A140 anni dalla morte di Marx non si pretende di leggere con le lenti della “critica della critica critica” un modernissimo protagonismo del pragmatismo tout court nel dare una occhiata alle faccende di casa PD. Tutt’al più si può fare riferimento alla disamina economica, sociale, politica e filosofica del Moro e di Engels per continuare a darsi una qualche ragione del fatto che, anche in un partito che oggi pare riscoprirsi “di sinistra“, le idee dominanti rischiano di essere, Elly Schlein o no, le idee della classe che ha le redini del sistema capitalistico.
Che Bonaccini non abbia vinto le primarie è cosa buona e giusta tanto quanto non le destre potrebbero evitare di vincere le elezioni: e tuttavia governano e anche molto male, quindi molto bene dal loro punto di vista e di interesse legato alla tutela di quello della classe dominante. La differenza tra il PD di ieri e il PD di oggi sta, per ora, nell’affermazione di una linea che guarda al sociale piuttosto che alla sola impresa come motore propulsivo del Paese.
Non è un fatto di poco conto, ma rischia di produrre una rivoluzione involutiva tutta interna ai democratici nel momento in cui Elly Schlein cerca di tenere insieme linea politica ed unità del partito.
Intendiamoci: non che non debba farlo, anzi, è assolutamente pregevole e politicamente utile che si muova in questa direzione. Ma, come ha sintetizzato benissimo Rosy Bindi, lucidissima nella sua disamina su quanto è avvenuto dal 25 settembre in poi in casa PD, la neo-segretaria democratica dovrebbe stare molto attenta a «non sacrificare la linea politica sull’altare dell’unità».
Un’avvisaglia chiarissima di quello che potrebbe avvenire se, persino nella composizione della segreteria nazionale, Schlein inserisse al suo interno esponenti della ormai ex mozione Bonaccini. Gli strepitosi discorsi sull’egualitarismo militante, sull’indistinguibilità necessaria di correnti e sul superamento dei capi delle stesse, sono, a dire il vero, già in parte sconfessati dall’assegnazione della presidenza del partito proprio al Presidente dell’Emilia Romagna.
La compensazione a favore dell’unità, nonostante tutte le rassicurazioni del caso sulla terzietà del ruolo e, quindi, sulla garanzia di una impossibile diarchia dirigenziale, per qualche tempo può essere terreno stabile su cui interpretare l’edificazione di una fase costituente di un nuovo PD teso e proteso alla vigilanza sociale piuttosto che alla tutela dei profitti padronali.
Ma, a ben vedere, uno dei primi punti messi a sottolineatura da Bonaccini nel suo intervento all’assemblea nazionale nella “Nuvola” di Fuksas, è proprio il non discostarsi dal mondo dell’impresa, dal tenerne conto tanto quanto il nuovo corso sociale che Schlein intende inaugurare con la sue segreteria. Il dualismo, quindi, rimane un po’ nei fatti e l’unità organizzativa può sopravvivere così a quella politica.
Non si tratta più soltanto del tenere insieme una pluralità di culture fondatrici, dal cattolicesimo di base e sociale alla socialdemocrazia ex diessina, dando vita ad una idea tutta italiana di social-liberalismo democratico.
Per quanto un po’ tutti dicano di voler tornare alle origini (anche se non si sa bene quali… de La Margherita, dei DS o del PD che li ha assimilati, fusi e confusi in un neo-centrosinistra nebuloso e molto poco empatico con il suo popolo di riferimento…), la linea politica nuova pare comunque sufficientemente chiara nella proposta di una innovazione in tema di diritti sociali, per una riconsiderazione valoriale del mondo del lavoro entro una cornice di governo che miri ad un riformismo che, tuttavia, non avanza nuove critiche al liberismo.
Al capitolo “guerra” vengono riservate da Elly Schlein poche parole, per sostenere l’impegno fino ad ora mantenuto di fedeltà atlantica al conflitto in corso tra i due blocchi imperialisti (tre con la Cina) e affiancare un riferimento alla pace che non può essere indicibile, impronunciabile. Difficile però pensarla conciliabile con l’invio delle armi, con l’appoggio incondizionato alla NATO in un contesto europeo completamente asservito alla Repubblica stellata.
Qui sta uno dei punti che riguarda tutta la cosiddetta “modernità” di una sinistra progressista: la scelta del campo. La pace senza se e senza ma, il riconoscimento del popolo ucraino come vittima tanto di Putin quanto dell’allargamento dell’Alleanza atlantica verso Est con tutti i cinici giochi di guerra che, dal 2014 in avanti, hanno portato la bandiera di Stoltenberg a sventolare proprio ai confini del potere oligarchico che fa da contraltare agli interessi statunitensi.
Guerra e lavoro non sono separabili, così come non sono ambiente e sviluppo. Tutto, alla fine, si tiene in una valutazione complessiva che non è di certo semplice ricondurre ad una sintesi veloce.
Ma, se si fa della questione pacifista una variabile dipendente dagli equilibri tra gli imperialismi, allora è anche comprensibile che si faccia del lavoro una variabile altrettanto dipendente dei rapporti non tra le classi ma tra il capitalismo italiano e quello continentale. Nel perfetto viatico tracciato dai dettami del PNRR, quindi della BCE.
Qui sta il punto della questione sociale del nuovo Partito Democratico dei Elly Schlein: sindacaliste come Camusso e Furlan fanno parte degli organismi dirigenti nazionali, rappresentano in Senato anche quel portato di cultura e di vicinanza effettiva alle sofferenze delle lavoratrici e dei lavoratori, ma loro stesse e il loro partito, quello che senza le primarie estese ai non iscritti avrebbe eletto Bonaccini segretario, almeno per una buona metà protende per una traduzione politica del tutto in chiave interclassista.
Che il lavoro possa essere un contraltare del capitale e che, quindi, oggi e in particolare proprio in questa odiernità rappresenti plasticamente e del tutto evidentemente la contraddizione di un sistema sempre più ineguale, ebbene questo schema di antitesi scientificamente data da ben prima la morte di Marx (perché data proprio da Marx stesso) è al di fuori del progressismo democratico.
Di quale sinistra allora stiamo parlando? Certamente di una riformista e governista che, quindi, non intende superare le contraddizioni esponenziali del liberismo ma, tutt’al più gestirle e provare a mitigarne gli effetti negativi sulla grande schiera del lavoro ipersfruttato. Il vento di netta opposizione sociale, sindacale e partitica (e di movimento) che si respira in Francia, ancora una volta fa fatica ad oltrepassare le Alpi e ad arrivare qui da noi, negli ambienti in cui convivono dettami progressisti e pratiche politiche a tutto vantaggio dell’imprenditoria.
Indubbiamente è meglio una segreteria Schlein di una a guida Bonaccini. Ma, fermandoci a questa riduttiva constatazione di rapporti di forza meramente formali, siamo sempre nel corto circuito del male minore, perché non è soltanto il PD a ripensarsi dentro uno schema compatibilista, tutt’altro che di alternativa tanto alle destre quanto alle vecchie formule di un centrosinistra ampiamente testato come alternanza politico-governativa nella gestione delle garanzie a tutela del padronato confindustriale e della grande finanza.
Anche il sindacato dimostra di voler sacrificare, in un certo qual modo, alla linea dell’unità e della congiuntura di interessi che altrimenti sarebbero in netta contrapposizione, una sorta di rispettabilità dai tratti istituzionali di cui non ha bisogno se intende davvero essere solamente il delegato delle lavoratrici e dei lavoratori e se, quindi, intende mettersi nettamente di traverso rispetto non solo alle politiche di governo delle destre, ma a quello che rappresentano per origine, per ultima declinazione verso un passato che non passa.
E’ davvero difficile pensare che la CGT francese inviterebbe ad un suo congresso nazionale Marine Le Pen.
E qui è bene che il fronte della polemica si fermi, perché la CGIL è una grande organizzazione che merita tutto il rispetto possibile e che, proprio per questo, deve poter essere criticata se preferisce raffrontarsi “istituzionalmente” con la Presidente del Consiglio Meloni e con il centro calendiano piuttosto che guardare a sinistra e magari non trascurare il fatto che, oltre il PD, esistono anche settori politici e sociali che non si fermano ad una alternanza di posizioni ma che si muovo sul piano inclinato dell’alternativa.
Con tutta la buona volontà possibile, la tentazione del confronto con forze che andrebbero escluse da un cosiddetto “campo progressista” è e rimane forte. Più ancora dei rivolgimenti che si determinano con gli esiti delle primarie e che, stabilendo così una concorrenzialità con l’M5S, lasciano tendenzialmente interdetti e dubbiosi su chi possa tra PD e pentastellati oggi rappresentare veramente le istanze del mondo del lavoro.
Chi vorrebbe rappresentarlo, come Unione Popolare, non ha la forze per determinare una connessione tra rapporti di forza sociali e mutamento dei flussi elettorali. Chi potrebbe rappresentarlo tende, invece, ad abbracciare ancora una volta una uniformità che permetta l’accesso al governo del Paese e, al contempo, una migliore distinguibilità da parte del mondo del lavoro di una linea non più così marcatamente antisociale come quella dell’”agenda Draghi“, appoggiata pienamente e rivendicata come tale da Letta fino al principio dell’autunno scorso.
Per questo rimane molto in forse la possibilità di un dialogo a sinistra tra forze dell’alternativa e forze riformiste: manca quella disposizione a stare entro un perimetro che escluda la congiungibilità col centro liberista e che, per l’appunto in questo modo, nel nome dell’unità finisca per annacquare la linea politica, così come uscita dalle primarie democratiche.
La novità che Elly Schlein intende portare avanti sarebbe veramente tale se non avesse timore della frangibilità del Partito davanti ad una linea netta e risoluta che sostenga appieno il lavoro ed escluda di farlo mettendo in sicurezza i privilegi dell’imprenditoria. Non si può guardare al pubblico e al contempo pensare di lasciare indenne le posizioni assunte dal privato.
Si deve scegliere. Ma questa scelta non viene fatta, perché la complessità dell’anomalia tutta italiana del PD si riverbera anche oggi in quello che, molto enfaticamente, viene definito “un nuovo corso” o, ancora più illusoriamente, “una nuova stagione“.
All’epoca ci sembrava già aver dato seguito ad un cedimento moderato l’aver partecipato alla coalizione de “I Progressisti“. Oggi, dopo quasi trent’anni, saremmo ben felici di riavere in Italia una sinistra moderata sulla scorta del PDS e una su quella della Rifondazione Comunista delle origini: due interpretazioni certamente storiche e anche moderne per una visione plurale di un avanzamento dei diritti sociali e civili, unitariamente e nella distinzione delle reciproche posizioni.
Il gioco maggioritario delle alternanze ha fatto terra bruciata della radicalità delle lotte e ha imposto alla politica di essere bipolare in tutto e per tutto, senza condizioni. Il PD del nuovo corso schleiniano dovrebbe anzitutto uscire da questa illogicità antidemocratica, che separa contenuti e contenitori, che esclude invece di includere e che relega la maggior parte dell’elettorato nell’astensionismo sempre più disperato e convinto al tempo stesso.
MARCO SFERINI