“Ecologie della cura. Prospettive femministe” è un’opera corale, curata da Maddalena Fragnito e Miriam Tola (Orthotes Editore 2021), che si propone come volume indispensabile per orientarsi nella teoria contemporanea della cura. Complicando il quadro della politica della relazione tramite l’introduzione di prospettive transfemministe, il libro invita a ripensare il ruolo del conflitto, del genere, delle tecnologie e delle ecologie ponendosi all’altezza delle sfide dei movimenti sociali contemporanei

Negli ultimi anni abbiamo sentito sempre più spesso parlare di cura e di crisi della cura. Esemplificata dall’esplosione della pandemia di COVID-19, la questione della cura è comparsa sulla scena pubblica come fatto medico, sociale, culturale ed ecologico. E, tuttavia, la richiesta di cura è stata anche rivendicata da una pluralità di movimenti sociali: femministi, ecologisti, ma anche sindacali. Cura è diventato sia sinonimo di salute, educazione, accessibilità, sostenibilità – e quindi oggetto attorno al quale si fa battaglia per il miglioramento delle condizioni comuni di vita – che un una forma, un modo di produrre organizzazione – e in questo senso è un metodo che mette al centro il fatto di prendersi cura o interessarsi tutti insieme a un certo problema. Il ricchissimo volume Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, co-editato da Maddalena Fragnito e Miriam Tola, si propone di leggere la cura come oggetto e metodo dei movimenti ecologisti e femministi contemporanei, come “zona nevralgica del conflitto.”

La tragedia della cura è che tendiamo a vederla quando non c’è. Quando di fronte a un problema qualcuno risponde “I do not care!” (Non mi importa, non me ne preoccupo). Quando la cura manca – non ci sono abbastanza apparecchi per l’ossigeno negli ospedali oppure risorse per occuparsi delle persone con disabilità – allora la questione della cura diventa un’emergenza. Quando la cura c’è, invece, la si dà per scontata. A pochi viene in mente di mettere in discussione il fatto che una madre si deve curare del figlio o che una insegnante si debba interessare dei propri studenti. La prima viene spesso giudicata una madre-mostro, la seconda una lavoratrice pigra che non adempie ai propri doveri. Se la cura è l’insieme delle attività necessarie alla riproduzione della vita bio-eco-sociale-culturale, allora uno dei suoi problemi è che è spaccata in due. Da una parte appare come pratica indispensabile che rigenera vita e mondi e dall’altra come un’attività che implica fatica, lavoro, sfruttamento – per la gran parte di figure naturalizzate secondo il genere e la razza, donne e migranti. Questa ambivalenza strutturale della cura – che era stata in prima istanza messa in luce dai movimenti femministi della seconda ondata e che oramai viene presa come parametro anche dalle agenzie delle Nazioni Unite quando introducono il problema del gender and racial gap nel lavoro domestico o privatizzato e sottopagato di cura (uno tra tutti è il report dell’ILO del 2018) – è il punto di partenza problematico del libro curato da Fragnito e Tola. La cura è zona nevralgica del conflitto, da una parte, perché è al centro delle rivendicazioni dei movimenti ecologisti e femministi, e dall’altra, perché essa apre a un campo di problemi che la rendono, ci dicono le autrici nella loro introduzione, “una pratica” che non è “innocente”. La cura “non è sinonimo di condivisione, di creazione di convivialità, ma comporta relazioni di potere con cui confrontarsi per modificarne il senso e trasformare le modalità del vivere comune.” (Fragnito e Tola, 2021, 9). 

Nel sottolineare questa relazione problematica tra cura e conflitto le autrici del volume si inseriscono (più o meno direttamente) in un ampio dibattito volto a de-romanticizzare la cura e il femminismo della cura – che va da Sarah Ahmed, passando per Michelle Murphy, fino Lisa Stevenson, oltre allo Staying with the Trouble harawayano. Prendersi cura non è un mandato o un obbligo morale; non è inevitabilmente un’attività positiva, produttrice di gioia, affetto e legami; e non è, soprattutto, un’attività naturale di cui siamo state dotate in modo innato. La cura prevede sempre un esercizio che è oneroso, sporco, monotono e tedioso – e in questo senso è interamente lavoro. Tuttavia, la vera novità con cui il tema viene svolto sta da un lato nella ricostruzione teorico-genealogica del problema della cura e, dall’altro, nella grande varietà di prospettive che si riuniscono sotto il nome di “transfemminismo”. 

Partiamo dalla genealogia. Se si tenta di intraprendere una ricerca sul tema della cura, il primo problema con cui si scontra è la quantità innumerevole di riferimenti alla cura come salute. La cura è anzitutto dominio dell’ambito medico, psichiatrico e psicologico. Il secondo problema è che riducendo il campo di ricerca, per esempio alla filosofia, cura diventa il campo analitico di dominio della ethics of care. Con etica della cura si intende un vero e proprio movimento di pensiero che a partire dagli anni ‘80 – tra la pubblicazione del 1982 di Carol Gilligan, In a Different Voice: Pyschological Theory and Women’s Development e del a dir poco problematico Caring: A Feminine Approach to Ethics and Moral Education di Nel Noddings del 1984 – ha costruito all’interno dei settori disciplinari della psicologia cognitiva e delle scienze della formazione e dell’educazione una visione della morale alternativa alle teorie della giustizia. Se per quest’ultima un soggetto neutro può operare una serie di scelte sulla base di una regola normativa astratta, universale e formalizzata, per l’etica della cura la costruzione della moralità dipende dal contesto delle relazioni, da una rete di interdipendenze che viene attivata nel ricercare una regola pratica che orienti l’azione. Nello sviluppo di questa riflessione il testo di Gilligan – identificando la voce della moralità differente con quelle di giovani donne, lasciamo temporaneamente da parte che siano middle-class e bianche –, contiene ancora un potenziale femminista, di tipo differenzialista, ma nella proposta di Noddings questa etica alternativa viene agganciata all’esperienza diadica della relazione, modellata sull’esperienza madre-figlio. Il dibattito, come avviene in questi casi, si fa abbastanza acceso e numerosi sono gli attacchi a questo tipo di approccio sia da destra che da sinistra. Tuttavia, le prime a individuare il potenziale politico di una teoria di tipo morale e a mettere in discussione i confini tra morale vs politica e astratto vsconcreto sono Seyla Benhabib e Joan Tronto. La prima nel 1985 scrive un articolo sull’“altro generalizzato” contro l’“altro concreto,” svelando il potenziale critico dell’etica della cura nei confronti del liberalismo di stampo rawlsiano – la filosofia politica e morale almeno dal 1971 non hanno smesso, loro malgrado, di occuparsi di Rawls. La seconda nel testo fondativo del 1993 della seconda fase della “care ethics”, Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care, invece, individuando tracce di “privilegio parziale delle donne” nell’ipotesi di Gilligan, cerca una strada che includa il problema della razza e della classe nel quadro dell’elaborazione di una teoria della democrazia critica nei confronti di un liberalismo atomizzato e individualizzato. 

Il primo grande merito di Ecologie della Cura è di mettere questa tradizione molto specifica dell’etica della cura (e che ha guadagnato una grande risonanza globale) in relazione con le antecedenti teorie degli anni ’70 della riproduzione sociale – e che includono sia le lotte per il salario al lavoro domestico che le critiche del Black Marxist Feminism ,– gli sviluppi eco-femministi e post-umani di Donna Haraway e de la Bellacasa, le teorie queer, e il femminismo comunitario del cuerpo-territorio (si vedano i contributi di  Giulia Marchese e Tzk’at di Red de Sanadoras Ancestrales e i riferimenti in quello di Amaia Pérez Orozco). In questo modo cura diventa sia un’attitudine etica che mira alla rigenerazione di mondi (che non sono solo umani, ma più-che-umani) che una politica contro lo sfruttamento. Mentre si perpetua la spinta rigenerativa come nella formulazione classica di Fisher e Tronto che vedono nella cura un’attività di “mantenimento” e nella politica della cura la possibilità di produrre e “intrecciare una rete complessa a sostegno della vita” (Fisher e Tronto, 1991, 41), dall’altra si valorizzano le esperienze di conflitto e organizzazione. Per esempio, quelle delle lavoratrici brasiliane durante la pandemia di COVID-19 (il saggio di Valeria Riberiro Corossacz) o di “commoning” e riscrittura dei monumenti razzisti e coloniali e nell’occupazione dei teatri occupati (l’articolo di Ilenia Caleo sulle “istituzioni transcorporee”), fino ad arrivare all’elaborazione (nel saggio di Laura Centemeri) a una teoria del valore della cura che rispondendo a una “logica della relazione” alternativa a quella “orientata allo scopo e all’utilità” fuoriesca dalle leggi capitaliste del valore. 

Veniamo al secondo merito di Ecologie della Cura, e cioè la varietà di problemi che si raccolgono sotto la dicitura “transfemminismo” e che danno a questo libro, da una parte, un andamento centrifugo e inafferrabile e, dall’altro, permettono di “fare della cura un campo di problemi piuttosto che di soluzioni.” (Fragnito e Tola, 2021, 28). La crisi della cura che assume i tratti di una “impasse planetaria” (ibid.)  non ha ricette di facile soluzione, ma necessita di un dialogo collettivo e plurivoco. Oltre a quella finora qui indicata, cioè della relazione problematica tra conflitto e cura, sono almeno altre tre le grandi questioni che questo libro apre e attraversa: la questione del ruolo dello Stato come attore che distribuisce (in modo spesso ineguale) cura; le potenzialità di una cura trans in rapporto a modelli eteronormati e razializzati; il ruolo della tecnologia come infrastruttura ambigua che unisce e controlla. Secondo la filosofa decoloniale Françoise Vergès “esiste da molto tempo un archivio vivente di pratiche di cura” che contrastano le forme di disumanizzazione delle politiche pubbliche e statuali e su cui fare leva per immaginare futuri alternativi (Vergès, 2021, 113). Se la gran parte degli interventi del volume seguono questa traccia nell’identificare politiche della cura che siano fuori dalle maglie dello Stato – tra cui il contributo di Mackda Ghebremariam Tesfaù che torna al ruolo della self-care nel femminismo nero di vecchia e nuova generazione –, il lavoro di Brunella Casilini va in una direzione parzialmente diversa. Richiamandosi alla necessità di “ripensare il welfare state,” Casalini osserva come sia necessario ripensare il pubblico insieme ai commons

Come si dà questo potenziale assemblaggio che esiste già in un archivio di pratiche viventi e che lavorano contro oppure a fianco delle forme statuali della distribuzione di cura? Sono domande che si pongono gli eccellenti contributi di Hil Malatino, da una parte, e Olivia (Oli) Fiorilli e Márcia Leite, dall’altra. Secondo il primo, gli studi trans “mettendo al centro l’assunto per cui i nostri corpi sono costrutti naturalculturali impegnati […] in progetti di alterazione biotecnologica,” pongono diversi problemi a una visione della cura edulcorata che prende come unità di misura la famiglia nucleare eteronormata, osservando cosa accade in spazi diversi come “la strada, il club, il bar, la clinica, il centro di comunità, l’aula scolastica, l’associazione e talvolta […] la casa,” (Hil Malatino, 2021, 121-124). Quando si arriva ad esaminare la salute trans, ci dicono Fiorilli e Leite, si tratta tanto di “depatologizzare […] le esperienze trans”, e quindi di proporre un discorso contro “la Cura” quanto di individuare nuove forme di cura (Fiorilli e Leite, 2021, 137). Ma queste forme della cura vengono anche estese a forme di interconnessione con le tecnologie contemporanee, come ci indicano da una parte il saggio di Pirate Care e dall’altro quello di Bue Rübner Hansen e Manuela Zechner, che si pongono la sfida, nel piratare i codici informatici o nell’estendere il problema della cura all’uso di infrastrutture regolate dal controllo delle corporation a un nuovo spazio che è allo stesso tempo cibernetico ed ecologico. 

Il transfemminismo a cui il libro si riferisce appare così come un campo esteso e potenzialmente inglobante che, in accordo con i movimenti femministi contemporanei, include nel “trans” il superamento del binarismo di genere; il potenziale transnazionale delle donne nere, migranti e indigene; e infine, la transizione tra naturale e artificiale e umano e più-che-umano su cui gli assetti tecnologici ed ecologici ci invitano ad interrogarci. Ma questo transfemminismo che ridiscute lo statuto dell’interdipendenza si riferisce anche al potenziale della connessione “tra” vari nodi, comprese esperienze politiche, sociali ed ecologiche eterogenee. Nella letteratura sulla cura – è il caso del Care Collective, ma questo libro in alcuni punti non fa eccezione – sempre più di frequente si fa riferimento alla possibilità di creare delle “infrastrutture” – riferimento che ha il merito di introdurre un elemento di distanza nell’attività prossimale della cura, mentre immagina la riproduzione di reti alternative consolidate. In che rapporto stanno queste infrastrutture con quelle attualmente esistenti? Come produrre delle infrastrutture della cura o occupare quelle esistenti può riconfigurare il vecchio problema del rapporto tra locale e globale, oltre la angusta dimensione nazionale? Quali sono le forme per produrre infrastrutture che escano fuori da forme di politica simbolica (tanto l’immaginazione è importante in un progetto trasformativo, tanto più sulla cura, quanto non sufficiente per garantirne la riuscita)? In che rapporto sta una politica dell’interdipendenza, intesa come relazione, con le infrastrutture? E ancora, è possibile, come si chiede Caleo nel suo saggio, avere delle infrastrutture senza un corpo che sia uno spazio fisico? Se si dovesse pensare una afterlife di questo libro – che costituisce un capitolo essenziale non solo della letteratura sulla cura ma anche per i movimenti femministi ed ecologisti contemporanei – una discussione potrebbe, forse, ripartire da qui. 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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