di Leonardo Sinigaglia
Il 24 febbraio il Ministero degli Esteri della Repubblica Popolare Cinese ha pubblicato ufficialmente il suo piano di pace in 12 punti per la risoluzione della crisi ucraina. In realtà dal documento traspare una dimensione ben più ampia di quella ristretta al solo paese slavo. La Repubblica Popolare correttamente contestualizza la crisi ucraina come espressione di dinamiche globali complesse, e non si limita a declassare tutto al delirio di un preteso dittatore, come parte della stampa (e delle cancellerie!) occidentale ha fatto sin dai primi giorni dell’operazione russa.
Il ministero non si limita all’invocazione di una generica “pace”, né a richiedere ritualmente il ritiro incondizionato delle truppe russe, ma anzi pone l’attenzione su quelle che sono globalmente le vere cause del conflitto: la “mentalità da guerra fredda”, le posizioni conflittuali, il mancato rispetto della sovranità e della dignità degli Stati e il continuo ricorso a misure unilaterali di guerra economica, come sanzioni ed embarghi.
La prospettiva cinese si fonda sul rispetto della Carta delle Nazioni Unite, che di per sé sancirebbe l’eguaglianza fra le nazioni e la piena libertà e autonomia nella scelta delle prospettive di sviluppo e di ordinamento sociale. Si tratta di qualcosa che dovrebbe stare alla base dell’ordinamento internazionale, ma che nella realtà dei fatti è puntualmente disatteso. E non certo dalla Federazione Russa.
Se la Cina si esprime per il congelamento delle ostilità e per il recupero delle trattative di pace, di certo non si fa illusioni su possibili “equidistanza”: parlando di “mentalità da guerra fredda” e politiche conflittuali sta chiaramente chiamando in causa gli Stati Uniti d’America e la loro azione destabilizzatrice a livello internazionale.
Sono appunto gli USA ad aver rifiutato già a dicembre 2021 l’offerta russa per la costruzione di un meccanismo di sicurezza collettivo in Europa, offerta che si basava sulle richieste, inaccettabili per la parte americana, di evitare qualsiasi espansione della NATO e di rimuovere le armi nucleari dai paesi terzi. E sono sempre gli USA ad aver perseguito, dall’Ucraina al Pacifico, una sicurezza “a somma zero”, ricercata esclusivamente nella diminuzione di quella altrui.
E quindi per parlare di pace in Ucraina serve parlare necessariamente in prima battuta di egemonismo statunitense: solo così sarà possibile arrivare alle cause prime delle ostilità, e quindi porvi rimedio.
La visione cinese si dimostra corretta e pienamente corrispondente alla realtà: l’attuale dirigenza ucraina non è autonoma nelle sue decisioni, ma anzi agisce dal 2014 come testa d’ariete da utilizzarsi a discrezione del blocco NATO contro la Russia. E’ semplicemente insensato parlare della crisi ucraina come se si trattasse dell’esplosione di un conflitto regionale dettato da qualche storica ostilità. Questa narrazione non è solo profondamente errata, ma anche non in grado di portare concretamente verso la pace. Al contrario, la proposta di pace della RPC coglie perfettamente l’essenza della guerra come esplosione delle contraddizioni tra gli Stati Uniti disposti a qualsiasi azione, finanche al terrorismo internazionale, per difendere la propria egemonia e quelle forze internazionali, tra le quali spiccca la Federazione Russa, impegnate in una lotta per la ridefinizione in senso democratico e paritario delle relazioni internazionali. In poche parole come manifestazione dello scontro fra unipolarismo e multipolarismo.
Ciò emerge ancor più fortemente se si mette in connessione la proposta di pace con altri due documenti usciti negli stessi giorni dalle autorità della Cina popolare: l’Iniziativa per la Sicurezza Globale presentata dal Presidente Xi Jinping e il saggio del Ministero degli Esteri ‘L’egemonia USA e i suoi pericoli’.
L’Iniziativa per la Sicurezza Globale “mira a eliminare le cause profonde dei conflitti internazionali, a migliorare la governance della sicurezza globale, a incoraggiare gli sforzi internazionali congiunti per portare maggiore stabilità e sicurezza in un’epoca mutevole e volatile e a promuovere una pace e uno sviluppo duraturi nel mondo”, con la convinzione che le tendenze internazionali alla pace, allo sviluppo e alla cooperazione dal mutuo beneficio siano inarrestabili, al netto di una fase globale di crisi e cambiamenti.
Tra i principi fondamentali che la caratterizzano vi sono il riconoscimento dell’indivisibilità della sicurezza globale, l’impegno a rispettare, come espresso dai documenti fondamentali delle Nazioni Unite, la dignità e la sovranità di tutti i paesi, “grandi o piccoli, forti o deboli, ricchi o poveri”, egualmente parte della comunità internazionale, e di conseguenza il rispetto della non ingerenza nei loro affari interni e nella loro scelta di sistemi sociali e percorsi di sviluppo.
Questo naturalmente porta al ripudio di strumenti quali le sanzioni, l’unilateralismo, il protezionismo economico e le invasioni militari, ma anche al riconoscimento paritario di ogni preoccupazione in materia di sicurezza, a prescindere dal paese che se ne faccia portatore. Ancora una volta la memoria non può andare che all’espansione della rete di basi militari e di alleanze portata avanti dagli Stati Uniti d’America, che per una loro mal concepita “sicurezza strategica” sono arrivati a minacciare direttamente i confini della Federazione Russa e della Repubblica Popolare Cinese, oltre che di altri numerosi paesi. E’ naturale che esistano delle preoccupazioni in materia di sicurezza, ma queste, secondo il documento cinese, devono essere risolte tramite il dialogo multilaterale all’insegna dell’indivisibilità della sicurezza: l’accrescimento della sicurezza dell’uno a discapito di quella dell’altro non rende il mondo più sicuro, ma maggiormente predisposto allo scontro e all’instabilità.
E’ infatti evidente come la creazione dell’egemonia globale statunitense non abbia portato ad un periodo di pacifico sviluppo, ma anzi abbia caratterizzato gli ultimi trent’anni con una serie interminabile di crisi economiche, di guerre e costanti violazioni di sovranità e diritti democratici in ogni parte del mondo. L’affermazione di un potere incontestabile garantito unicamente dalla forza della propria moneta e dei propri eserciti ha creato una perenne situazione d’instabilità. Un modello diverso, imperniato sul dialogo e sulla cooperazione, è visto dalla Repubblica Popolare non solo come possibile, ma necessario.
“È nostra comune aspirazione raggiungere una pace mondiale duratura, in modo che tutti i paesi possano godere di un ambiente esterno pacifico e stabile e che i loro popoli possano vivere una vita felice con i loro diritti pienamente garantiti. Come i passeggeri a bordo della stessa nave, i paesi devono lavorare in solidarietà per promuovere una comunità di sicurezza condivisa per l’umanità e costruire un mondo libero dalla paura e che goda di sicurezza universale.” Per far questo non è conveniente utilizzare il “grande bastone” storicamente rivendicato dalle amministrazioni statunitensi, ma sviluppare le relazioni multilaterali a carattere regionale dal Sud America all’Asia, dall’Africa al Medio Oriente, sulla base di realtà cooperative come l’ASEAN, il Forum di Xiangshan per la sicurezza dell’Asia, i BRICS e l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai.
Il documento si conclude con un invito a tutti i paesi ad agire in maniera coordinata per “proteggere la pace e la tranquillità della terra e creare insieme un futuro migliore per l’umanità, in modo che la fiaccola della pace sarà trasmessa di generazione in generazione e risplenderà in tutto il mondo.”
Chi potrebbe opporsi a tutto questo? Nessuno, per il momento, ha il coraggio di rivendicare come “valori” la guerra e la destabilizzazione, ma è innegabile come nello scenario internazionale alcune forze vi abbiano fatto ricorso sistematico come elemento costitutivo del proprio potere. Si tratta delle forze dell’egemonia statunitense, che nel documento “L’egemonia USA e i suoi pericoli”, pubblicato dal Ministero degli Esteri il 20 febbraio, vengono analizzate nei loro impatti concreti sulla vita democratica delle nazioni e sulla pace globale.
L’egemonia statunitense viene scomposta nelle sue dimensioni politica, militare, economica, tecnologica e culturale, ognuna delle quali agisce in funzione dell’instabilità e dell’asservimento del mondo a Washington.
Con la scusa della “promozione della democrazia”, gli Stati Uniti fin dai primi anni del XIX secolo hanno iniziato ad interferire politicamente nella vita dei paesi prima del continente americano, poi del resto del mondo. Dalla “Dottrina Monroe” ai tentativi di “regime change”, gli USA hanno attivamente cospirato al fine controllare la vita politica dei paesi che essi percepiscono come naturalmente sottoposti. Elemente più che mai attuale di ciò è la creazione di reti di alleanze che, con il pretesto di una presunta natura “difensiva”, in realtà hanno l’obiettivo di “alimentare divisioni, provocare scontri e minare la pace”. Esempi di questo sono la NATO ma anche l’AUKUS, centrale nella strategia indopacifica di contenimento della Repubblica Popolare.
In ciò si inserisce anche la promozione della narrativa sul preteso scontro tra “democrazie” e “autoritarismi”, che dovrebbe giustificare l’impegno interventista internazionale come strumento di difesa delle prime rispetto ai secondi, dipinti come intrinsecamente violenti e pericolosi. E’ ovvio, e notato dai cinesi, come la definizione di “democrazia” applicata in questi giudizi sia totalmente arbitraria, e anzi strumentale a pratiche strategicamente offensive e volte allo scontro.
L’egemonia statunitense dal punto di vista militare si è infatti caratterizzata per lo “sfrenato utilizzo della forza”. Il prezzo della democrazia “made in USA” sembra essere l’eterna presenza di conflitti di maggiore o minore intensità, condotti direttamente o per procura in ogni parte del globo. Le spese militari annue degli USA ammontano al 40% di quelle totali dell’intero globo, e sono state negli anni dalla fondazione del paese dirette a finanziare più di 400 interventi militari all’estero: si tratta, in media, di quasi due conflitti all’anno.
Le invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan, gli interventi volti ad instaurare regimi fantoccio in Siria, Yemen, Ucraina, Libia, Venezuela e in decine di altri paesi hanno provocato non solo centinaia di migliaia di vittime, ma milioni e milioni di profughi. Interi paesi, come l’Afghanistan, sono stati prima invasi e poi ridotti ad una “piantagione di papaveri da oppio”, con lo stesso tesoro nazionale sequestrato dagli USA dopo il loro maldestro ritiro, in un’opera di “puro saccheggio”.
Il “saccheggio” è una pratica strutturale dell’egemonia statunitense, che economicamente si fonda sul ruolo privilegiato del dollaro e sui monopoli.
Agli Stati Uniti “costa solo 17 centesimi stampare una banconota da 100 dollari, ma gli altri paesi devono mettere assieme merci per un valore congruo per ottenerne una” notano i cinesi, chiamando in causa la sproporzione tra il valore nominale del dollaro, per nulla congruo con le capacità produttive del paese, e il suo impatto internazionale, foriero di instabilità, inflazione e sottosviluppo.
Il controllo sulle organizzazioni economiche e finanziarie internazionali costringe i paesi alla liberalizzazione delle proprie economie a vantaggio esclusivo della speculazione statunitense. Basti pensare ai vari programmi per la riduzione del debito del Fondo Monetario Internazionale, responsabili del tracollo economico e sociale di innumerevoli paesi.
Sempre in un’ottica di violenza economica vanno inserite le sanzioni, che, emesse in maniera illegale e unilaterale da Washington, servono unicamente come arma geopolitica per colpire i propri avversari strategici. Esse sono uno strumento atto alla “soppressione dei contendenti economici ed interferenza nei traffici internazionali”, che non si limitano solo a colpire i “paesi canaglia”, ma possono, in forma mascherata, colpire anche gli stessi alleati: è il caso degli Accordi di Plaza imposti al Giappone, che avrebbero portato alla sua trentennale crisi, e, si potrebbe aggiungere, della Germania, dallo scandalo della Volkswagen fino agli attentati al Nord Stream.
Le sanzioni servono anche a tutelare il monopolio tecnologico americano, impedendo l’emergere di attori internazionali capaci di competere efficacemente con esso. La tutela della “proprietà intellettuale” e l’interesse strumentale per i “diritti umani” vengono chiamati in causa per imporre restrizioni ad aziende percepite come pericolose, escludendole dai mercati più controllati dagli statunitensi nel tentativo di ritardarne lo sviluppo. E’ il caso della Huawei, verso cui la repressione si spinse fino all’immotivato arresto del Capo dell’Ufficio Finanziario Meng Wanzhou, detenuto in Canada per quasi tre anni.
E’ però attraverso il controllo della narrativa che tutti gli aspetti dell’egemonia statunitense possono essere giustificati agli occhi dell’opinione pubblica. E’ l’egemonia culturale che permette di falsificare la realtà, mascherare come “difesa della democrazia” l’instaurazione di regimi collaborazionisti e come “tutela della pace” la costruzione di alleanze dal chiaro carattere offensivo. Giustamente il Ministero degli Esteri vede come l’egemonia culturale non si esprima solo attraverso “interventi diretti”, ma anche, e soprattutto, tramite una più subdola “infiltrazione”. Prodotti culturali come film, serie televisive, libri, ma anche piattaforme come stazioni televisive e social network fungono da strumento preparatorio e giustificatorio per le campagne d’aggressione politiche ed economiche.
Ciò accadde già nei confronti di diversi paesi socialisti nel secolo scorso, e continua oggi ai danni di qualsiasi Stato restio a sottomettersi al potere dittatoriale di Washington.
La stessa bandiera della “libertà di stampa” viene rivendicata in maniera ipocrita: si accusano pubblicamente paesi come la Cina, la Russia e l’Iran, quando in Occidente sono stati arbitrariamente bloccati tutti i media della Federazione Russa, con compagnie come Netflix, Youtube e Google impegnate nella rimozione di qualsiasi contenuto non congruo con la narrazione propagandistica filo-occidentale.
Nell’opporsi a queste pratiche egemoniche “egoiste, unilaterali e regressive”, la Cina rilancia nuovi modelli di cooperazione che escano dallo schema dello scontro tra blocchi, fondate sul dialogo e la cooperazione, e sul netto rifiuto di ogni egemonismo.
Questa posizione è stata caratteristica della postura internazionale cinese sin dalla fondazione della Repubblica Popolare e, soprattutto, dalla Conferenza di Bandung del 1955, ma assume oggi un carattere particolarmente preminente vista la fine del bipolarismo della Guerra Fredda e la progressiva decomposizione del sistema unipolare imperialista statunitense, che, dialetticamente, pone con le sue pratiche le condizioni stesse del suo superamento.
In questo periodo di cambiamenti e nella contraddizione sempre più marcata tra le regressive forze dell’unipolarismo e le progressive forze del multipolarismo va vista l’azione diplomatica e geopolitica della Repubblica Popolare Cinese, caratterizzata da una sincera, e riscontrabile, ricerca della stabilità e di relazione paritarie. Se il piano di pace proposto da Beijing nel “libero” Occidente ha ricevuto l’attenzione solo di Stati come l’Ungheria è proprio per la forza qui esercitata dall’egemonia statunitense, tanto politica, quanto economica, militare, tecnologica e culturale. Ma i cittadini, dentro e fuori le istituzioni, possono e devono impegnarsi per rompere la gabbia della narrativa dominante e aiutare in questo storico scontro le forze che lottano per una “comunità umana dal futuro condiviso”, contro ogni violazione di sovranità ed egemonismo.
I documenti sono reperibili ai seguenti indirizzi:
Piano di pace cinese: https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/zxxx_662805/202302/t20230224_11030713.html
Iniziativa per la Sicurezza Globale:
http://it.china-embassy.gov.cn/ita/xwdt/202302/t20230221_11028842.htm
“L’egemonia USA e i suoi pericoli”:
https://www.fmprc.gov.cn/mfa_eng/wjbxw/202302/t20230220_11027664.html