Che cos’è realmente più imbarazzante? Che il Parlamento abbia un giorno attribuito una parentela inesistente tra una ragazza e un presidente egiziano o che la giustizia si incarti in procedure tecniche e in risvolti altrettanto ginepraici da impedire a sé stessa il proprio corso?

Francamente è difficile rispondere. Soprattutto se tiene in considerazione la miriade di vicissitudini che questo Paese ha dovuto subire e trascorrere nel giro di due decenni, quando il berlusconismo divenne un sistema di potere che si andava strutturando dentro lo Stato e che avrebbe cambiato radicalmente il modo di fare politica e l’essenza stessa di questa nei confronti dei rapporti con diretti con i cittadini.

Chi farà la storia d’Italia nei prossimi anni avrà certamente un quadro più ampio, una visione più estesa dei fatti, delle verità e delle tante spregiudicate omissioni, nonché delle trame, degli inganni e degli artifici che partiti e movimenti si sono scambiati a suon di colpi di maggioranza, di finte opposizioni e di tentativi di accomodamento con bicamerali, unità nazionali e abboccamenti tutti quanti nel nome supremo dell’interesse della Nazione.

Ma l’Italia c’entra ben poco in questo gioco al massacro intriso di cinismo e spregiudicatezza estrema, perché la soverchiante preponderanza della logica del privato ha surclassato quelli che un tempo erano i massicci corpi sociali, anche spesso in contrasto fra loro, che si muovevano secondo una ideologia allora non considerata e non considerabile come qualcosa di ignominioso.

I primi cinquant’anni della Repubblica Italiana sono stati caratterizzati dalla ricostruzione materiale e morale del Paese, dal boom economico e dall’assestamento di una giovane democrazia che era ostaggio dell’atlantismo avanzante nell’Europa tutta da immaginare come corpo politico, sociale ed economico; ed infine da una serie di tentativi di colpi di Stato e di sovvertimenti di matrice neofascista, militarista e conservatrice.

I governi della Democrazia Cristiana e del Pentapartito non hanno garantito all’Italia una attuazione piena della sua Costituzione, ma si sono dati come linea di compromesso quella compromissione effettiva con gli Stati Uniti e con il capitalismo liberista che ha iniziato la sua ascesa economico-finanziaria a partire dagli anni ’70.

Tuttavia, siccome il liquidazionismo e il pressapochismo vanno scansati con risoluta decisione, non fosse altro per amore della verità storica e oggettiva, ormai ampiamente acclarata, il democristianesimo ha avuto sempre, grazie anche al controbilanciamento della forza sociale del PCI, della CGIL e dei vari corpi intermedi di una società molto cosciente dei propri interessi e dei propri diritti (oltre che dei propri doveri), una qualche remora, uno scrupolo in più rispetto a quello che si sarebbe potuto permettere, nel gettarsi anima e corpo in una serie di controriforme antisociali.

Una declinazione totalmente privatistica dei settori fondamentali per lo sviluppo del Paese nel dopoguerra, e in particolare nel dopo boom-economico, non è mai stata pensata come una base programmatica di governo e, quindi, nemmeno si erano ipotizzate, anche solo lontanamente, da parte dei dirigenti della DC e del PSI riforme strutturali e riforme costituzionali che andassero a solo vantaggio dell’imprenditoria e non anche del mondo del lavoro.

Non è stata soltanto la presenza socialista nei governi pentapartitici a fornire questo equilibrio alle discipline di governo e alle politiche. Dal centro-sinistra “organico” di Mariano Rumor alla lunga anabasi del craxismo dentro i centri del potere e dell’affarismo, che si intrecciavano sempre più ad una politica corrotta e inadeguata all’offensiva liberista che si esprimeva in tutta la sua virulenza egoistica, il governo ombra del PCI e la sua lotta sociale in ogni angolo del Paese aveva impedito che la logica del privato dominasse indistintamente su tutto e su tutti.

I tentativi di sovvertimento della democrazia, messi in pratica con la “strategia della tensione“, hanno risposto anche allo scopo di limitare sempre di più un potere dei lavoratori, una fase espansiva dei diritti sociali attraverso una compressione dei diritti e delle libertà civili e costituzionali in senso lato.

Se l’attacco del liberismo privatizzatore venne fermato proprio mentre prendeva campo nel mondo occidentale, sulle due rive opposte dell’Atlantico, il merito non fu esclusivamente di un riformismo socialista che tenne a bada e frenò le pulsioni di un mondo padronale dominato dalla FIAT e dai grandi gruppi che si proiettavano sulla scena mondiale della globalizzazione incipiente. Il merito fu anzitutto di una opposizione tanto istituzionale quanto sociale.

Una politica comunista intesa come servizio alla trasformazione in ogni possibile declinazione: il momento elettorale era anche la verifica della forza del Partito, del suo radicamento dai più piccoli comuni della Repubblica alle più grandi città, ma era principalmente davvero la consegna di una delega rinnovata e sentita da parte del suo popolo, da parte di un proletariato industriale e agricolo che unitariamente si riconosceva nei simboli del lavoro, nella bandiera rossa e nel suo progetto di rivendicazione dei bisogni sociali.

L’idea della “rivoluzione“, bolscevicamente intesa, come fenomeno separatore di una storia del passato da una del futuro, come emancipazione sociale da trattare oltre i canoni della democrazia borghese, non era tramontata con il consolidarsi delle fondamenta costituzionali, con l’accettazione un po’ unanime dell’incontrovertibilità del parlamentarismo e dell’equipollenza dei poteri, ma si andava spegnendo dentro il consumismo vorace, nella proposta commerciale continua: nei cartelloni pubblicitari sparsi ovunque, nelle televisioni berlusconiane, nel benessere apparente di una larga fetta di società.

La settima onda, quella leggendariamente cavalcata dalla morte e che i naviganti temevano peggio di una tempesta in pieno oceano, era arrivata inusitatamente, quasi con un manto di piacevolezza che regalava al popolo italiano l’idea di una ripresa a tutto tondo dopo il crollo della cosiddetta “prima repubblica“.

Era proprio l’onda da temere, da cui stare in guardia. Invece, a milioni la scambiarono per l’occasione mai giunta, per l’inizio di una nuova epoca dell’oro, volendo dimenticare le brutture delle corruttele ovunque diffuse e lanciandosi nelle braccia del capitalismo salvifico, onnipresente, scommettitore sulle vite altrui, garante di sempre maggiori profitti per i privati.

Il berlusconismo fu esattamente questo: il passaggio da un sistema misto, anche costituzionalmente previsto, tra pubblico e privato, ad un dominio liberista univoco, incontestabile e irrefrenabile (tutt’altro che irreprensibile) che fece della competizione totale la cifra delle nuove relazioni sociali. Il centrosinistra ulivista e i suoi epigoni sia tecnici sia politici, anzitutto il renzismo svoltante a destra, collaborarono a questa destrutturazione del mondo del lavoro.

La scomparsa del PCI e dell’opposizione critica di massa permise che questo avvenisse in una decomposizione della proporzionalità dei consensi, in una instaurazione di una logica del maggioritario per cui era impossibile il tertium, ma era dato soltanto ragionare su due coalizioni spacciate sempre come alternative e, col passare delle legislature, sempre più somiglianti proprio sul terreno delle controriforme economiche.

L’uguaglianza, come radice culturale, sociale e politica di un Paese che voleva essere – ed è per qualche tempo stato – il contraltare del regime fasciste, dell’Italietta sabauda, mestamente liberaleggiante, piena di privilegi e di esclusivismo tipicamente monarchico, venne messa da parte per fare largo alla nuova logica delle “compatibilità” di mercato, ad una nuova espansione capitalistica che avrebbe portato benessere e ricchezza un po’ per tutti.

La colpa più grande la hanno coloro che hanno finto di credere a questa favoletta: socialdemocratici e riformisti moderni si sono intestati il merito di aver archiviato il passato di un comunismo appesantito dal fantasma dell’Est; si sono aggiudicati la palma d’oro della rassegnazione permanente, dichiarando con convinzione pelosa che non si poteva andare oltre il capitale e che lo si doveva addomesticare, temperare, modellare sui bisogni sociali.

Una illusione così grande da far impallidire quella che è sempre stata accusata come la madre di tutte le utopie: l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e la fine del sistema del profitto, del salario e delle merci.

Ed infatti, sull’onda di questo opportunismo mascherato da voglia di riforme sociali, la sinistra è scomparsa, il centrodestra ha guadagnato la scena e oggi la destra stessa ne prende il posto, servendosi degli ultimi rimasugli di un forzitalismo decrepito e rantegoso che, in quanto tale, accetta le condizioni del conservatorismo sovranista che, in quanto a compatibilità con le esigenze economiche europee e globali, è disposto ad essere clemente.

La nostra Italia per un po’ di ipocrisia post-fascista che urla e strepita, che mostra i busti casalinghi di Mussolini e poi occupa tutte le postazioni di potere senza troppo clamore, facendo il peggio possibile, dimostrando tutta l’inadeguatezza della sua presunta classe dirigente: dai tentativi di repressione dei rave party all’ultima, ma non ultima, scioccante presa di posizione sui crediti dell’edilizia.

Ed allora, la morale esopica che ne può impietosamente discendere, da questa specie di bislacchissima cronistoria dell’involuzione privatistica italiana dal dopoguerra ad oggi, è che sì, possiamo indignarci per la sentenziosità altezzosa di un Parlamento che dava la notizia a Mubarak di avere una nipote mai sentita nominare e che possiamo anche alzare questa asticella di stizzosità, più che giustificata, per la sentenza sul “Ruby-ter“, ma alla fine ciò che ha rilievo è tutto ciò che circonda sia il parlamentarismo sia la magistratura.

Ciò che sta loro intorno non è rassicurante affatto, perché è alfiere e portabandiera di una controriforma costituzionale molto più estesa della sola proposta calderoliana. Presidenzialismo, liberismo spinto, controllo dell’informazione (Sanremo, Rai) e finta pace sociale, possono sommarsi a quella “autonomia differenziata” che ci sembra l’unico spettro realmente visibile.

L’ectoplasmaticità di tutti gli altri pericoli per la democrazia e per i più deboli e fragili di questa società non è parapsicologia politica spicciola, una onirica e hitchcockiana fantasia. E’ reale e assurda al tempo stesso: dobbiamo vedere quello che guardiamo e dobbiamo farlo con le lenti di una sinistra che la smetta di inseguire il centro e che, nell’essere poi ambivalente, si ricacci inevitabilmente nel solco di tante precedenti esperienze fallimentari.

I fantasmi del passato berlusconiano e craxiano rivivono, con la comprimarietà di un finto progressismo che si è adeguato agli eventi per apparire rispettabile e degno di nota e considerazione, in questo governo. Nella peggiore delle parafrasi programmatico-politiche.

I fantasmi esistono finché pensiamo che siano innocui e che, anzi, si stiano addirittura comportando bene a Palazzo Chigi. Ecco perché esistono: siamo noi (o meglio è una parte del PD) a dare loro una certa consistenza, un riconoscimento. La casa è infestata, ma a una parte del cosiddetto “campo largo” va bene così…

MARCO SFERINI

17 febbraio 2023

Foto di Daniil Ustinov da Pexels

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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