- Geraldina Colotti
Prima di essere nominato ministro degli Esteri, Yván Gil ha ricoperto alti incarichi nei punti più sensibili della rivoluzione bolivariana, dal settore alimentare a quello della diplomazia. Dal 2017 al 2022, come viceministro per l’Europa e come ambasciatore plenipotenziario del Venezuela all’Unione europea, ha rappresentato il suo paese nei momenti di massimo assedio da parte dei governi occidentali. Non ha, però, mai perso la nota principale del suo stile: la gentilezza e l’informalità, consapevole che, qualunque incarico, si esercita per conto del potere popolare. Ci riceve nel suo studio a Caracas, togliendo tempo alla preparazione del suo prossimo viaggio internazionale.
Come si sente in questa nuova veste, lei che viene dai movimenti popolari?
Cominci con la domanda più difficile. Sento una grande responsabilità. Il presidente Maduro non è solo un grande leader regionale, un leader importante e un referente per la sinistra, per i movimenti sociali a livello mondiale, ma è stato a lungo ministro degli Esteri di Chávez, conosce meglio di chiunque altro la complessità di questo ruolo. Servire la rivoluzione bolivariana e il suo massimo rappresentante in questa fase complicata, a livello nazionale e internazionale, non è facile, ma è un onore e uno stimolo. Abbiamo davanti un percorso tracciato, una politica estera ben delineata dal gigante del Latinoamerica e continuata dal presidente Nicolas Maduro, sia nell’ambito della diplomazia dal basso, partecipata e protagonista, che in quello della diplomazia di pace, che caratterizza la nostra politica estera.
Qual è il suo piano di lavoro?
Quello della rivoluzione: andare all’offensiva sul piano economico, politico, diplomatico, e consolidare il processo bolivariano. Veniamo da anni di resistenza agli attacchi dell’imperialismo, portati avanti dall’estrema destra, che ha attentato alle infrastrutture, alle istituzioni, alla finanza pubblica: per far cadere il governo e imprimere alla rivoluzione una svolta revisionista. Non ci sono riusciti grazie alla forza e alla coscienza del nostro popolo. Quest’anno, la vittoria ottenuta nelle piazze e nella battaglia delle idee, deve però portare a una vittoria economica, sociale, alla prosperità. Già l’anno scorso vi sono stati segnali incoraggianti, annunciati da una crescita del Pil del 15 per cento, che non si vedeva da anni per gli effetti delle misure coercitive unilaterali illegali. Ora si registra un’importante ripresa economica, maggiori investimenti petroliferi, nel settore alimentare e industriale. Fattori che, grazie alla politica economica del governo Maduro, stanno consolidando la crescita nazionale. Questo, rispetto all’interno. Quanto alla politica estera, continuiamo la battaglia per l’unità latinoamericana e caraibica, sostenuta dal ritorno di nuovi governi progressisti nella regione, da quello di Lula in Brasile, a quello di Petro in Colombia, che promettono passi in avanti alle rivendicazioni dei popoli. Senza addentrarci nelle differenze ideologiche, definite dalla volontà popolare in base alla composizione di classe dei singoli paesi, registriamo un quadro favorevole al consolidamento dell’unione latinoamericana e caraibica, che per noi è un compito fondamentale. Lavoriamo, inoltre, a rafforzare le relazioni con i paesi dei Brics, con l’Iran, con il resto dei paesi con i quali abbiamo costruito un’alleanza alternativa al cosiddetto mondo occidentale, degli Stati uniti e dell’Unione europea. Nei confronti dei “paesi occidentali”, manteniamo aperte le porte del dialogo, come sempre ha fatto il presidente Maduro, ma esigiamo il rispetto e il riconoscimento della volontà del popolo venezuelano.
Il progetto dell’autoproclamato e del suo inesistente “governo a interim” è fallito. Gli Stati uniti e i loro alleati hanno dovuto ammetterlo, tuttavia continuano a mantenere la porta aperta a una riedizione del medesimo schema. A che punto stanno le cose sul piano diplomatico?
Il progetto dell’opposizione più estremista, che ha firmato un patto per consegnare il paese all’impero nordamericano, era destinato al fallimento. Lo abbiamo detto fin dal primo giorno che l’estrema destra ha deciso di mettersi fuori dalla costituzione. Oggi, il disprezzo del popolo e anche di quella parte della “comunità internazionale” che aveva dato sostegno al piano golpista, rivolto contro il potere popolare fatto governo, è sempre più evidente. Rimane solo l’ottusità degli Stati uniti e di alcuni governi europei: anche se, oggi, nessun diplomatico si sogna più di mettere in questione la legittimità del presidente Maduro. Gli ambasciatori di paesi come il Portogallo e la Spagna, che a suo tempo riconobbero l’inesistente “governo” autoproclamato, hanno presentato le proprie credenziali al nostro presidente. Abbiamo pazientemente lavorato alla difesa della nostra sovranità nazionale e al ripristino delle normali relazioni diplomatiche. Abbiamo teso la mano ai governi europei e latinoamericani caduti nella trappola dell’inesistente “governo a interim”, e oggi gli Stati uniti si trovano in una posizione scomoda. Tuttavia, come recita un vecchio detto popolare, dal ridicolo non c’è ritorno. Il governo bolivariano continua a perseguire il proprio progetto geopolitico, consolidando le relazioni con l’Africa, con l’Asia, con il Medioriente e, in America Latina, soprattutto con i paesi dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America.
Che risultati ha prodotto la stretta di mano tra il presidente Maduro e il suo omologo francese Macron durante la Cop27?
Il dialogo prosegue, soprattutto grazie alla perseveranza del presidente Maduro, che non lascia nulla di intentato. Come si è visto, il presidente dell’Assemblea Nazionale, Jorge Rodriguez si è recato in Francia, subito dopo. Tuttavia, abbiamo detto a chiare lettere che si potrà avanzare nel dialogo solo quando verranno cancellate le “sanzioni”. Non si può dialogare con una pistola puntata alla tempia.
Sul tavolo della trattativa c’è la liberazione del diplomatico venezuelano Alex Saab, sequestrato dagli Stati uniti. Nel frattempo, le sue condizioni di salute si sono aggravate. Cosa si può fare per evitare che muoia in carcere?
Tutto il possibile. E stiamo facendo tutto il possibile. La battaglia per la liberazione del nostro diplomatico è una battaglia per la difesa del diritto internazionale. Stiamo lottando contro l’impero nordamericano, il più poderoso e arrogante, ma siamo convinti che trionferà la giustizia e si imporrà la verità.
Eppure, con il pretesto dei “diritti umani”, si continua ad attaccare il Venezuela e a perseguire il presidente nell’ambito di certe istituzioni internazionali. Come risponde il Venezuela?
Il nemico ha molte risorse, che spende anche per condizionare alcuni organismi multilaterali. Abbiamo respinto con forza il recente rapporto sui “diritti umani”, emesso dal Dipartimento di Stato Usa. Gli Stati uniti, artefici di guerre criminali e dell’aggressione permanente contro i diritti del popolo venezuelano, non hanno firmato o ratificato importanti convenzioni internazionali come lo Statuto di Roma, la Convenzione contro la Tortura o quella contro le Discriminazioni di genere, o la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. Eppure si permettono di sindacare sui “diritti umani”. Ma non potranno farcela contro la forza del popolo.
Dalle istituzioni internazionali, arriva anche un altro attacco alla rivoluzione bolivariana: si accusa il governo di violare i diritti dei lavoratori, e a farlo sono addirittura le organizzazioni padronali. È così?
I lavoratori e le lavoratrici, in Venezuela, hanno una forte coscienza di classe. Sanno che questa è una rivoluzione operaia, con un governo operaio che li difende. Per quanto Fedecamara o altre associazioni padronali cerchino di mimetizzarsi, come sempre fanno, i lavoratori sanno che un capitalista è un capitalista, il cui obiettivo è quello di accumulare capitale sfruttando il lavoratore. Il principale nemico è il padrone. Tuttavia, oggi, in Venezuela, la principale minaccia è l’imperialismo, che ha stretto un patto con la lumpenborghesia locale, priva di concetto di patria, a cui non importa il territorio, ma solo di far soldi a qualunque prezzo e a qualunque condizione. Per imporre il bloqueo, l’imperialismo ha sacrificato anche i suoi alleati di classe, e ora si evidenzia una contraddizione interessante con alcuni industriali venezuelani che sono stati colpiti nei propri interessi.
Dall’Europa all’America Latina, assistiamo al ritorno di un nuovo fascismo. Qual è la sua analisi?
Il presidente Maduro lo ha detto durante il messaggio annuale alla nazione: il neofascismo è una delle minacce più grandi, che prende piede nella crisi strutturale del modello capitalista. Ma occorre mettere a fuoco un punto. Da 25 anni, la rivoluzione bolivariana è al centro degli attacchi dell’imperialismo, che cerca di distruggere questo “cattivo esempio”, come ha cercato di fare con la rivoluzione cubana. Ha impiegato tutti i mezzi possibili per distruggere lo stato, per invaderlo, per imporre il cosiddetto caos controllato, per distruggere l’economia, l’identità, ha tentato di uccidere il presidente con droni esplosivi… Agendo sulla piccola borghesia, l’imperialismo ha anche seminato il veleno del fascismo in tutta l’America Latina, come strumento per distruggere governi progressisti. In Venezuela non ha funzionato, ma da lì si è creata una matrice. Il dilagare del neofascismo in America Latina chiama in causa la classe politica del mondo occidentale e la dismissione della sinistra in Europa. Per distruggere la rivoluzione bolivariana e il suo “cattivo esempio”, che dimostra l’esistenza di un’alternativa al capitalismo, si è lasciato campo libero al fascismo e alla confusione di simboli, che ora sta dilagando in Europa, come vediamo con la difesa dei nazisti in Ucraina, esaltati come “partigiani”. Per appropriarsi delle risorse naturali, l’imperialismo, con le sue corporazioni finanziarie, ricorre a tutto. Occorre costruire un grande fronte antifascista internazionale, farsi carico di una poderosa battaglia delle idee per imporre l’egemonia della classe operaia.
Cosa cambia per il Venezuela con il conflitto in Ucraina? Come vede lo scenario internazionale, dentro e fuori dal continente?
Il conflitto in Ucraina è una pessima notizia per la sicurezza del mondo, non solo per l’Europa. Il presidente Maduro è stato chiaro nell’invitare le potenze occidentali a usare le armi della diplomazia e non quelle per uccidere, che si continuano a fornire al governo ucraino. Noi perseguiamo la diplomazia di pace come unico strumento per risolvere i conflitti. Devono darsi garanzie per tutti, non si può anteporre la sicurezza di uno stato a scapito di un altro, come si sta facendo con la Russia per mezzo della Nato. Vediamo, però, che sempre più voci, contrarie alla politica guerrafondaia degli Stati uniti e dei loro alleati, si levano per esigere una soluzione negoziata, che speriamo arrivi presto, come ha chiesto il presidente messicano Lopez Obrador. Il mondo oggi è minacciato da vari conflitti bellici, con solo da quello in Ucraina: conflitti e disastri ambientali, violazione dei diritti del lavoro, dei diritti della donna, di quelli dell’infanzia, del diritto alla mobilità. E tutto ha un’origine: l’imperialismo, una vera disgrazia per l’umanità, la cui crisi sistemica non sappiamo dove potrà portare se non diamo forza a un nuovo ordine mondiale che sta nascendo, in sostituzione di quello nato dopo la caduta del nazi-fascismo. L’imperialismo è come una barca che affonda, e questo apre la possibilità di nuovi scenari. Con umiltà, ma con decisione, il Venezuela presenta al mondo il suo modello di società: il modello dell’Alba, basato sull’integrazione solidale e complementare. Non sarà facile, perché stiamo lottando contro un potere consolidato, con una capacità militare e finanziaria molto elevata, ma è una battaglia da compiere, che si può vincere se la classe operaia occidentale ritrova forza e unità, appoggiando una nuova prospettiva. Contro la nuova Dottrina Monroe, a 200 anni dalla sua nascita, dobbiamo lottare uniti per eliminare le frontiere e costruire la vera integrazione latinoamericana: nello spirito del congresso Anfictiónico di Panama, la grande idea unificatrice delle Americhe che, nel 2026, compirà 200 anni.