La periferia dell’Ue vede i sindacati schiavi del modello concertativo e l’assenza di conflitto e di posizioni radicali in materia di tassazione, welfare e lavoro alimenta la spirale della precarietà e del consenso alle destre.
La crisi economica del 2008, da cui non ci siamo ripresi quanto a potere di acquisto salariale, e la crisi sanitaria e pandemica del 2020\21 hanno determinato cambiamenti forse irreversibili e tendenze strutturali, con l’accentuazione della flessibilizzazione\precarizzazione del lavoro, la riduzione delle partite Iva, i processi innovativi e di cambiamento tecnologico che proseguiranno ancora per anni.
Di questo e di molto altro parla il recente rapporto PLUS dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inap). Vale la pena di leggerlo per aprire una discussione sui cambiamenti avvenuti nella composizione della forza lavoro, premessa indispensabile per ripensare un intervento conflittuale e di classe.
Negli ultimi tempi ci sono stati tentativi istituzionali di ridimensionare la precarietà (il decreto dignità che limitava il ricorso ai contratti a tempo determinato) e la povertà crescente (reddito di cittadinanza); provvedimenti presi subito di mira dalle associazioni datoriali, ma in qualche misura anche dal mondo sindacale, che sono riuscite nel primo caso a vanificarne gli effetti tra deroghe e accordi sindacali a perdere (soprattutto di secondo livello). Nel secondo caso invece è stato sufficiente sostenere elettoralmente la destra (lo sdoganamento della Meloni col beneplacito dei nostri padroni a stelle strisce) che a sua volta, salita al potere, ha cancellato il reddito dal 1 Gennaio 2024.
I tentativi invece di ripristinare aliquote fiscali progressive, come anche una pur timida Legge Patrimoniale, sono risultati vani così come si sono infrante le speranze di ampliare il welfare e investire risorse nella sanità pubblica che nei prossimi tre anni subirà consistenti tagli.
Il potere di contrattazione è in fase decisamente regressiva da oltre un trentennio e i contratti nazionali affermano logiche divisorie e crescenti disparità di trattamento.
Ma torniamo al rapporto sopra menzionato riportando qualche dato
Nel 2021, sempre secondo le stime del rapporto PLUS, le persone tra 18 e 74 anni che hanno dichiarato di avere un’occupazione sono 22 milioni e 360mila. Poco più della metà (il 53%) risiede nelle regioni del Nord e il 42,2% è donna. In considerazione del tasso di occupazione femminile più basso nelle regioni meridionali, anche la quota di occupate in queste regioni è più bassa, e si attesta al 37,6%. Inoltre, circa la metà degli occupati ha tra 30 e 49 anni, il 12% tra 18 e 29 e il restante 38,6% tra 50 e 74 anni.
Una fotografia impietosa di un paese con crescenti disuguaglianze sociali, economiche e geografiche, percentuali di occupazione femminile decisamente basse al cospetto di altri paesi europei, disoccupazione dilagante tra i giovani e l’uscita dal lavoro che, anno dopo anno, viene rimandata a causa delle leggi previdenziali (e siamo solo all’inizio, il peggio deve ancora arrivare quando andremo in pensione a quasi 70 anni con l’assegno da fame calcolato in base al sistema contributivo).
Quanto poi ai titoli di studio, la forza lavoro over 50 è in prevalenza costituita da quanti non sono andati oltre alla scuola d’obbligo e nel migliore dei casi hanno conseguito un diploma al contrario dei giovani che invece vantano titoli universitari anche se la maggiore scolarizzazione non comporta salari migliori, grazie alla moltitudine dei contratti precari. Il numero dei non scolarizzati e specializzati è ancora elevato e il divario di genere vede ancora una volta penalizzate le donne.
Avere titoli di studio universitari è condizione spesso imprescindibile per entrare nel mercato del lavoro ma permangono innumerevoli lavori a bassa specializzazione e salari da fame, contratti part time e precari che per necessità attraggono anche quanti, anche solo pochi anni or sono, avrebbero potuto accedere a occupazioni migliori e dignitosamente retribuite.
Nonostante la crisi delle partite Iva, il microcosmo o nanismo produttivo è ancora dominante. Il 60% degli occupati lavora in una impresa con meno di 15 addetti, soprattutto in alcuni settori quali commercio, turismo, costruzioni e agricoltura. Però nelle piccole aziende non esiste opportunità di accrescere i livelli retributivi e la contrattazione di secondo livello, ove esiste, è solo funzionale ad ottenere l’aumento della quota delle retribuzioni riservata alla produttività e deroghe peggiorative in materia di contratti precari e orari di lavoro.
Flessibilità e atipicità del lavoro la fanno da padrone soprattutto a partire dal decreto Poletti del 2014. Da allora i nuovi posti di lavoro presentano un elevato numero di contratti a tempo e part time. Nonostante l’85% della forza lavoro abbia un lavoro stabile, il 66% con un impiego subordinato a tempo indeterminato, aumenta il numero dei lavoratori poveri che nonostante il posto fisso non arrivano a fine mese. E la precarietà domina tra i giovani riguardando oltre il 40 % dei casi.
Questi, e molti altri elementi, inducono a tre riflessioni
– L’Italia per almeno 30 anni ha intrapreso la strada delle delocalizzazioni produttive e della precarietà occupazionale con marcata perdita del potere di acquisto delle retribuzioni.
– Gli interventi legislativi dei governi di centro sinistra si sono mossi nell’alveo delle compatibilità con i dettami europei ma, così operando, hanno alimentato disuguaglianze sociali, impoverimento del welfare e riduzioni di spesa in ambiti strategici come la sanità.
– La perdita di potere di acquisto salariale e contrattuale ha indebolito il ruolo stesso del sindacato che a sua volta ha praticato la riduzione del danno ergendosi a paladino della previdenza e sanità integrativa.
Prendere atto di questa situazione è condizione essenziale per invertire la tendenza alla precarizzazione. Non è sufficiente il salario minimo o anche la conservazione eventuale del Rdc perché risulterebbero misure, per quanto importanti, riduttive e incapaci di modificare lo stato delle cose presenti.
La presenza della Meloni al congresso della Cgil potrà destare scalpore ma rientra in quella costante ricerca di mediazione del sindacato con i governi che in questi anni ha prodotto soli danni.
La subalternità culturale e politica continua a produrre arretramenti sociali, come si evince dalla mera illusione che riducendo gli orari settimanali, magari con riduzione salariale e in cambio di maggiore produttività, si possa migliorare la condizione di vita e lavorativa dei subordinati.
Le crisi economiche, sanitarie, finanziarie e geopolitiche hanno ripercussioni negative sulla stabilità del lavoro e sul potere di acquisto anche in conseguenza di pratiche sindacali compatibili con i dettami governativi e dell’Unione Europea.
Ecco spiegata allora la ragione per la quale in Italia, di fronte all’innalzamento dell’età pensionabile, non è nato un movimento di opposizione nel paese, al contrario della Francia, paralizzata da settimane di scioperi e di manifestazioni combattive.
La periferia dell’Ue vede i sindacati ancora schiavi del modello concertativo e anche l’assenza di conflitto e di posizioni radicali in materia di tassazione, welfare e lavoro alimenta la spirale della precarietà e del consenso sociale e politico alle destre
https://www.lacittafutura.it/interni/l-inesorabile-crisi-alla-periferia-dell-unione-europea