Combattere la crisi climatica significa anche appianare le disuguaglianze climatiche © Ceri Breeze/iStockPhoto

Anche all’interno dei singoli Stati, c’è chi provoca la crisi climatica e chi la subisce. Si chiamano disuguaglianze climatiche

Valentina Neri

Per definizione, il riscaldamento globale è un fenomeno planetario. Ma le sue conseguenze non lo sono, perché si abbattono in modo molto più pesante su alcuni Paesi, soprattutto quelli a basso e medio reddito. Nasce da qui il principale traguardo raggiunto alla Cop27 di Sharm-el-Sheikh, cioè l’istituzione di un fondo per il loss and damage: il risarcimento per le perdite e dei danni subiti. Ma il tema della giustizia climatica non si esaurisce qui. Anzi.

I danni della crisi climatica

Le disuguaglianze climatiche all’interno dei singoli Stati sono addirittura più profonde rispetto a quelle tra uno Stato e l’altro. È la principale conclusione a cui giunge il Climate Inequality Report. A pubblicare lo studio è il World Inequality Lab, co-diretto dal celebre economista francese Thomas Piketty.

Le disuguaglianze climatiche spaccano a metà la società

«Tutti gli individui contribuiscono alle emissioni, ma non allo stesso modo», dice chiaramente lo studio sulle disuguaglianze climatiche. Nello specifico, l’umanità è divisa in tre. Al vertice c’è un 10% che genera poco meno della metà dei gas serra in atmosfera e ha in mano anche il 76% delle risorse, le stesse risorse che sarebbero indispensabile per arginare la crisi climatica. All’estremo opposto c’è la metà dell’umanità, quella che subisce la stragrande maggioranza dei danni, non ha abbastanza soldi per difendersi ma non ha nemmeno colpe, emettendo appena il 12% dei gas serra.

Verrebbe spontaneo pensare che questa suddivisione sia anche geografica. In altre parole, che quel top 10% corrisponda alla popolazione degli Stati industrializzati. In parte è così. Dal 1850 in poi, Nord America ed Europa hanno generato la metà delle emissioni cumulative di gas serra. Ancora oggi, la carbon footprint di uno statunitense medio è dieci volte quella di un indiano medio.

Ma l’aggettivo medio appiattisce situazioni che sono molto differenti l’una dall’altra. Ormai la vera discriminante, più ancora del luogo dove si vive, è la ricchezza. «Le disuguaglianze nelle emissioni all’interno dei singoli Stati ora appaiono maggiori rispetto a quelle tra uno Stato e l’altro», scrivono i ricercatori. «I modelli di investimento e di consumo di un gruppo relativamente piccolo della popolazione contribuiscono in modo sproporzionato ai gas ad effetto serra, direttamente o indirettamente».

Tassare i ricchi è anche un’arma contro la crisi climatica

Va da sé che per la mitigazione (cioè il taglio delle emissioni, appunto) servano risorse, così come per l’adattamento, che consiste nelle misure per limitare i danni della crisi climatica. E non è certo pensabile che se ne facciano carico le fasce più vulnerabili.

Bisognerà quindi fare ricorso ai trasferimenti internazionali di denaro? «Non saranno sufficienti per affrontare le disuguaglianze climatiche», chiariscono gli autori del report. Quello che serve davvero, sostengono, sono «profonde trasformazioni dei regimi fiscali nazionali e internazionali, per incrementare la progressività complessiva e i rendimenti delle tasse e assicurare che gli sforzi per la mitigazione e l’adattamento siano condivisi in modo equo nella popolazione».

Misure di adattamento ai cambiamenti climatici
Le misure di adattamento sono molto costose © CloudVisual/iStockPhoto

Proprio i Paesi a basso e medio reddito sono quelli in cui spesso mancano imposte progressive sulle rendite da capitaletasse di successione o patrimoniali progressive. Eppure, potrebbero «generare entrate significative per supportare i gruppi vulnerabili senza compromettere la crescita economica della classe media». I ricercatori ipotizzano per esempio una tassa sui patrimoni superiori ai 100 milioni di dollari.

L’aliquota partirebbe dall’1,5% fino alla soglia del miliardo, salendo man mano fino al 3% per i patrimoni superiori ai 100 miliardi. Si applicherebbe dunque a 65mila persone in tutto il mondo che, anche dopo questo prelievo fiscale, rimarrebbero comunque ricche, anche, ricchissime.

Se una misura del genere venisse applicata a livello globale, si riuscirebbero a rastrellare ogni anno 295 miliardi di dollari. Si stima che, per finanziare le misure di adattamento, ne servano 200. Gli Stati in via di sviluppo nel 2020 ne hanno ricevuti appena 29.  

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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