Pubblichiamo un estratto del libro “Le frontiere del capitale. Come la nuova organizzazione logistica e il potere degli algoritmi hanno cambiato il mondo” (Red Star Press, 2022), che colleziona una serie di scritti del collettivo di ricerca e militante Into the Black Box. Secondo libro della trilogia iniziata con “Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale” (Meltemi, 2021), il volume raccoglie riflessioni teoriche e inchieste sul campo
Dalle lotte della logistica nella pianura padana alla sindacalizzazione dei rider e di Amazon, passando per la disamina delle nuove forme di lavoro e della digitalizzazione algoritmica, “Le frontiere del capitale” si propone di esplorare nuove traiettorie di lotta e di fuga dal capitalismo contemporaneo.
Il contributo intende soffermarsi su alcune caratteristiche che connotano l’attuale sviluppo delle cosiddette piattaforme digitali, quelle forme di impresa che fanno leva sull’uso di tecnologie di informazione e comunicazione, gestione algoritmica del processo produttivo e messa a lavoro di attività perlopiù informali. Nello specifico, si prova a concentrarsi su alcuni aspetti della dimensione urbana delle piattaforme digitali, provando ad abbozzare il concetto di una nuova logistica metropolitana che può risultare utile anche a chi si occupa di studi geografici. Quello che emergerà è una potenziale ma già visibile tensione fra la città come infrastruttura (quella che i latini chiamavano “urbs”) e la città come corpo sociale (la “civitas”): lo sviluppo di un sistema di servizi, flussi e investimenti trasforma stili di vita e forme del lavoro negli spazi urbani, generando – tra i vari effetti – anche conflitti sociali e l’esercizio di un diritto alla città da parte di alcuni gruppi.
L’esposizione si articolerà in quattro punti. Dapprima si sofferma brevemente sulla relazione tra spazi urbani e dinamiche economiche per mettere in evidenza le caratteristiche dello sviluppo di forme di cittadinanza imprenditoriale e i modi in cui è cambiata la geografia economica della città. Nella seconda parte si cerca di illustrare alcune caratteristiche della dimensione metropolitana del platform capitalism a partire da due fattori: la logistics revolution e le tecnologie di informazione e comunicazione (ICT). Queste vengono a costituire le infrastrutture di un processo produttivo che assume la città come suo spazio di produzione e consumo diffuso, reticolare, fluido e al cui interno reale e digitale si confondono fino a diventare una cosa sola. Nella terza parte invece viene preso in considerazione il modo in cui i soggetti urbani sono “catturati” all’interno delle maglie delle piattaforme digitali, trasformandosi da semplici utenti a produttori. L’impressione è che la vecchia distinzione fra privatizzazioni e urban commons si stia trasformando in una tensione su chi decide nei processi organizzativi interna alle stesse forme di cooperazione. In conclusione, ci si sofferma su alcune forme di protesta e contrapposizione che si sono generate all’interno delle città nei confronti degli effetti infrastrutturali e sociali delle piattaforme digitali. Da una parte, si possono individuare tentativi di legislazione locale volti a regolamentare e gestire l’espansività delle economie di condivisione o dei “lavoretti”. Dall’altra, alcuni gruppi sociali stanno sperimentando forme di auto-organizzazione e sindacalizzazione che investono i loro rapporti diretti con le piattaforme – come nel caso dei rider dei servizi di consegna pasti a domicilio.
1. La città neoliberale
Il rapporto fra processi economici e spazi metropolitani non è certamente qualcosa di nuovo per gli studiosi dell’urban critical theory (Brenner, 2009; Rossi, 2017b). Fin dagli anni ‘60 si è provato a concettualizzare il ruolo giocato dalle città nelle società di tipo capitalistico – si pensi a Whose City? di Ray Pahl (Forrest e Wissink, 2017; Mayer, 2017) e a Le droit à la ville di Henri Lefebvre. Senza entrare in una ricostruzione storiografica del dibattito, in maniera approssimativa e a grandi linee potremmo dire che, da una parte, la città è stata identificata nel luogo in cui la società post-industriale degli anni ‘70-’80 ha potuto dar vita al consumo di massa; dall’altra si è affermata l’idea che i conflitti sociali si siano spostati dalla fabbrica allo spazio urbano e alle forme di vita (Harvey, 1985). Questo perché è la produzione stessa ad aver cambiato forme e luoghi tramite la messa a valore di attività sociali, relazionali, comunicative (Negri, 2008).
Henri Lefebvre prima e David Harvey (1982) poi hanno formulato la teoria dei due circuiti del capitale: il primo circuito insiste sul commercio e l’industria; il secondo – che si attiva laddove il primo ristagna, in funzione anti-crisi – si concentra sulla rendita. Questo secondo circuito si è fatto particolarmente visibile a partire dagli anni ‘80, quando le politiche neo-liberiste di finanziarizzazione dello sviluppo urbano hanno dato vita al sogno della democrazia proprietaria (Rossi, 2017a): il possesso di una casa veniva presentato come la garanzia di accesso a uno status di piena inclusione sociale e politica.
A seguito della crisi – cominciata nel 2007-2008 negli Stati Uniti[1] proprio a partire dallo scoppio di una bolla finanziaria generatasi attorno al mercato immobiliare – abbiamo assistito a un sempre maggiore investimento sulle nuove tecnologie digitali e sulla loro applicazione all’interno di vecchie tipologie di lavoro o attività para-lavorative. L’abitare, ad esempio, diventa una forma di business (Rossi, 2017a), così come il fatto di possedere una bicicletta o un’automobile. Si tratta di attività informali e beni di consumo che vengono “catturati” all’interno di processi di valorizzazione e quindi trasformati da una logica manageriale veicolata da piattaforme digitali come AirBnb, Uber, Deliveroo: l’imprenditorializzazione della condizione urbana (Cohen e Muñoz, 2016a) si basa sulla monetizzazione dei beni di consumo[2] (Kenney e Zysman 2016) e sul venir meno di quella che Hannah Arendt (1958) chiamava la differenza fra lavoro, azione e opera.
2. La dimensione metropolitana del platform capitalism
Soffermiamoci dunque sulle forme di impresa digitale. Crediamo si possano individuare due fattori distinti la cui evoluzione e combinazione è alla base del capitalismo di piattaforma: le ICT e la logistica. Va subito notato che si tratta, in entrambi i casi, di vettori di trasformazione degli spazi sia digitali che fisici. Le tecnologie di informazione e comunicazione, basate sullo sviluppo di applicazioni software e di dispositivi di telecomunicazione, hanno ridefinito non solo tempi e spazi dello scambio di dati ma anche le funzioni svolte dagli stessi. L’impiego di ICT è diventato centrale nell’organizzazione e controllo dei processi produttivi (Cai et al., 2009) trasformando i luoghi in cui questi si svolgono.
La logistics revolution degli anni ‘60 (Allen, 1997) invece ha investito non semplicemente i processi di circolazione merci ma l’intera catena di valore, producendo una scomposizione del processo produttivo in una molteplicità di punti e passaggi globalmente dislocati e riassemblati (Henderson, 2002). Lo sviluppo di un modo di produzione logistico (reticolare, frammentato, interconnesso) e di una gestione algoritmica del processo produttivo confluiscono nel capitalismo delle piattaforme (Srnicek, 2016; Armano, Murgia e Teli, 2017; Vecchi, 2017). Queste piattaforme, tra le altre cose, sono centrali nell’attuale sviluppo della sharing (Horton e Zeckhauser, 2016) e della gig economy (Friedman, 2014). Nel primo caso, parliamo della valorizzazione di processi di cooperazione, condivisione, collaborazione che avvengono – o almeno dovrebbero avvenire – secondo modalità peer to peer. Nel secondo caso[3], invece, si tratta di lavoretti, attività informali, hobby, caratterizzate – anche qui, in maniera preliminare – da fattori come l’estemporaneità, il piacere, la flessibilità. In realtà non si tratta di una divisione così rigida. Alcune attività di condivisione sono svolte nel tempo libero o in aggiunta al lavoro ufficiale (pensiamo all’affitto di una stanza tramite Airbnb); oppure alcuni lavoretti si basano sulla messa a disposizione di beni che eccedono il consumo personale (la bicicletta nel caso dei rider). È così che queste pratiche informali assumono sempre più i contorni di lavori veri e propri, sebbene ammantati di una retorica smart e incuneati nelle zone grigie del diritto del lavoro. È dunque legittimo chiedersi se abbia ancora senso parlare di lavoretti o se la condivisione possa considerarsi un processo libero e paritario.
Qui però vorremmo sottolineare due cose. La prima è che cambia il ruolo di queste tecnologie: non si limitano a trasmettere messaggi o a riformulare i modi della comunicazione, ma fungono da struttura logistica e produttiva: «the term platform simply points to a set of online digital arrangements whose algorithms serve to organize and structure economic and social activity» (Kenney e Zysman, 2016). Hanno dunque un carattere preminentemente spaziale, intervengono pesantemente nel modo in cui mappiamo il mondo attorno a noi. Da un punto di vista di organizzazione del lavoro, si sviluppa una versione digitale del putting out system (Finkin, 2016; Kenney e Zysman, 2016): piuttosto che concentrare la produzione in un luogo perimetrato, si forma una rete di produttori locali gestita in maniera centralizzata, una distribuzione del lavoro e dei flussi di connessione. Al posto del mercante proto-industriale che subappaltava nelle campagne la lavorazione delle materie prime, oggi le piattaforme dislocano il lavoro in una miriade di micro-compiti e garantiscono la mobilità dei prodotti in tutte le fasi (ordine-elaborazione-consegna). A riguardo, è interessante riprendere la metafora marxiana del direttore d’orchestra[4]: colui che comanda sulla produzione senza possedere i mezzi di produzione ma per via del suo ruolo di coordinamento e direzione. Senza il direttore non ci sarebbe unità fra gli orchestrali ma solo solisti.
Allo stesso tempo, questa infrastruttura logistica ibrida di digitale e reale garantisce la pervasività del controllo – una delle difficoltà cui andava incontro il putting out system e che portò, insieme ad altri motivi, all’accentramento della produzione nella fabbrica. A loro volta, le imprese digitali generano altre piattaforme o inglobano altri servizi, altri spazi digitali e altri cambiamenti urbani – ad esempio, i servizi di taxi Uber si sono estesi alle consegne a domicilio con UberEats oppure Airbnb invita gli host a rivolgersi a figure semi-professionali per servizi di portineria o pulizia degli appartamenti affittati. Si crea un web-eco-system, una fusione di spazi digitali e fisici su piani multipli all’interno dei quali si articolano le relazioni fra soggetti, produzione e merci. Molte di queste piattaforme (Airbnb, Uber, Deliveroo) assumono la città come unità produttiva minima: il proprio raggio d’influenza si estende tanto quanto la disponibilità dei propri servizi la quale si dà su base urbana. O meglio, è la stessa città a essere ridefinita in base alla fruibilità dei servizi delle piattaforme. Siamo davanti alla formazione di una nuova logistica metropolitana la quale altro non è che il frutto dell’applicazione di piattaforme web e strumenti digitali per riformulare la rete di servizi di mobilità (umana, merci) all’interno del tessuto urbano (Civitas Wiki, 2015). Da un’altra angolazione interpretativa, è questo uno degli aspetti della città come spazio logistico inserito in flussi e dinamiche globali (Sassen, 2005).
La seconda trasformazione che vorremmo sottolineare riguarda invece l’antropologia del consumo che muta forme, spazi e tempi (Chertkovskaya e Loacker, 2016; Charitsis, 2016). Se le tecnologie digitali vengono a costituire le infrastrutture di un capitalismo che mette a valore l’intera vita umana, allora diventa sempre più difficile mantenere la distinzione tradizionale fra tempi e luoghi di lavoro da una parte e tempi e luoghi di vita dall’altra, fra produzione e consumo, fra reale e digitale. Come affermano Kenney e Zysman (2016), «regardless of the platform, all of them are based on mobilizing human beings to contribute. […] they all depend on the digitization of value-creating human activities».
Da una parte, le funzioni di rating e feedback che i consumatori possono esercitare nei confronti di chi mette a disposizione i propri beni o servizi sulle piattaforme diventano vere e proprie forme di controllo, valutazione e disciplinamento del processo lavorativo (Pacella, 2017). Dall’altra, al consumatore viene promesso il mondo intero in un solo click, ovvero l’accesso totale nel tempo e nello spazio (24 ore al giorno e 7 giorni su 7) ad uno spazio infinito di consumo (Crary, 2013). La città stessa diventa uno luogo ibrido di consumo e produzione mentre possiamo accedere ad un intero supermercato semplicemente tramite il nostro smartphone. Una compressione spazio-temporale basata sull’esistenza di una infrastruttura logistica pervasiva, di una rete continua di flussi e di tecnologie digitali. A riguardo, è utile far riferimento al concetto di tempo di rotazione elaborato da Marx (1885/1994; 1939/2012). Questi, infatti, osserva come il ciclo di vita di un capitale (il tempo in cui realizza la sua valorizzazione) è composto dall’unità di tempo di produzione e tempo di circolazione (Rosdolsky, 1957/1975). Capitali di uguali dimensioni possono avere tempi di rotazione diversi e quindi valorizzarsi differentemente, uno più e uno meno. Il tempo di produzione dipende – oltre che dall’intensità e dal disciplinamento della forza-lavoro – anche da alcuni fattori legati alla natura delle merci. Il tempo di circolazione invece può essere abbattuto tramite il miglioramento delle infrastrutture e dei flussi, una questione prettamente geografica. Il capitale sogna «una circolazione senza tempo di circolazione» (Marx, 1885/1994). Per evitare un movimento a strappi deve dunque articolarsi contemporaneamente e in gradi diversi all’interno di tutte le fasi del ciclo. Di qui la tendenza a creare un circuito fluido e continuo fra produzione, circolazione e consumo: «la costante continuità del processo, il passaggio ininterrotto e fluido del valore da una forma all’altra, o da una fase del processo all’altra, si presenta come condizione fondamentale della produzione basata sul capitale» (Marx, 1939/2012).
3. Il cittadino imprenditore
Se la piattaforma diventa l’infrastruttura che cattura una molteplicità di attività e valori dispersi nella quotidianità e la città fungono da motore di sviluppo per nuove forme di impresa al punto di parlare di smart city (Almirall et al, 2016) o start up city (Florida e Mellander, 2016), allora cambiano anche i soggetti al lavoro e gli stili di vita urbani. In maniera generale, potremmo dire che la città neo-liberale convive con la proliferazione di forme destrutturate di lavoro; i cosiddetti lavoretti e altre attività para-lavorative diventano parte integrante della catena di valore. Uno degli effetti della sussunzione di queste attività alle piattaforme è la formalizzazione di ciò che prima non lo era rispetto a standard e procedure imposte dagli algoritmi. I soggetti urbani si trasformano in freelance. Detto altrimenti, assistiamo all’imprenditorializzazione della condizione urbana (Cohen e Muñoz, 2015; 2016a; 2016b), ovvero alla trasformazione della vita in città come fattore produttivo: dal cittadino imprenditore che deve contrarre debiti per ampliare la propria condizione di reddito e vita all’imprenditore di sé stesso che trasforma i suoi beni di consumo e il suo tempo libero in un mezzo per potersi permettere un certo standard di vita e l’accesso ai benefici della città.
Questa commercializzazione dei beni personali e delle capacità individuali genera, allo stesso tempo, un lavoro frammentato e privo delle tutele tradizionali. Se la città ha smesso da tempo di essere un’entità compatta per trasformarsi nel punto di intersezione fra una molteplicità di flussi, allora anche il lavoro e i soggetti urbani si fanno parziali, temporanei, precari, mobili (Elan et al., 2015; Donovan, Bradley e Shimabukuru, 2016; Schor et al., 2017).
Gli urban commons e lo sharing – che negli anni ‘90 erano stati punti di resistenza alla privatizzazione degli spazi pubblici da parte di soggetti non delocalizzati – diventano oggi fattori produttivi completamente integrati nei meccanismi delle piattaforme. Le nuove forme di creative urbanism e le pratiche di sharing sono parte costitutiva delle logiche di auto-imprenditorialità. «The politics of urban commons is one crucial terrain in which scholars meet with activists contrasting processes of neo-liberal privatization and capitalist exploitation of common-goods and socio-natural resources. At the same time, the idea of the commons takes an ambivalent significance within the late liberal societies, as it also appropriated within the seducing logics of creative urbanism and its discursive emphasizing a new lifestyle nourished by practices of sharing and co-living» (Rossi, 2017b).
Se la cooperazione e la creatività delle forme di vita urbane diventano parte integrante del processo produttivo, la conflittualità sembra spostarsi all’interno della produzione stessa. La posta in palio è il potere di decidere nei processi organizzativi (Schor, 2014)) – e con essi sul futuro della città. La costruzione di flussi autonomi e di forme di cooperazione indipendenti dalla centralizzazione delle piattaforme diventano le infrastrutture di una contro-logistica che si oppone alla logistica del capitale (Bernes, 2013).
4. Tentativi di legislazione e processi di sindacalizzazione
In conclusione, ci preme qualificare meglio questa idea di contro-logistica. Come detto, si tratta di una tensione interna allo stesso platform capitalism tra la città come infrastruttura e le soggettività metropolitane, fra l’aspirazione a una «circolazione senza tempo di circolazione» e forme autonome di cooperazione e resistenza. Questa tensione mi sembra si esprima essenzialmente in due modi.
Da una parte, ritorna il problema della mediazione urbana fra soggetti e interessi diversi di cui aveva parlato Manuel Castells (1972) e che recentemente è stato ripreso da Andy Merrifield (2014), a mio modo di vedere attorno al nodo della pianificazione degli spazi urbani. Per Castells lo Stato – nella figura delle amministrazioni locali – ha svolto a lungo il ruolo di garante fra processi di accumulazione e interessi sociali; una sorta di keynesismo urbano. Gli anni ‘80 segnano la fine delle politiche di mediazione, dando luogo alla deregolamentazione dello sviluppo urbano. Di più, la governance locale assume pian piano i contorni dell’impresa: le città devono valorizzare loro stesse attraendo investitori e capitali, trasformando gli spazi in forze produttive e merci da vendere (Harvey, 1989). Oggi sono gli stessi soggetti urbani ad aver introiettato questa spinta neoliberale all’auto-imprenditorialità. Con essa, però, emerge una nuova spinta alla pianificazione. Iniziano a essere numerosi i tentativi di legislazione, soprattutto locale, che limitano la capacità di cattura e l’espansività delle piattaforme.
Dall’altra, si stanno diffondendo esperienze di sindacalismo sociale (Ross, 2007; Turner, 2007) tra le nuove forme del lavoro della sharing e della gig economy. In particolare, i rider dei servizi di food delivery delle principali app come UberEats, Foodora e Deliveroo stanno dando vita a proteste urbane su scala europea grazie alla capacità di auto-organizzarsi nonostante le difficoltà che le piattaforme pongono in termini di diritti sindacali, possibilità di comunicazione e riconoscimento fra lavoratori, precarietà (Cant, 2017; Maccarrone e Tassinari 2017; Woodcock, 2016). Il diritto alla città sembra quindi rideclinarsi come campo di tensione rispetto all’accesso ed esercizio della vita urbana, una vita produttiva e allo stesso tempo affettiva, relazionale, qualificata da servizi, piaceri, ricchezze.
[1] Va notato che l’anno di boom della sharing economy può essere identificato nel 2011, in coincidenza con la ripresa economica americana. Non a caso dunque il dibattito su tali trasformazioni è molto più sviluppato negli USA che in Europa.
[2] Già Marx nei Manoscritti economico-filosofici fa vedere come la rendita sia riducibile al profitto, o meglio come i teorici fisiocratici avessero riconosciuto per primi il carattere vivo della rendita.
[3] All’interno della gig economy è possibile distinguere (De Stefano, 2016) fra crowdworking – attività in cui i lavoratori eseguono i propri compiti completamente all’interno piattaforma – e work on-demand tramite app – in cui delle attività “tradizionali” vengono gestite via piattaforma ma eseguite in spazi più larghi. Sulle prime si rimanda a Berg 2016, io mi concentrerò particolarmente sulle seconde (nello specifico sui servizi di food delivery).
[4] «Un direttore d’orchestra non ha bisogno di essere proprietario degli strumenti dell’orchestra, come pure non appartiene alla sua funzione di direttore di occuparsi in qualsiasi modo del salario degli altri musicisti» (Marx, 1894/1994).