Raid aerei statunitensi nella Siria orientale, in risposta ad attacchi con droni, attribuito dall’intelligence Usa alle forze iraniane, che hanno ucciso un contractor americano e ferito 6 persone. Mentre è salito ad 11 il numero di miliziani filo-iraniani uccisi, segnala l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Il punto di Piero Orteca per Remocontro*
Aree di crisi, non solo Ucraina: bombardamento Usa in Siria
Le tessere del mosaico geopolitico planetario traballano, scosse dagli eventi che hanno come epicentro l’Ucraina. Così, aree di crisi ‘quiescenti’ si risvegliano improvvisamente, a causa di un effetto-domino che scarica su tutti gli scacchieri le tensioni diplomatiche accumulatesi. Due giorni fa è toccato alla Siria, altro campo neutro dove le grandi potenze giocano la loro partita, tornare in primo piano. Tirandosi appresso, anche l’Iran.
Il Pentagono ha comunicato che aerei americani hanno effettuato ‘strike’ mirati nel nord-est siriano, colpendo postazioni di milizie sciite sostenute da Teheran. Risposta a un attacco con l’utilizzo di droni di fabbricazione iraniana, giovedì, contro una infrastruttura militare Usa, nei pressi della cittadina di Hakara. Ucciso un ‘contractor’ e colpiti dal drone iraniano anche cinque uomini delI’Intelligence americana, che lavoravano nella base. La rappresaglia è scattata dopo poche ore e, quasi a sottolinearne l’importanza simbolica e il suo valore di monito, è stata annunciata dallo stesso Segretario alla Difesa Usa in persona.
Gli Usa riscoprono a modo loro la Siria
Il generale Lloyd Austin ha dichiarato che “le forze statunitensi hanno effettuato attacchi aerei di precisione nella Siria orientale, contro strutture utilizzate da gruppi affiliati al Corpo delle guardie islamiche rivoluzionarie iraniane (IRGC). Le incursioni sono state condotte in risposta all’attacco subito oggi, così come a una serie di recenti attacchi effettuati contro la coalizione, in Siria, sempre dagli stessi elementi dell’IRGC”. Fonti del Pentagono, quasi a giustificare la reazione immediata dell’Amministrazione Biden, hanno ricordato alla stampa che, a partire dal gennaio 2021, le forze americane hanno subito un totale di 78 attacchi di marca filo-iraniana in Siria.
Dopo la sostanziale de-escalation della guerra civile nella regione, gli Stati Uniti mantengono sul campo una forza di 900 soldati, impegnati, in prima battuta, a impedire la rinascita dello Stato Islamico. Le truppe sono divise in due grossi nuclei: uno a nord-est e l’altro ad al-Tanf, quasi al confine con Irak e Giordania. Ma, al di là delle schermaglie, cosa bolle veramente in pentola?
Secondo gli analisti, Cina e Russia, attraverso l’Iran, stanno mettendo nuova pressione alla Casa Bianca, sullo scacchiere mediorientale e su quello del Golfo Persico. Sanno che Biden è in difficoltà a tenere alta la guardia in tutte le aree di crisi, dell’Ucraina fino al Mar cinese meridionale. La sua politica di disimpegno dall’Afghanistan e dall’Irak è stata disastrosa. Lo vogliono forzare a ritirarsi del tutto anche dalla Siria, lasciando campo libero a Teheran, ai russi e al turco Erdogan, nell’area settentrionale. Sanno che qualsiasi aumento della tensione, con tante ferite già aperte, non sarebbe ben accolto dall’opinione pubblica americana, a pochi mesi dalla data di inizio della campagna elettorale per le Presidenziali del 2024.
‘Moderatamente arrabbiati’
Basta guardare alla cautela con cui il Pentagono ha “coperto” la sua risposta militare. “Gli attacchi aerei di giovedì – è stato affermato – erano azioni proporzionate intese a difendere le truppe statunitensi, limitando al contempo il rischio di escalation e riducendo al minimo le vittime”. D’altro canto, alla Casa Bianca esistono varie scuole strategiche, che molto spesso si sovrappongono, partorendo una politica estera zigzagante.
Nel caso dell’Iran, c’è stata una colpevole sottovalutazione del suo ruolo di potenza regionale. Proprio ieri, il generale Erik Kurilla, capo del Comando centrale per il Medio Oriente, parlando davanti alla speciale Commissione del Congresso, ha detto che “l’Iran di oggi è esponenzialmente più capace, in senso militare, di quanto non fosse anche solo cinque anni fa”. E ha pure, aggiungiamo noi, il più grande arsenale di missili e di droni di tutta la regione.
L’atomica iraniana
Che i nodi stiano venendo al pettine è suffragato da un’altra notizia, di un paio di giorni fa. Il generale Mark Milley, presidente dello Stato Maggiore congiunto Usa, davanti alla Sottocommissione degli stanziamenti per la Difesa del Congresso, ha lanciato l’allarme: l’Iran potrebbe avere l’atomica in tempi brevi. Da quando decide di arricchire materiale fissile, in sole due settimane sarebbe in grado di raccogliere l’uranio per fare la “bomba”.
Dal punto di vista tecnico, poi, assemblare l’ordigno e metterlo in condizione di esplodere sarebbe questione solo di qualche mese, forse sei. Il tempo stringe, insomma. E il generale Milley, tanto per non farci mancare niente, in questi, che sono tempi di Armageddon, ha completato la sua esposizione con una cruda minaccia: gli Stati Uniti non permetteranno mai all’Iran di costruirsi la bomba atomica. Come? Indovinate.
A chiarire il non tanto arcano epilogo, dell’apocalittica vicenda, è stato uno dei portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, minacciosamente chiaro. ‘Biden ama la diplomazia (ce ne siamo accorti…), ma se proprio dovesse essere necessario, conosce anche altri mezzi (beh, sappiamo anche questo)’.
* Ripreso da Remocontro