato perché nuova nella sua articolazione (fatta di diversi elementi, non solo economici) non è voluto intervenire per ridurre l’esposizione al mercato dei prezzi del carburante, con un atto che sarebbe stato percepito come di giustizia sociale. Un’azione politica che, ricordiamolo, è riuscito a fare il governo di Mario Draghi iperliberista, ma non il governo Meloni sovranista. Anche il valore fortemente simbolico di questo paragone, che avrebbe valso considerazioni politiche diverse, non è stato colto dal governo, il quale ha preferito attenersi ai conti (nella la più tradizionale matrice ordoliberista europea). Un prospettiva che induce a chiedersi quale sarà il prossimo tradimento in lista che il governo Meloni presenterà al paese.
Le dichiarazioni piene di afflato strategico della premier Meloni riguardanti “l’interesse nazionale” non devono ingannare. Gli incontri che il primo ministro sta portando avanti in questi giorni con alcuni leader arabi per le forniture energetiche sono anch’essi disegni strategici già messi ampiamente in campo dal governo precedente che di tutto si può accusare tranne, date le nuove condizioni internazionali provocate dalla guerra in Ucraina , di non essersi accorto che l’Italia possiede un estero vicino anche dal lato sud, con il quale tornare in sintonia dopo anni segnati dal disinteresse che ha favorito l’emergere di altre potenze regionali nell’area mediterranea e decretato l’irrilevanza italiana.
Una tale sequela di discorsi improvvisati che scandiscono le giornate per poi sgonfiarsi il giorno dopo non possono però essere attribuiti al caso, ma indicano un disegno ben preciso: la tattica di saggiare l’opinione pubblica sulle ambizioni ideologiche che guidano l’azione di governo sintetizzabile in un neoliberalismo autoritario, con il culto dell’impresa e del capitale,mascherato da finto patriottismo e riconoscibile nei provvedimenti finora emanati. Una tattica che ha il fiato corto ma che è già tutto ciò che resta al governo Meloni.
[1] La Public History (storia pubblica) è una disciplina cha ha origine nel mondo anglosassone negli anni settanta, in Italia dal 2016 . Lo scopo degli storici che vi operano è, tra gli altri, di contrastare le pratiche di abuso della storia e di mistificazione del passato finalizzate alla manipolazione dell’opinione pubblica. Il nome in inglese è stato mantenuto per evitare sovrapposizioni con l’italiano “uso pubblico della storia”.