Capita, nella desolazione della sinistra italiana, nonostante l’illusione ottico-politica della vittoria di Elly Schlein alle scorse primarie del PD, di guardare alla tenacia delle lotte francesi contro la riforma delle pensioni di Macron come ad un vero e proprio faro nella penombra dell’Europa protesa al servaggio atlantico, alla guerra in Ucraina, al sostegno del disegno imperiale americano.
Le cronache dei giornali e i servizi di France 24 lasciano intendere, dalle parole degli intervistati nelle varie parti dell’Esagono, che la misura è davvero colma e che l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni è per davvero la goccia che ha fatto traboccare un vaso ricolmissimo di insoddisfazione, di disagio sociale per l’oggi e soprattutto per il domani.
Studenti, lavoratori, pensionati parlano apertamente di opposizione ad un governo che fa una “politica per i ricchi” e, aggiungono, di voler sostenere attivamente delle lotte che abbiano questo preciso scopo: combattere lo strapotere delle élite finanziarie ed economiche, del grande capitalismo internazionale che si riversa anche in Francia nella sua traduzione iperliberista mediante il macronismo, la “macronie“.
La crisi della politica francese è ormai crisi del sistema politico, dell’impianto della Quinta Repubblica, di tutto un insieme di fattori che oggi non reggono più la prova della piazza, dello scontro con una popolazione che si sente espropriata dei diritti e che non è disposta a farsi scippare il futuro. Se la traduzione di tutto questo è la formazione di un nuovo movimento di massa che va tanto dall’intersindacale quanto alle autorganizzazioni studentesche, non resta che prenderne favorevolmente atto.
La poca considerazione che i francesi riservano non tanto alla rappresentanza politica, ma al modo in cui il potere esecutivo tratta proprio quella rappresentanza, scavalcando l’Assemblea nazionale, pur mostrando tutta la costituzionalità di un atto previsto da un padre della patria come De Gaulle, è una delle cifre su cui si può fare il calcolo della resistenza sociale e antiliberista delle lotte di classe in Francia nel nuovo secolo e nel nuovo millennio.
Non è inappropriato parlare di coscienza di classe se ci si riferisce esattamente a questo sentimento diffuso e comune di costruzione di un fronte sociale contro la prepotenza tanto del Presidente della Repubblica quanto del suo governo.
Non è inopportuno e fuori luogo ritenere che oggi, in Francia, alla testa di queste mobilitazioni di massa si trovi una guida sindacale che si mostra unita e dialogante in ogni settore pubblico e privato del paese: è un segnale di notevole importanza, che può impedire la trasformazione delle proteste in semplici disordini eterodiretti da chi ha interesse a destabilizzare il malcontento popolare, per incanalarlo in una protesta fine a sé stessa, molto più facile da reprimere.
Così come non è secondario che, in seno alle camere francesi, esista una ampia opposizione rappresentativa di larga parte del disagio sociale: la NUPES, nella sua molteplice espressione culturale, politica ed anche ideologica, mette insieme, su un piano di netta critica del liberismo, con un accento marcatamente anticapitalista, quelle che altrimenti sarebbero delle opposizioni di sinistra sparpagliate e inefficaci – proprio come accade in Italia – davanti ad una destra multiforme che rimane un avversario temibile.
Il neogollismo de “Les Républicains” e il post-fascismo del “Rassemblement National” di Marine Le Pen, unitamente al neonazi-onalismo della “Reconquête” di Eric Zemmour, fanno parte di un quadro della destra francese che ha, nel suo insieme, dei punti non secondari di contatto, delle convergenze anticivili di non poco conto, ma che sul sociale tende a differenziarsi: il populismo delle formazioni lepeniste e zemmouriane spesso è disallineato dal centrismo del partito di Aurélien Pradié ed Éric Ciotti.
Lo si è visto nella proposta delle mozioni di sfiducia al governo in questi giorni: mentre i repubblicani si dividono, si spaccano letteralmente a metà sul voto della mozione di sfiducia delle destre, proprio le altre destre fanno fronte comune nel tentativo di preservare il consenso sociale degli strati più poveri, di quelle banlieu in rivolta un po’ da sempre contro una repubblica sempre meno attenta ai bisogni dei più deboli, dei meno garantiti.
A questo scenario, almeno in Italia, si opporrebbe una frammentazione della sinistra (o del centrosinistra) dettata più che altro da una interpretazione nettamente opposta sulle origini della scontentezza popolare, sulle cause vere e proprie della diffusione di un disagio economico (e finanziario) endemico, strutturale, impossibile da recuperare con altre ricette che stabiliscano un compromesso (ma sarebbe meglio parlare apertamente di compromissione) tra capitale e lavoro, tra ricchi e poveri.
Invece in Francia si parla apertamente di lotta ad una ricchezza di pochi che viene fatta nel nome dell’immiserimento di molti: dai giovani ricercatori universitari che occupano la Sorbonne perché, a ventotto anni, con una esperienza di studi messa a frutto con grandi sacrifici, sono precarissimi e non hanno alcuna speranza di vedere il loro bagaglio di cultura investito sia nella personale soddisfazione di potersi creare una vita autonoma e indipendente, sia di poter essere utili alla nazione in un settore, magari, pubblico.
Il liberismo sostenuto da Macron ha, come del resto negli altri paesi in cui è stato declinato con tutta la tenacia propria dei governi che sono i comitati di affari della moderna imprenditoria e dei blocchi finanziari che le si affiancano, tentato la via della separazione sociale, dell’atomizzazione nel mondo del lavoro, della divaricazione tra corpi intermedi, maestranze, studenti e pensionati.
Un’operazione che non è riuscita anche grazie ad una sinistra che si è saputa unire su una piattaforma politica netta, non interpretabile, chiaramente opposta alle destre e altrettanto in risoluta alternativa al potere macroniano. Se questa sia o meno l’alba della fine della Quinta Repubblica francese è presto per poterlo dire.
Di sicuro vi sono tutte le premesse per collegare la fine dei grandi partiti di massa che l’avevano sorretta (gollisti e socialisti) con una rinascita di una consapevolezza sociale che si era appannata nella trasversalità opaca delle sommosse di massa dei gilet gialli: l’autoreferenzialità di quel movimento, privo di una vera guida politica e sindacale, ne aveva fatto un ventre molle per la penetrazione della più becera propaganda di destra, del populismo nazionalista xenofobo e omofobo.
Oggi, invece, la lotta acquista tutto un altro sapore: la primavera francese si preannuncia come il risveglio di una consapevolezza singola e di massa, in grado, almeno a quanto è dato vedere, sentire e leggere, di marginalizzare quel populismo, di dare all’opposizione un chiaro profilo classista, contro il governo, contro i suoi sostenitori economici, contro i suoi sostenitori d’oltreoceano.
Il tema della guerra e del riarmo non è poi da mettere in secondo piano rispetto alla controriforma sull’età pensionabile. Il movimento dei lavoratori, degli studenti e dei pensionati sa che gli interessi legati al riarmo, al finanziamento dell’invio di armi e munizioni all’Ucraina risponde non tanto al dettato propagandistico della preservazione della così improbabile democrazia di Kiev, quanto al rafforzamento della sfera della NATO in Europa e al consolidamento degli interessi americani in questa stessa sfera di influenza.
L’Europa che i francesi sentono sempre meno vicina è proprio quella stessa che anche noi vediamo da lontano se si parla di diritti sociali, che ci ritroviamo invece molto vicina se si tratta di PNRR e di prestiti più o meno vincolati ai rigidi pareggi di bilancio qua e là sparsi negli accordi con Bruxelles, mentre la BCE alza i tassi di interesse per fare fronte alla crisi dei ricchissimi.
La disomogeneità delle politiche interne dei vari Stati europei è una delle cause della mancanza di un coordinamento delle lotte, di una unità delle piattaforme, di una proposta continentale alternativa al liberismo e all’imperialismo di una UE. Ma è pure vero che l’assenza di una sinistra di alternativa eguagliabile a quella francese non fa, per quanto riguarda almeno l’Italia, un favore alla presa in considerazione di un avanzamento comune delle lotte, di un attacco simultaneo alle centrali del capitale in Europa.
L’insufficienza di oggi, la marginalità in cui ci troviamo non è un alibi per rinunciare a crescere, per metterci nella riserva mentre forze apparentemente progressiste, ma sostanzialmente liberal-liberiste, creano una nuova atmosfera di cambiamento sociale su prospettive di compatibilità con un centro che viene chiamato in causa nel nome della grande unità contro le destre attualmente al governo.
La vera alternativa non è la riproposizione del vecchio schema dell’alternanza. La vera alternativa, per essere tale, deve rompere questa gabbia, deve superare questo schema, deve ritrovare il socialismo riformista e l’anticapitalismo comunista quanto meno dialoganti per offrire all’Italia, ed anche all’Europa, una possibilità in più di non scivolare verso l’unità tra liberismo e nazionalismo.
Esattamente quello che oggi ci apprestiamo a vivere e rivivere (dopo averlo visto nei primi cinquant’anni del secolo scorso) con un governo che, come quello di Macron, sta già facendo disastri sociali e civili.
MARCO SFERINI