Il 6° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale descrive un mondo del lavoro nel quale per i giovani ci sono sempre meno spazi. Se negli ultimi dieci anni i lavoratori giovani sono diminuiti di -7,6%, aumentano invece gli occupati nella fascia di età compresa tra 50 e 64 anni (+40,8%) ma ancora di più crescono gli over 65 .
Chi sono i responsabili di questa situazione?
Intanto le politiche attive del lavoro sono assai carenti, colpa anche dello smantellamento delle Province con il ridimensionamento dei centri per l’impiego e dei corsi destinati a disoccupati e giovani che non hanno finito le superiori.
Molte aziende cercano forza lavoro già formata ma ben poche investono per costruire competenze e formazione al loro interno.
I lavoratori invecchiano e non solo per la cosiddetta transizione demografica del Paese. Quanti pensano che l’arrivo dell’esercito industriale di riserva costituito da migranti (ma negli ultimi dieci anni ne sono arrivati sempre meno mentre invece aumentano gli italiani che vanno all’estero a cercare lavoro) abbia decretato la riduzione del potere di acquisto e i bassi salari non sbagliano ma dovrebbe prima domandarsi cosa abbiano fatto i sindacati per arrestare questi processi. Se il sistema produttivo si basa su bassi salari, contratti sfavorevoli, appalti e subappalti la tendenza ad assumere forza lavoro con basse retribuzioni riguarderà tanto gli autoctoni quanto i migranti.
Il tutto va contestualizzato nel quadro della narrativa ufficiale sulle “dimissioni volontarie”.
A seguito delle controriforme introdotte dal “Jobs Act”, a partire dal 12 marzo 2016, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro devono essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche. A partire dal 2021, la informazione mainstream ha parlato di una sorta di boom di dimissioni volontarie dal lavoro: uno su quattro sarebbe alla ricerca di “un nuovo senso di vita” come intitola un articolo su rainews riportando poi i numeri ministeriali. Tale narrazione tossica sulle dimissioni volontarie implica la costruzione di una notizia per avvalorare l’idea che i lavoratori e le lavoratrici non siano legate al posto fisso e anzi abbiamo compreso come la rinuncia ad una occupazione sia anche un segnale di “apertura al mondo” e a nuove esperienze umane. La realtà è invece un’altra, ossia che l’ascensore sociale è fermo da anni e chi rinuncia a un impiego lo fa perchè costretto come anche nei casi di part time involontario, imposto dalla assenza di un welfare adeguato che consenta di gestire anziani, minori a costi decisamente bassi e in strutture pubbliche. Le dimissioni sono un segnale preoccupante perché non indicano un investimento sul proprio futuro come si vorrebbe far credere: molti impieghi sono sottopagati, a tempo determinato, con contratti atipici e sfavorevoli, in prevalenza part time; da qui scaturisce invece una fotografia impietosa dell’occupazione odierna fatta anche di lavori mal pagati con spese di viaggio, orari disagiati e la impossibilità di accedere ai servizi pubblici. Fatti due conti talvolta si spende più per una rsa o una baby sitter , o in benzina per recarsi al posto di lavoro, di quanto percepito in busta paga. Molte dimissioni poi sono state concordate tra lavoratore e azienda soprattutto dopo la crisi degli anni pandemici che ha messo in ginocchio numerose attività rendendo nei fatti impossibile la gestione ordinaria con i costi derivanti da contratti subordinati.
Non è dato sapere poi la natura dei nuovi lavori, circa 49.500 italiani hanno trovato un nuovo impiego, sarebbero il 6,2% in più rispetto al 2019 ma non ne conosciamo la tipologia contrattuale, il CCNL applicato, la retribuzione annuale lorda e la durata del contratto. Si fa presto allora a parlare di nuova occupazione….
Restano i numeri incontrovertibili a fotografare una forza lavoro costituita da oltre il 21 per cento di precari ma se facciamo riferimento solo alle donne si arriva e si supera il 28% a conferma che il binomio donna e precarietà è sempre più marcato.
E la precarietà domina soprattutto le fasce di età under 40.
Sempre le donne sono vittime del cosiddetto part-time involontario, meno ore lavorate e retribuzioni più basse; il fenomeno, in crescita, riguarda tuttavia anche gli uomini e attraversa ogni fascia di età.
Se l’ascensore sociale è fermo da anni, anche la mobilità e il cambio di lavoro diventa prerogativa solo di fasce ridotte della popolazione, in particolare quanti possono vantare maggiore specializzazione e titoli di studi post universitari. La mobilità occupazionale diventa così un fattore di classe e quando riguarda le fasce sociali meno abbienti avviene soprattutto dentro i cambi di appalto per sottrarsi a condizioni lavorative e retributive senza dignità andando a lavorare per pochi centesimi in più all’ora.
Quasi il 70 % degli occupati ha dichiarato di lavorare solo per vivere accettando impieghi non gratificanti, per pagare un mutuo, un affitto, le bollette e fare la spesa. I processi di alienazione sono in continuo aumento come anche le malattie derivanti da condizioni di vita indecorose e dalla crescente insoddisfazione. E in questo caso la debolezza della medicina del lavoro e di quella preventiva non è certo di aiuto…
Se dovessimo chiedere alla forza lavoro quali sono gli interventi migliorativi, tutti risponderebbero indicando lo scarso potere di acquisto salariale, gli orari ultra flessibili, il mancato avanzamento professionale e di carriera, le continue richieste di accrescere la produttività.
Aumenta la paura di perdere il posto di lavoro nell’immediato futuro, questa è la preoccupazione di metà della forza lavoro che guarda ai processi di ristrutturazione capitalistica , ai processi innovativi in generale, con crescente angoscia.
Particolarmente forte la narrazione sulla presunta convenienza dello smart che nella P.A. avviene con decurtazioni economiche per far fronte a un welfare inadeguato e carente, lo scambio diseguale tra modalità agile e decurtazioni salariali
Il lavoro agile forse aumenterà la qualità della vita per alcuni ma spinge al contempo al ribasso le dinamiche salariali e riduce il potere contrattuale senza dimenticare che lo smart riduce i costi a carico della azienda innalzando al contempo la produttività della forza lavoro. Considerazioni elementari ma dirimenti per inquadrare correttamente il fenomeno del lavoro agile.
Chiudiamo con il welfare aziendale costruito sugli accordi di secondo livello. Con questa espressione si intende una contrattazione siglata tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali cosiddette rappresentative che permette di derogare ai CCNL. Essa è ormai prevista all’interno dei contratti nazionali e consente: la gestione flessibile degli orari di lavoro, la deroga al limite legale dei contratti a tempo determinato ampliando la stagionalità e detassando i premi di produzione. Sovente in questi tipi di accordo avviene un baratto iniquo tra accrescimento della produttività, dei ritmi e dei tempi di lavoro con orari ultra flessibili o in cambio di servizi erogati attraverso il welfare aziendale sul quale i datori pagano ben poche tasse. Avviene un autentico conflitto di interesse ormai in ambito sindacale: chi dovrebbe difendere sanità e previdenza pubblica ha tutto l’interesse invece a favorire previdenza e sanità integrative come misure di welfare aziendale come merci di scambio da spendere negli accordi di secondo livello, che non a caso vengono da tempo definiti una sorta di contratti “sartoriali” tali da consentire all’azienda di “cucire su misura” il contratto in base alle proprie esigenze, accrescendo la produzione e la produttività, aumentando l’impiego flessibile e il ricorso anche a contratti precari. Sempre i contratti di secondo livello, alla occorrenza, sono funzionali a gestire il personale in “esubero” nelle fasi di crisi aziendali, in caso di calo degli ordini e della produzione, andandosi ad aggiungere agli ammortizzatori sociali esistenti. Nell’immaginario collettivo il welfare aziendale è vantaggioso perchè consente l’accesso a servizi un tempo erogati dal pubblico e oggi di fatto negati. Nel corso degli anni scopriremo che il welfare aziendale è stato il cavallo di Troia per smantellare sanità e previdenza pubblica; forse lo comprenderemo fuori tempo massimo quando sarà impossibile tornare indietro