Una nuova gallina dalle uova d’oro è rimasta spennata. Si tratta della ormai celeberrima Silicon Valley Bank, fallita pochi giorni fa per una maldestra gestione finanziaria. Vediamo storia, modello di business, buone e cattive notizie collegate a questa vicenda.
Una nuova gallina dalle uova d’oro è rimasta spennata. Si tratta della ormai celeberrima Silicon Valley Bank, fallita pochi giorni fa per una maldestra gestione finanziaria.
Vediamo storia, modello di business, buone e cattive notizie collegate a questa vicenda.
La storia: nata a fine anni ‘80, la SVB è una banca che ha registrato la sua crescita esplosiva negli ultimi tre anni (a fine 2022 i depositi totali ammontavano a circa 200 miliardi, saliti del 233% dai circa 60 di fine 2020), e la cui parabola ha affiancato quella delle start-up, dei fantomatici “unicorni” (società che dopo pochi anni dall’avvio promettono rendimenti 10-20-30 volte il capitale investito) e, per dirla tutta, del mito dei soldi facili che tanto piace a Wall Street. Il Ceo Greg Becker, in questa intervista di due anni fa, la presentava come “l’unica banca globale dell’innovazione”, da cui il richiamo – nel nome – all’area geografica che più l’immaginario di questo ventennio associa alle start-up tecnologiche, appunto la Silicon Valley, situata a sud di San Francisco.
Il modello di business: la SVB aveva molte delle caratteristiche peggiori dell’economia delle start-up che dichiarava di voler finanziare. Viveva di marketing, di aspettative visionarie generate nei clienti, ma poi usava fragili schemi finanziari alla Ponzi (o alla Madoff, se preferite un caso più recente). Raccoglieva a vista o a breve termine soldi da clienti attratti dal mito delle start-up e li investiva in titoli in grado di dare un rendimento adeguato per sé e per i propri depositanti, perché a lungo termine. Un gioco pericoloso per qualunque banca, basato sul disallineamento tra durata media della raccolta e durata media degli investimenti, e che ha potuto funzionare bene negli anni recenti, con i rendimenti dei mercati che viaggiavano col segno più a due cifre, e con tanta liquidità a costo zero o quasi sui conti correnti. Ma quando il mercato ha girato, nel 2022, causa inflazione, fine del quantitative easing, guerra e connessi spettri di recessione, tutta la pericolosità del gioco è emersa e la SVB ha cominciato a dover registrare perdite su quelle parti di attivo collegate al prezzo dei titoli obbligazionari o governativi su cui aveva investito gran parte del proprio portafoglio. Roba da manuale di economia 1…
Le buone notizie: il governo Usa è intervenuto prontamente a garanzia dei depositi, la dimostrazione che la crisi Lehman del 2008 è servita a qualcosa (quindici anni fa l’amministrazione Bush scelse la strada del fallimento della storica banca dei fratelli Lehman, in crisi per lo scoppio della bolla dei subprime, sottovalutando gravemente gli effetti sistemici che da lì si sarebbero innescati). Inoltre, SVB è parecchio più piccola, con un attivo di circa 212 miliardi di dollari, meno del 25 per cento a valori correnti di quanto fosse Lehman (l’attivo di Lehman era 640 miliardi nel 2008, equivalenti a circa 864 miliardi odierni).
Va anche sottolineato che la SVB è andata in crisi perché i propri depositi sono più corporate – di imprese o intermediari che investono in imprese – che retail, di persone. Dunque sono significativamente più grandi della media. Una maggiore frammentazione della raccolta avrebbe reso meno impattante la corsa allo sportello che si è scatenata la scorsa settimana. Questa non è propriamente una buona notizia, ma rende meno minacciosa la possibilità di estensione della crisi al sistema bancario più tipicamente rivolto alle famiglie e alle piccole imprese.
Le cattive notizie: non sono del tutto scongiurati i rischi di crisi sistemica, perché sempre più fitte sono ormai le connessioni globali tra i mercati, e grande è la bolla della finanza – soprattutto di fondi e operatori speculativi – che negli ultimi anni ha alimentato le ipertrofiche valutazioni delle start-up. Il mondo di queste ultime già sta soffrendo: è stato calcolato, ad esempio, che il 34 per cento delle imprese tecnologiche innovative nel Regno Unito, tra quelle investite da fondi di venture capital, ha un deposito presso la SVB e oggi rischia un congelamento o comunque difficoltà nell’accesso alle proprie risorse finanziarie.
Non è tutto. In fondo a questo nuovo crack americano c’è una pessima notizia: il dover constatare che a quindici anni dalla Grande Crisi Finanziaria, appunto scatenatasi con il fallimento Lehman, tutto nella finanza mondiale è cambiato perché nulla cambiasse. Le stesse illusioni ottiche del mercato e dei suoi opinion leader, la medesima avidità e disonestà (almeno professionale) di alcuni manager, l’identica scempiaggine del parco buoi di aspiranti Gordon Gekko, la sconcertante debolezza dei sistemi di supervisione e vigilanza.
E ciò si è ripresentato nonostante siano state nel frattempo scritte migliaia di nuove pagine di regole, imposte decine di nuove funzioni organizzative, affermate sofisticate modalità di automazione nei controlli dei dati e delle procedure a tutte le banche nel mondo, o quasi.
Tra pochi giorni uscirà, edito da Altreconomia, “Money for Nothing”, un volumetto curato insieme a Dario Carrera, frutto dell’omonimo ciclo di incontri svoltisi nel corso del 2022. Costruito per evidenziare come la finanza, dopo tanto parlare, è tornata ad inseguire i soldi per i soldi, senza preoccuparsi affatto di usarli al meglio per l’economia reale, le persone e l’ambiente, è stato pensato soprattutto per alfabetizzare, per spiegare ai non esperti perché occuparsi di finanza sia importante, e motivare a farlo.
Ci è capitato di pensare nelle settimane passate, rileggendo le bozze, che i toni degli interventi siano marcati di un eccessivo pessimismo. Che non è vero che la finanza non ha fatto progressi.
I fatti della SVB ci aprono (nuovamente) gli occhi. E fanno sospettare che il pubblico di “Money for Nothing” non debba essere solo quello dei non addetti ai lavori