Su quali principi si regge il capitalismo senile? Ne elencherò cinque in modo sommario, per poi discuterne gli intrecci:
1. Debito. L’unica strada verso il futuro del capitalismo continua a essere lastricata di programmi di creazione di liquidità. Creare denaro dal nulla, per metterlo in moto come credito, è l’unica strategia monetaria che ci permette di ignorare l’abisso che già si spalanca sotto i nostri piedi – come per il personaggio dei cartoni animati che, finito oltre il precipizio, continua a correre a mezz’aria sfidando la gravità. Tuttavia, come dimostra l’attuale violenta ondata inflazionaria – ancora in doppia cifra in Europa – l’attrazione gravitazionale è ormai irresistibile.
2. Bolle. Le bolle speculative, alimentate dal moto perpetuo del credito, costituiscono l’unico significativo meccanismo di produzione di ricchezza. Per questo motivo, la sola preoccupazione dei gestori del “capitalismo di crisi” è impedire la deflagrazione della mega-bolla. Ma mentre l’ultra-finanza distrugge la “società del lavoro”, la vita umana diventa eccedenza inutilizzabile, enorme surplus non-produttivo da amministrare creativamente.
3. Demolizione controllata. Dumping salariale e concorrenza al ribasso per posti di lavoro devastati dall’automazione tecnologica sono l’altro lato del paradigma di bolla. Affinché i mercati speculativi possano continuare a levitare, la società fondata sul lavoro (articolo 1 della Costituzione italiana) dev’essere gradualmente ma radicalmente ridimensionata, poiché l’attuale ipertrofia finanziaria richiede la demolizione della domanda reale. Detto diversamente, il “capitalismo dei consumi” si ricicla nel “capitalismo della gestione della miseria collettiva”, con annesso cambio di narrazione ideologica.
4. Emergenze. La fase terminale della civiltà capitalistica è caratterizzata dall’ideologia intrinsecamente terroristica della permacrisi o – parafrasando Guy Debord – dell’“emergenzialismo integrato permanente,” che deve riempire ogni secondo della nostra vita. In questo senso, la recente pseudo-pandemia ha fatto solo da apripista. Non dobbiamo illuderci: un mondo che difende così fanaticamente la propria implosione ha in serbo per noi molte altre sorprese.
5. Manipolazione. La propaganda mediatica nell’era dell’iper-connessione digitale viene spontanea, quindi è naturale che il capitalismo terminale ne approfitti. A ben vedere si tratta di un’ostinata confluenza di stupidità e calcolo. Come George Orwell aveva predetto ben prima di televisione e Internet, viene meno il confine tra menzogna e realtà: ‘Il procedimento [del controllo dell’opinione pubblica] deve essere conscio, altrimenti non riuscirebbe ad essere condotto a termine con sufficiente precisione, ma deve essere anche inconscio, perché altrimenti non saprebbe andar disgiunto da un senso vago di menzogna e quindi di colpa.’[1] Più precisamente, la manipolazione richiede ‘la dislocazione permanente del senso della realtà, per cui viene a mancare un punto di riferimento oggettivo nel mondo esterno attraverso il quale giudicare la verità e la realtà delle cose.’[2] Jean Baudrillard ha chiamato il risultato di questo processo iperrealtà: poiché la distanza tra il reale e la sua rappresentazione mediatica viene meno, l’unica realtà cui riusciamo a rapportarci è quella “informata” dai media.
Il delirio del moto perpetuo
Esauriti i trucchi monetari, le élite finanziarie si sono messe all’angolo da sole. Il sistema speculativo basato sul debito, pompato per decenni da stampa di denaro e soppressione dei tassi di interesse, non può più essere sostenuto senza significativi “danni collaterali.” Cade così la maschera della “triste scienza” dell’economia borghese (secondo la celebre definizione di Thomas Carlyle), e della sua illusione che il denaro possa riprodursi autonomamente, come attraverso un meccanismo di moto perpetuo. L’attuale inflazione strutturale è il primo evidente sintomo di una metastasi che si diffonde rapidamente nel corpo sociale, costringendo un’ampia fetta della popolazione – comprese classi medie sempre più insolventi – a scegliere tra mettere cibo in tavola e pagare le bollette. Dovrebbe ormai essere chiaro che qualsiasi politica monetaria espansiva – necessaria per sostenere il settore finanziario – causerà ulteriore erosione del potere d’acquisto, rendendo quindi indispensabili nuove misure coercitive per il controllo delle masse impoverite. L’alternativa capitalistica a questo scenario è che le banche centrali continuino ad alzare i tassi, fino allo scoppio delle bolle – dalla padella alla brace.
Nell’attuale sistema finanziario l’illusione del moto perpetuo funziona come segue: l’espansione del credito attira denaro negli asset di investimento, la cui valutazione cresce con l’aumentare della domanda. Parte degli asset dopati fungono da garanzia per ulteriori prestiti, innescando un circolo vizioso in cui il credito alimenta la valutazione degli asset che alimenta il collaterale a garanzia che alimenta il credito. Poichè la nostra esistenza è ormai interamente presa in consegna dall’espansione della liquidità, l’unica cosa che di fatto conta è continuare a far leva sul capitale creditizio. E finché il delirio del moto perpetuo regge – insieme alla corrispettiva affabulazione ideologica – gli obblighi di finanziamento del debito possono essere rimandati. Ma se i tassi di interesse salgono e il collaterale perde valore, subentra il panico e si comincia a vendere – in modalità gregge. Con il deterioramento del collaterale, gli asset rischiano di scendere sotto al debito in essere, finendo per drenare liquidità fino allo scoppio della bolla. È bene sapere che ci stiamo avvicinando a quest’ultima fase, in cui la creazione di ricchezza speculativa senza sostanza si trasforma in spirale mortale per la bolla del debito: le valutazioni precipitano, il collaterale a garanzia si riduce, il credito crolla. Il paradosso del nostro tempo è che il denaro speculativo che gonfia le bolle finanziarie non ha sostanza valoriale; ma se le bolle scoppiano, si scatena l’inferno.
L’Occidente globalizzato ha già ipotecato gran parte di ciò che ha (e che non ha). Vale a dire: Stati, imprese, e famiglie ormai non posseggono altro che il loro debito. E siccome il casinò globale continua a minacciare bancarotta – come annunciato, in ultimo, dal fallimento della Silicon Valley Bank – i detentori del potere finanziario sanno di dover agire in fretta se vogliono mantenere intatti i privilegi di sistema. Hanno infatti capito che per continuare a inondare i mercati di liquidità artificiale occorre pilotare l’economia reale, già in caduta libera, verso la stagflazione. Lo strumento per farlo lo abbiamo davanti agli occhi: un autoritarismo subdolo e strisciante legittimato da emergenzialismo a getto continuo; un nuovo fascismo in versione neo-feudale, iper-digitalizzata, e finto-solidale (di “sinistra”) – tale da servirsi di un antifascismo archeologico e di maniera, puramente pretestuoso, come comprese perfettamente Pasolini negli anni ’70 del secolo scorso.[3] Inaugurata in grande stile dalla pseudo-pandemia, oggi la dinamica implosiva viene presa in gestione dalle banche centrali, che aumentando i tassi fanno solo il solletico all’inflazione, ma per contro deprimono la domanda reale.
A questo proposito, il recente aumento dei costi energetici dev’essere visto contestualmente come parte del più ampio tentativo di decomprimere un sistema altamente infiammabile – l’equivalente del disinnesco di una bomba atomica. Le sanzioni alla Russia sono state sin dall’inizio una misera farsa e, per l’Europa, un poco raffinato esercizio masochistico. Basti considerare che, stanti le dinamiche di commercio globale, la Russia sanzionata vende petrolio e gas a India e Cina a prezzo scontato, le quali poi esportano gli stessi in Europa (e USA) a prezzo maggiorato. Analogamente, l’obiettivo reale della “lotta contro il cambiamento climatico” perorata dalle multinazionali attraverso il dogma degli investimenti ESG – ufficialmente inaugurato nel 2020 dalla lettera “net zero” di Larry Fink (CEO di BlackRock) – è imporre standard di vita più bassi a quelle classi lavoratrici che fino a qualche anno fa venivano ancora esortate a inseguire l’utopia del consumo sfrenato. L’Ucraina può essere vista come tragico simbolo di tale demolizione controllata: grazie a una guerra per procura protratta sine die, l’infrastruttura industriale del paese viene cinicamente distrutta. Non è un caso che il 28 dicembre scorso, lo stesso Larry Fink e l’ormai divinizzato Volodymir Zelensky abbiano concordato un programma di investimenti per ricostruire l’Ucraina, confermando lo schema ormai familiare per cui la devastazione di un’intera società diventa opportunità di espansione finanziaria. Ecco perché l’Occidente invia centinaia di miliardi di dollari in Ucraina, anziché negoziatori di pace.
Il punto da cui non possiamo prescindere è il seguente: la demolizione controllata della domanda reale è l’altra faccia del capitalismo ultra-finanziarizzato. Ciò significa che il capitale può continuare a auto-riprodursi solo ampliando il divario tra un pugno di nababbi controllori di denaro e informazione, e la plebe impoverita, che per questo dovrebbe 1. Non possedere nulla e esserne felice (secondo il celebre slogan del WEF); 2. Sacrificare le proprie libertà personali (compresa la libertà di espressione, sempre più soffocata da un “discorso culturale” grottescamente iper-regolato); 3. Cedere il proprio diritto di esistere allo Stato, il cui ruolo biopolitico è amministrare tale diritto per conto del capitale transnazionale. Questa deriva perversa del “capitalismo di crisi” è stata ampiamente sottovalutata – per usare un eufemismo – dalla nostra intellighenzia di sinistra anche “radicale” (da Noam Chomsky a Slavoj Žižek) che, come i cani di Pavlov, ha salivato alla prospettiva del “ritorno dello Stato” quale sicuro segno di emancipazione.
La deprimente miopia della sinistra si è rivelata particolarmente aggressiva nel corso della recente “pandemia”, da intendersi non come peste bubbonica del nuovo millennio ma come golpe finanziario reso possibile dalla più grande e spettacolare operazione di lavaggio del cervello mai sperimentata dall’umanità. L’emergenza è servita a nascondere un fatto in sé piuttosto banale: che era (è) il sistema a essere afflitto da malattia terminale, non la popolazione mondiale. Paradossalmente, la sinistra continua a correre al capezzale del capitalismo in terapia intensiva, così malmesso da poter solo fingere un dinamismo che non possiede attraverso la mobilitazione globale di violenza, paura, distrazione, e corrispettive narrazioni fintamente etiche o salvifiche. Il COVID-19 è stato soprattutto una pandemia di paura, con conseguenze tuttora da verificarsi. Quando un “vaccino” sperimentale viene imposto come pozione magica (la famosa efficacia del 95%!) contro una malattia a tasso di sopravvivenza del 99,8%, anche nelle menti dei nostri intellettuali pubblici, notoriamente allergici all’esercizio del pensiero critico, dovrebbe quantomeno affacciarsi il dubbio. Allo stesso modo, nessuno ha sentito un rigurgito di vergogna quando Pfizer ha ammesso di non aver mai avuto la più pallida idea circa la capacità dei loro sieri di interrompere la trasmissione del virus – quando proprio questa storiella è stata venduta al pubblico come indiscutibile verità scientifica dietro l’imposizione di vaccinazione di massa e annesse discriminazioni. Domanda (retorica): quanto a destra si è spinta la sinistra se non riconosce neppure i criminali giochi di prestigio del capitalismo emergenziale? Nel sostenere l’implosione globale dietro falsi pretesti etici la maggior parte della sinistra odierna fa il lavoro della destra in modo più efficiente della destra stessa.
Per quanto la percezione della truffa pandemica cominci a farsi largo nelle coscienze, la maggior parte di noi continua a preferire la soluzione dello struzzo: meglio (fingere di) non sapere che mettere in discussione i propri livelli di ingenuità (o collusione). Ma non ha molto senso recriminare. Piuttosto, mi sembra importante tornare sul punto chiave dell’intera vicenda: Virus è stato lo scudo invisibile utilizzato per rimandare un collasso bancario & finanziario rispetto al quale la crisi del 2008 sarebbe parsa un’avventura bucolica; allo stesso tempo, ha inaugurato una strategia pan-emergenziale finalizzata alla gestione dall’alto dell’immiserimento di massa – non solo nelle periferie del mondo capitalista, ma ora anche al suo centro. Così veniamo persuasi ad accettare il lento ma inesorabile tracollo della civiltà capitalistica come destino: una stagflazione in qualche modo fiabesca, originatasi da fattori esterni in gran parte incontrollabili (la pandemia, la guerra in Ucraina, il cambiamento climatico, politici o banchieri corrotti) piuttosto che dalla decomposizione in atto del nostro modo di produzione. Oltre al danno, insomma, la beffa.
Il gran ballo delle bolle
Molte criticità hanno minacciato il casinò finanziario globale nel corso del 2022. In totale, azioni e obbligazioni hanno perso più di 30 trilioni di dollari, nonostante corporate buybacks da record assoluto (che gonfiano artificialmente i prezzi delle azioni). L’indice Nasdaq ha chiuso l’anno a – 33%, la peggiore performance dal 2008. Il volume globale del debito a rendimento negativo si è contratto da $18,4 trilioni nel dicembre 2020 a $686 miliardi nel dicembre 2022 (che, nonostante la fuorviante reazione euforica dei media, è una cattiva notizia per la bolla del debito, poiché significa che le obbligazioni stanno crollando). Naturalmente, gli aumenti dei tassi sono i principali responsabili della perdita di valore di mercato. Tuttavia, lo straordinario rimbalzo dei principali listini azionari mondiali di inizio 2023 suggerisce che i mercati continuano a godere del sostegno incondizionato delle banche centrali. Difficile dubitare che queste ultime non siano pronte a tornare in campo con iniezioni monetarie esplicite non appena ritenuto necessario – sicuramente dietro lo scudo della prossima ineluttabile emergenza.
Inoltre, se l’indice di liquidità globale è ora in fase di rapido deterioramento (dopo oltre un decennio di crescita artificiale) l’ultimo giorno del 2022 ha registrato un massimo storico in depositi reverse repo presso la Fed di New York: 2,5 trilioni di dollari da parte di 113 controparti. Ciò significa che mentre la gente comune s’ingegna per pagare mutui e bollette, gli investitori parcheggiano quantità enormi di liquidità presso la Fed, poiché la reverse repo facility (pronti contro termine) garantisce rendimenti più elevati e sicuri rispetto a altri investimenti (l’attuale tasso repo è al 4,57%). Il massiccio utilizzo di questi contratti significa che grandi volumi di liquidità inconsistente, con enorme potenziale inflazionistico, vengono assorbiti dalla Fed, che quindi cerca di congelare la base monetaria evitando che appaia direttamente come domanda reale. Peraltro, è almeno dagli anni ’90 che, per esorcizzare l’inflazione da bolla, le banche centrali si adoperano affinchè enormi masse di denaro rimangano improgionate nel sistema finanziario. Ma questa strategia è ormai obsoleta, poiché la mole di capitale fittizio è stata gonfiata al punto da non poter più essere repressa. Piuttosto, ha da tempo iniziato a cannibalizzare l’economia reale.
Da inizio millennio il nostro mondo è ostaggio del processo di clonazione di bolle finanziarie – tecnologica, immobiliare, debito sovrano, ecc. – ognuna delle quali dipende dalla frenetica creazione di cash e dalla soppressione dei tassi, per gentile concessione delle banche centrali. Ma questione ancor più dirimente è che questo processo di clonazione sostiene la produzione reale, ovvero la riproduzione delle nostre società. La vecchia logica capitalistica si è dunque invertita: le bolle speculative sono ora driver sistemici, mentre in passato erano fenomeni isolati sia nel tempo che nello spazio. Il loro attuale carattere ontologico li rende incomparabili, per esempio, alla bolla dei tulipani olandesi del 1630, o a quella della Compagnia dei Mari del Sud del 1720 (costruita sui profitti della tratta degli schiavi). Quando quelle bolle scoppiarono, lasciarono il posto a nuovi cicli di accumulazione reale, basati cioè sullo sfruttamento intensivo di forza lavoro. Oggi invece una bolla che scoppia non può che ambire a trasformarsi in altra bolla. Ciò significa che un’enorme quota della produzione reale è già stata presa in consegna dal processo speculativo. Allo stesso tempo, la catena finanziaria ha raggiunto una quasi totale disconnessione dalla catena del valore-lavoro, come oggi certifica persino Morgan Stanley. Siamo dunque strozzati da un meccanismo invisibile che si auto-alimenta, la cui straordinaria astrazione ne inibisce la comprensione ai più.
Ricapitoliamo il punto centrale. L’espansione della bolla richiede “aria calda” sotto forma di liquidità a debito. Il polmone del sistema è il mercato obbligazionario, luogo virtuale in cui vengono scambiati i titoli di debito. Se serve capitale da investire, o per finanziare spese statali (comprese le guerre), vengono emesse obbligazioni, che appunto obbligano chi le emette a rimborsarne il costo a una determinata data di scadenza e tasso di interesse. Le aziende emettono obbligazioni, e così fanno i governi. Indebitarsi per investire è la strategia di leva (leverage) che gonfia la “bolla di tutto” del capitalismo odierno, paragonabile a un castello di carta costruito su una pozza di benzina. Nel 2019, questo schema Ponzi era finito di nuovo sull’orlo di una crisi di nervi a causa del comportamento isterico dei derivati tossici, e soprattutto dell’improvviso aumento dei tassi di interesse dei pronti contro termine nel mercato USA (crisi repo del settembre 2019). La “pandemia”, come ho cercato di ricostruire in un articolo del 2021, è stata la risposta globale al rischio di un Armageddon finanziario arrivato al punto d’innesco. Secondo dati da poco resi pubblici dalla Federal Reserve di New York, solo nel 2019-2020 un totale di 48 trilioni di dollari sotto forma di prestiti agevolati sono passati dalla Fed alle mega-banche di riferimento a rischio default – cifra inimmaginabile anche per il più folle dei complottisti. Questa straordinaria iniezione monetaria non sarebbe stata possibile senza i lockdown e altre restrizioni sociali, che hanno contribuito a ‘isolare l’economia reale dal deterioramento delle condizioni finanziarie’ – per citare il paper della Banca dei Regolamenti Internazionali del giugno 2019.
Ci stiamo ora avvicinando alla resa dei conti per il capitalismo dell’ultra-finanza. La miccia della prossima bomba speculativa è, come anticipato, il mercato del debito – ed è già stata accesa. Le obbligazioni non seguono più l’ormai mitologica legge della domanda e dell’offerta. Secondo questa legge, quando un’obbligazione è molto richiesta il suo prezzo sale, mentre il suo rendimento (e quindi tasso di interesse) diminuisce; al contrario, quando la domanda di obbligazioni diminuisce, cala anche il prezzo, mentre il rendimento (e tasso di interesse) aumenta. Tassi obbligazionari elevati dovrebbero dunque funzionare come valvola di sfogo per qualsiasi bolla speculativa, poiché in teoria denotano un drenaggio di liquidità. Con l’aumento del costo del debito, il mercato obbligazionario dovrebbe cioè sfiatare, impedendo il surriscaldamento dell’economia stessa. Tuttavia, l’intero metaverso finanziario è da tempo sistematicamente distorto dalle banche centrali, che, attraverso le massicce iniezioni di liquidità degli ultimi decenni hanno creato un Frankenstein ormai fuori controllo. L’attuale forte turbolenza nei maggiori mercati obbligazionari suggerisce che le banche centrali non hanno più conigli da estrarre dal cilindro. Se in teoria non c’è limite alla creazione di liquidità per l’acquisto delle obbligazioni, le conseguenze non sono più gestibili attraverso la sola politica monetaria. Come i due anni di pantomima pandemica avrebbero dovuto insegnarci, le élite si stanno preparando a una guerra sociale totale, che richiede innanzitutto il graduale soffocamento dell’economia reale.
Il potenziale distruttivo della valanga del debito è così spaventoso da dover essere nascosto. Lo scorso dicembre, la BRI ha evidenziato come il debito globale fuori bilancio detenuto da istituzioni e fondi finanziari ammonti a oltre 80 trilioni di dollari – un importo superiore alla massa totale di obbligazioni in dollari, pronti contro termine, e carta commerciale in circolazione messi insieme. Si tratta di debito derivato fuori registro, per lo più strumenti speculativi complessi come operazioni di swap in valuta. La BRI afferma che questo debito invisibile è cresciuto da 55 a 80 trilioni di dollari in un decennio, con scambi giornalieri di valuta estera (FX) di 5 trilioni. Le istituzioni finanziarie e i fondi pensione statunitensi hanno in pancia il doppio di obbligazioni swap rispetto all’ammontare del debito in dollari registrato nei loro bilanci. Le banche estere detengono 39 trilioni di dollari di debiti derivati nascosti, ‘più di 10 volte il loro capitale’. Questo onere debitorio è una bomba a orologeria nel cuore dell’economia globale.
Se a seguito della crisi finanziaria globale del 2008 la Fed aveva dichiarato di voler imporre un severo regime di stress test per le banche di importanza sistemica globale, la rivelazione della BRI sul debito derivato non dichiarato ci riporta agli anni ruggenti della presidenza Fed di Alan Greenspan (1987-2006), quando a Wall Street fu permesso di costruire la montagna di derivati tossici che poi esplose nel 2008. Che nulla sia cambiato è ormai un segreto di Pulcinella, perché l’abbuffata di credito è il modus operandi di sistema ormai da quattro decenni. Un ambiente sempre più interconnesso, però, è spontaneamente a rischio contagio. Nel momento in cui il debito denominato in dollari diventa più oneroso a causa dell’aumento dei tassi di interesse, il default di una banca globale, o una svendita di attività finanziarie con annesso crash, sono possibilità concrete – come dimostrato dal recente fallimento della Silicon Valley Bank (sedicesima banca USA). Per questo il sistema deve trovare ragioni per mantenersi liquido a tutti i costi.
In effetti, l’unica opzione sul tavolo sembrerebbe essere la Grande Svalutazione. Alcuni analisti finanziari hanno da tempo previsto che la più ponderosa massa di obbligazioni della storia sarà prima o poi spazzata via da uno tsunami di liquidità elettronica, creata con la tastiera del computer. Per quanto attualmente travestiti da falchi, i banchieri centrali potrebbero presto – magari proprio grazie al fallimento della banca delle start-up della SIlicon Valley – tornare colombe, affossando definitivamente le valute per salvare i mercati obbligazionari. Una bolla del debito che si trasforma in bolla monetaria aprirebbe così la strada a un sistema basato su valuta digitale centralizzata (CBDC, Central Bank Digital Currency) – peraltro da anni in via di sperimentazione e attualmente presa in considerazione da ben 114 paesi. Entità transnazionali come la BRI, il WEF, il FMI e la Banca Mondiale, si trovano di fronte al seguente dilemma: come salvare le bolle vendendoci la storia che la contrazione economica (sorta di collasso al rallentatore) è il risultato di una sfortunata serie di eventi emergenziali a cui dovremo adeguarci non solo per forza, ma anche spontaneamente, con spirito di sacrificio. Ecco perché i burattinai del capitalismo di crisi sono così desiderosi di appropriarsi della retorica tradizionalmente di sinistra: sanno benissimo che solo nel nome di un presunto ideale di “solidarietà collettiva” le masse immiserite potranno accettare nuove forme di dominio camuffate da necessari sacrifici. Così la conservazione tirannica di un modo di produzione ormai spompato ci viene venduta per due spiccioli di falsa moneta umanitaria.
Le vie del valore sono finite
Il vero cambio di paradigma all’interno del capitalismo è avvenuto qualche decennio fa, quando è emerso un nuovo tipo di capitale finanziario, qualitativamente diverso dal suo predecessore.[4] Almeno dagli anni ’80, l’astrazione finanziaria non è più appendice di una fiorente “astrazione economica reale” – il legame sociale basato sulla corrispondenza tra una data quantità di tempo di lavoro e una data quantità di denaro (salario). Piuttosto, la pseudo-industria finanziaria rappresenta oggi l’ultima grottesca versione di un modello misantropico di società sorto circa cinque secoli fa, quando la forza-lavoro “liberata” dal vincolo feudale apparve per la prima volta sul mercato come merce. Tuttavia, si è ormai aperta una voragine tra la catena del credito, artificialmente dilatata, e la massa totale di valore estratta dal lavoro. L’imbarazzo della scienza economica ufficiale rispetto a questa voragine corrisponde alla sua incapacità di comprendere che denaro e valore non coincidono; non rappresentano la stessa entità. Da inizio millennio abbiamo assistito a un enorme trasferimento di liquidità nei mercati obbligazionari e immobiliari, che hanno generato bolle senza precedenti di denaro senza valore, ovvero liquidità svincolata dalla mediazione del lavoro produttivo; non solo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma anche in Cina e in Europa. Ciò ha creato un mix qualitativamente nuovo tra finanza speculativa e economia basata su produzione e consumo di beni reali.
Per un certo periodo di tempo, la “fuga nel futuro” del credito senza sostanza non ha generato inflazione. Oggi però è assurdo continuare a credere che la massa di capitale fittizio e speculativo resti imprigionata nel settore finanziario. Piuttosto, essa ha già colonizzato il mondo reale, erodendo sia il nostro potere d’acquisto che il modello di capitalismo in cui ancora ci illudiamo di vivere. In tale contesto, il limite di valorizzazione interno all’accumulazione reale funge da propulsore esterno, spingendo i capitali verso lo spazio virtuale della circolazione transnazionale degli asset finanziari, che è alimentato da masse crescenti di un debito che si auto-cannibalizza. Questa non è semplicemente la corruzione patologica del modello originario del capitalismo, ma la logica conseguenza della sua crisi storica e strutturale.
A partire dalla Terza Rivoluzione Industriale negli anni ’70, l’impiego di automazione tecnologica (microelettronica) per la riduzione dei costi di produzione e aumento di competitività ha reso il lavoro salariato produttivo di valore sempre più superfluo, inibendo in questo modo anche la creazione di nuovo plusvalore, e innescando la spirale implosiva. Da allora, la piramide si è rovesciata: l’appendice finanziaria della società del lavoro si è trasformata nella sua base. Per questo oggi siamo tutti ostaggio della grande illusione che fa del capitale finanziario un dispositivo di moto perpetuo, che si vuole privo di ripercussioni sul mondo reale. Tuttavia, poiché il lavoro improduttivo globale ha superato il punto di non ritorno, lo shock da svalutazione è inevitabile: uno shock economico destinato a trasformarsi in violento trauma per la coscienza sociale in generale.
Un sistema di bolle dell’attuale ordine di grandezza non può coesistere con una crescita reale, basata su produzione e consumo di massa. Se il volume odierno di capitale fittizio circolasse liberamente, scatenerebbe seduta stante quell’iperinflazione che finora è stata esportata nelle periferie neglette del mondo globalizzato.[5] Lo scenario di fine civiltà in cui siamo entrati è il risultato della straordinaria crescita della dipendenza dal credito nel corso del XX secolo; il che significa innanzitutto che il denaro non ha potuto conservare la sua forma precedente, cioè la convertibilità in oro. Già la prima guerra mondiale dimostrò come non fosse più possibile finanziare un conflitto con valuta legata all’oro. L’aumento del debito innescato dalla seconda guerra mondiale, e dal successivo boom fordista, portarono poi alla decisione, nel 1971, di abbandonare il gold standard. Da quel punto in poi, il denaro ha accelerato la sua corsa verso il vuoto, cosa che la teoria economica borghese (o neoclassica) non ha mai compreso nelle sue implicazioni più profonde. Il keynesismo non fu che un tentativo di salvare il capitalismo da sé stesso, in particolare attraverso il feticcio della spesa in deficit: più debito statale che avrebbe dovuto riaccendere la fiammella dell’economia del lavoro. Gli stessi movimenti operai a ispirazione marxista non hanno mai del tutto assimilato la critica del valore di Marx. Piuttosto, si sono concentrati su più che legittime lotte di redistribuzione, ma quasi sempre all’interno dell’orizzonte ontologico del capitale stesso. Dopo il 1971, il denaro inteso come “riserva di valore” è divenuto una mera convenzione senza fondamenti oggettivi nel legame sociale. La logica conseguenza di questa perdita di valore-sostanza – che con il neoliberismo ha portato all’ideologia della “crescita senza lavoro” (jobless growth) – è la svalutazione strutturale: o tramite inflazione, o come violenta ondata deflattiva innescata da un crollo del mercato.
Questa tendenza è ormai irreversibile. Nessun settore dell’economia può riattivare un ciclo di accumulazione reale e riportarci a qualcosa di anche solo vagamente simile al boom fordista, anch’esso peraltro alimentato da straordinarie iniezioni di credito statale. Quando il fordismo implose, non fu più possibile mobilitare nuovo lavoro di massa, motivo per cui oggi il capitale fittizio-speculativo è il deus ex machina che compensa la perdita permanente di plusvalore totale. Il sogno della crescita infinita sostenuta dal consumo di massa si sta trasformando in incubo. La fase distopica in cui siamo entrati è caratterizzata da produttività senza lavoro produttivo, il che significa, molto semplicemente, che la “società fondata sul lavoro” si sta spegnendo. Molte aziende, ovviamente, continueranno a incamerare ingenti profitti grazie a tecnologie sempre più sofisticate e sfruttamento di forza-lavoro precarizzata; tuttavia, il legame sociale organizzato attorno al lavoro salariato non può che continuare a decomporsi.
Acquisire un senso di prospettiva critica rispetto all’implosione in atto del capitalismo senile richiede, come necessaria precondizione, resistere all’aggressione propagandistica proveniente dall’infosfera. I media mainstream non ci informeranno mai sulle cause di un’economia strutturalmente insolvente, per il semplice motivo che sono un ramo di quel sistema. Al contrario, cercano di convincerci a guardare altrove: pandemie, guerre, pregiudizi culturali, scandali politici, catastrofi naturali, ufo, alieni, cyber attacchi, e così via. Se i media ormai faticano a nascondere un collasso che le popolazioni sperimentano sulla propria pelle, hanno però imparato ad attribuirne la colpa a eventi esogeni. Il Male viene sempre proiettato altrove. In verità, la crisi attuale si presenta come seconda ondata della medesima crisi del 2008, parte di un crollo sistemico così acuto che la sua causa viene ora scientificamente offuscata da manipolazioni emergenziali.
Per comprendere la nostra condizione occorre lo sforzo di pensare contro noi stessi, poiché, di regola, un soggetto che ‘appartiene organicamente a una civiltà non può identificare la natura del male che la mina.’[6] Conformismo e “beata ignoranza” sono infinitamente più contagiosi della forza necessaria a misurarsi con le contraddizioni sistemiche. La maggior parte di noi non si vuole affatto svegliare, preferendo credere che questa crisi sia solo causata da errori, corruzione, o problemi tecnici. La ragione difensiva, tuttavia, avvilisce la vitalità del pensiero, colonizzando la coscienza e promuovendo la nostra adesione inconscia alle categorie obsolete di una civiltà esausta.
Ogni civiltà si immunizza tracciando una linea tra il proprio ordine costituente e il Male. Quest’ultimo deve essere proiettato al di fuori del corpo sociale per conferire al discorso dominante l’illusione di consistenza. Tuttavia, una civiltà globale sull’orlo del default rispetto al proprio valore (l’auto-valorizzazione del valore chiamata capitale) non può più far leva solo su nemici parziali e localizzati: deve piuttosto agitare lo spettro di un Male globale e onnipresente. Ecco perché, dopo aver sostituito la “pandemia”, la guerra in Ucraina è stata sin dall’inizio dipinta come sorta di sineddoche della Terza Guerra Mondiale. La paura del virus è stata sostituita dal orologio dell’Apocalisse. In questo modo, la guerra si trasforma davvero nella continuazione ideale del Covid: uno schermo ideologico che serve innanzitutto a dissimulare la dolorosa realtà quotidiana, dalla recessione all’inflazione strutturale ai licenziamenti di massa. Inoltre, tracciando il confine tra noi (moralmente e culturalmente superiori) e loro (i barbari), la guerra consente sia l’espansione monetaria (finanziando il complesso militare-industriale, così come la “pandemia” aveva finanziato Big Pharma), che quella ideologica. A questo proposito, la tensione geopolitica tra il modello occidentale globalizzato a guida americana e il mondo multipolare in divenire (BRICS+) è da intendersi come effetto del collasso economico in corso, piuttosto che come suo potenziale superamento. La “nuova Guerra Fredda” è già un dato di fatto, se nientemeno che Morgan Stanley ci informa che prepararsi al nuovo ordine multipolare è ora una priorità.
Indipendentemente da dove ci si trovi sulla scacchiera geopolitica, il problema comune a ogni stato capitalista (e sovrintendente aristocrazia transnazionale) sarà come controllare le violente ondate di protesta dovute al crescente immiserimento di massa. Basti sfogliare la recente dichiarazione del G20 di Bali, o l’ultimo programma WEF a Davos, per capire che la principale preoccupazione delle élite è fare in modo che i crescenti livelli di povertà vengano gestiti da “soluzioni globali,” che passano dall’identità digitale per arrivare all’introduzione di valute digitali controllate dall’alto (CBDC). Cooperazione globale è lo slogan ideologico degli ultra-ricchi che, spostandosi su jet privati per concordare misure contro il cambiamento climatico come il tracker per l’impronta carbonica, sanno di dover tenere al guinzaglio popolazioni e società stagnanti. A questo proposito, lo spirito di signoraggio neo-feudale del nostro tempo è ben rappresentato dal “modello lockdown”: da un lato, tendiamo a dimenticare che milioni di esseri umani socialmente esclusi campavano già in condizioni di effettivo lockdown ben prima della pandemia, confinati in baraccopoli suburbane o nelle periferie rurali del mondo, senza accesso a lavoro o beni di prima necessità; dall’altro lato, sappiamo che i lockdown sperimentati in “pandemia” serviranno da prototipo per “proteggerci” dai traumi emergenziali a venire.
È quindi fondamentale rendersi conto che siamo di fronte a un collasso socioeconomico generalizzato, che ormai prende la forma della dissoluzione del contratto sociale – come testimonia il crollo della partecipazione dei cittadini alla pantomima del voto. Chi realmente detiene il potere (l’aristocrazia transnazionale di cui la politica è ancella) continuerà a promuovere conflitti e divisioni di ogni tipo per nascondere l’implosione di sistema e promuovere il cambio di paradigma autoritario. Oggi ogni ostilità, geopolitica o altro che sia, inizia e finisce nel girone infernale del capitalismo di crisi, suffragato dalla macchina della propaganda. La fine del socialismo negli anni ’80 ha sollevato il velo di Maya. Da allora, come direbbe un buddista, “il dualismo è un’illusione”: esiste un solo dogma socioeconomico, e non funziona più. Mantenere in vita il capitalismo dei consumi espandendo il debito verso l’infinito è ormai impossibile, o apertamente autolesionistico. La montagna dei pagherò ha superato ciò che possediamo come garanzia (i nostri beni, la nostra forza-lavoro, la nostra stessa “vita nuda”), mentre il denaro si trasforma in carta straccia. Il Great Reset è il tentativo di rispondere a questa crisi terminale aumentando la stretta sulle nostre vite – mentre intorno a noi cresce un’ansia silenziosa da incombente fine del mondo, forse l’unica emozione che ci può ancora salvare.
[1] George Orwell, 1984 (Milano: Mondadori, 1950), p. 239.
[2] Ivi, p. 201.
[3] Cfr. Pier Paolo Pasolini, Il fascismo degli antifascisti (Milano: Garzanti), 2018.
[4] Cfr. Robert Kurz, Schwarzbuch Kapitalismus. Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft (Francoforte: Eichborn Verlag), e Il capitale mondo. Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema produttore di merce (Milano: Meltemi, 2022).
[5] Cicli di iperinflazione nel mondo globalizzato hanno avuto luogo in Bolivia (1985), Argentina (1989), Perù (1990), Nicaragua (1991), Bosnia (1992), Ucraina (1992), Russia (1992), Moldavia (1992), Armenia (1993), Congo (1993), Jugoslavia (1994), Georgia (1994), Bulgaria (1997), Venezuela (2016), Zimbabwe (2007/09 e 2017), Libano (2020-oggi), ecc.
[6] Emile Cioran, La tentazione di esistere (Milano: Adelphi, 1984), p. 27.