Non mi ha mai convinto l’idea che uno Stato federale fosse la migliore soluzione per dare ancora maggiore valorizzazione alle autonomie locali. Né in riferimento alle regioni già costituzionalmente a statuto speciale, né, tanto meno, riguardo quelle a statuto ordinario.
E questo non per una avversione o per un pregiudizio, che potrei definire quasi “storici“, miei personali nei confronti del modello federalista, ma perché la Repubblica nata nel 1946 aveva trovato immediatamente dopo, nel testo della sua Carta fondamentale una perfetta condivisione di necessità, almeno nelle intenzioni, tra centralismo e devoluzione dei poteri.
L’Italia, paese giovane, al pari della Germania, non aveva di questa le caratteristiche sociali, economiche e il retroterra storico e culturale per poter abbracciare il modello federalista. Al contrario, uno Stato molto centralizzato avrebbe meglio assorbito i contraccolpi del destino post-unitario, malamente messo insieme in un Risorgimento i cui due unici punti di svolta popolare e di vero sentimento nazionale erano stati la Repubblica Romana del 1849 e la Spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi.
Per questo, l’esasperazione secessionista della Lega Nord, concretizzatasi in quella serie di carnascialesche manifestazioni pseudo-celticheggianti, fatte di fiumi, ampolle, comizi in laguna, rieditazione di simbologie ancestrali di un passato sconosciutissimo alle stesse genti padane, era apparso come un allarme più che altro di un ceto medio borghese che reclamava il suo posto in una economia nazionale dominata dal confindustrialesimo.
I “padroncini del Nord Est” erano stati, nostro malgrado, i protagonisti di una stagione della politica in cui le forze autonomiste prima, secessioniste poi, avevano dominato la scena di un rimescolamento delle carte, dando alla geografia del Parlamento una serie di nuovi contorni, di confini e di misure su cui ritmare il dibattito tanto interno quanto estero.
A calmare un poco gli animi delle classi che volevano essere dirigenti per sostenere esclusivamente i loro personalissimi interessi, ci pensò l’ondata di liberismo che, a partire dagli anni ’80 e ’90 investì l’economia e, quindi, la politica nazionale: privatizzazioni ovunque, liberalizzazioni, espansione del mercato nei settori pubblici ridimensionati in quanto a partecipazione dello Stato, distruzione delle garanzie essenziali del mondo del lavoro, precarietà e flessibilità su tutto e su tutti.
Questo ciclo, oggi, pare non essersi ancora chiuso ma, di certo, è entrato in una crisi verticale, che lo domina tutto quanto: la pandemia, la guerra per procura in Ucraina e quella economica e finanziaria, completamente imperialistica tra Cina e Stati Uniti d’America, hanno spazzato via i residui di un localismo degli interessi che sono sovrastati sempre di più da una globalizzazione che cerca nuovi ambiti di mercato, che individua nuovi (si fa per dire) continenti come l’Africa in cui far entrare un neo-colonialismo tutto moderno.
Gli Stati nazionali fanno fatica a tenere il passo con le superpotenze emergenti o riemergenti: tra tutte queste, il complesso disarticolato dell’Unione Europea è certamente, nonostante ne abbia tutte le caratteristiche, il combinato disposto di interessi più fragile, il vaso di coccio tra quelli di ferro.
Russia, Cina e USA vivono la contesa mondiale dei mercati attraverso i conflitti che sono riusciti a sviluppare in questi decenni, alimentando da un lato il nazionalismo esasperato da una sindrome di accerchiamento (che pure esiste, perché la NATO non è proprio così lontana dai confini russi), dall’altro i nazionalismi locali, messi l’uno contro l’altro, esacerbati dai miraggi di conquista del potere da parte di nuove caste di potere emerse dalle guerre di religione e da quelle del terrorismo divampate tanto nel Medio Oriente quanto nel Sahel e nel Corno d’Africa.
Lo spazio per le diatribe politiche sulla costituzione interna dei singoli Stati pare lasciare il posto a dinamiche maggiori, ben più dirimenti rispetto all’attenzione che, invece, si dovrebbe avere per la prossimità che ci riguarda, per il limitrofo che ci contiene, per il locale in cui abitiamo e viviamo ogni giorno, pur dentro il grande contesto del “villaggio globale“.
E’ per questo che, spesso, il dibattito tra forze autonomiste e forze centraliste è diventato ozioso.
Ed è per questo che, soprattutto, in una arena politica come quella italiana, fatta di mediocrità e di bassezze inculturali e antisociali per la maggiore, anche un tentativo di riformulazione delle istituzioni repubblicane scade nel ridicolo e nell’insulso quando si tenta di mettere insieme un regionalismo egoistico e bislacco come quello leghista-calderoliano e una pulsione (semi)presidenzialista come quella mostrata da Giorgia Meloni lungo il suo cursus, lungo la sua storia politica.
Il tema delle riforme istituzionali dovrebbe tenere conto non soltanto della dimensione nazionale, dell’”ambito italiano“, che pure è fondamentale perché riguarda l’interezza del Paese, ma sarebbe il caso che, quando si discute di riforme in questo senso, si pensasse senza confini, guardando all’Italia dentro al contesto europeo e a questo dentro il complicatissimo gioco di posizioni tra le potenze che si contendono il mercato del nuovo secolo fatto di enormi bacini di sfruttamento di centinaia di milioni di esseri umani, di animali e della natura che rimane.
Il liberismo non ha confini e compito della politica italiana, quella che dice di voler comprendere (letteralmente) le esigenze dei più deboli economicamente, dei più fragili socialmente, della maggioranza della popolazione che tira avanti in mezzo ad enormi problematiche, dovrebbe riguardare il rafforzamento delle tutele sociali attraverso una estensione dei princìpi egualitari che si trovano nella prima parte della Costituzione.
Invece, a tenere banco nelle discussioni televisive e su molte colonne di quotidiani sono sterili riferimenti a modelli istituzionali di altri paesi, sulla loro intersecabilità, sul modo in cui adattare il tutto ad un Italia dove la frammentazione dei diritti sociali è già tanto praticata, dove l’atomizzazione dei doveri non è da meno e, proprio per questo, sono da lungo tempo esasperati i contrasti tra le varie realtà regionali, piuttosto che amalgamati per trovare soluzioni il massimo condivise.
La politica italiana degli ultimi decenni a cercato, senza ombra di dubbio, di mettere da parte ogni tentativo solidaristico nazionale, preferendo le consorterie dettate dagli interessi privati che si sono malevolmente introdotti in ogni settore sociale e pubblico: scuola, sanità, servizi sociali, tra i primi che vengono alla mente.
E saranno prima di tutto questi fattori essenziali per la vita di ciascuno di noi ad essere oggetto di un nuovo attacco da parte della controriforma di Calderoli, che darà maggiore potere decisionale alle Regioni, che permetterà una ulteriore contrazione del ruolo del pubblico a tutto vantaggio del privato e che, quindi, non farà altro se non ampliare il divario tra le classi, redistribuendo solo le diseguaglianze e non favorendo alcuna ripresa delle dinamiche nazionali.
Invertire la rotta è possibile ed è necessario. La campagna “Riprendiamoci il Comune“, che si propone di ridare agli enti locali più piccoli della Repubblica un ruolo veramente pubblico, potendo usufruire, fra l’altro, attraverso una Cassa Depositi e Prestiti totalmente pubblica, di quasi trecento miliardi di euro di risparmi dei contribuenti da destinare a progetti di assoluto interesse comunitario, mentre oggi vengono dirottati verso enti privati.
Si tratta di piccole azioni, probabilmente incapaci di incidere radicalmente nel cambiamento futuro prospettato dall’iter della controriforma sull’”autonomia differenziata“, ma una cosa è certa: più ostacoli si mettono su questa via disastrosa, che divide sostanzialmente i beni e i servizi a seconda della ricchezza o della povertà dei territori, più si rallenta un processo distruttivo di tutti i diritti fondamentali e si riafferma il carattere originario delle nostre istituzioni.
Una sinergia è doverosa: gli interessi collettivi devono avere una risposta collettiva e devono, quindi, poter vedere una convergenza di forze, di partiti, di associazioni che si uniscano alle rivendicazioni di un mondo del lavoro in forte sofferenza, in mezzo ad una crisi multipolare che investe già oggi i nostri portafogli e che limita le possibilità di studio, di cura, di assistenza, di esistenza stessa.
All’autonomia differenziata delle destre dobbiamo rispondere NO senza alcun tentennamento: questa volta cercando la massima unità possibile con chiunque sia disposto a riprendersi, oltre che i Comuni, tutta la Repubblica.
MARCO SFERINI