L’attacco alla sanità pubblica prosegue tramite privatizzazioni e autonomia differenziata. Ma se non ci sarà più un SSN, non ci sarà più salute per tutti, le differenze economiche e i determinanti sociali decideranno non solo la possibilità di curarsi, ma anche le nostre differenti aspettative di vita.
di Vittorio Agnoletto* – Centro per la Riforma dello Stato
Tra due anni, secondo quanto previsto dal precedente Governo Draghi, la spesa sanitaria pubblica scenderà sotto il 6,1% del PIL, la soglia minima indicata dall’OMS affinché uno Stato, in relazione alle proprie potenzialità economiche, garantisca un’assistenza sanitaria decente ai propri cittadini.
Lo scorso anno abbiamo pagato 36 miliardi di euro di tasca nostra per spese sanitarie, mentre una percentuale tra il 7 e l’11% di chi vive in Italia ha rinunciato a curare almeno una delle patologie dalle quali era affetto. Negli ultimi 20 anni oltre 180.000 operatori sanitari, medici e infermieri ai quali la nostra comunità nazionale ha pagato gli studi, è andata a lavorare all’estero alla ricerca di migliori condizioni di vita.
Tra i medici che restano in Italia è da tempo aperta la corsa al prepensionamento e verso il privato, ad es. come “medico a gettone”, mentre gli stipendi del SSN sono al 16° posto tra i Paesi UE.
La distruzione del SSN non è un rischio, ma una realtà concreta in tutta Italia, dalla Calabria, dove un efficace SSN non è mai realmente esistito, alla Lombardia, dove quello che un tempo era una sanità pubblica funzionante è stata trasformata in un tappetino al servizio dei grandi gruppi privati – S. Donato, Multimedica, Humanitas, solo per citarne alcuni – che si comportano ormai come padroni della nostra salute. Le liste d’attesa infinite, le costosissime rette nelle RSA, sono solo le conseguenze più evidenti di tali processi.
La Costituzione e la nostra salute
L’autonomia differenziata è la risposta esattamente opposta alle necessità evidenziatisi con la pandemia, quando ventuno sistemi regionali differenti non sono riusciti a elaborare una risposta complessiva all’avanzata del Coronavirus. La Lombardia, la cui giunta regionale si vanta di disporre di uno dei servizi sanitari migliori d’Europa, se fosse una nazione indipendente, come auspicato da Bossi, sarebbe al sesto posto per numero di decessi da Covid in relazione alla popolazione. Un fallimento totale, di una medicina privatizzata, impostata solo sulla cura, che ha ridotto ai minimi termini la prevenzione e distrutto la medicina di territoriale e i servizi di prossimità.
Da Reggio Calabria a Sondrio la possibilità di curarsi dipende sempre più dalla disponibilità del portafoglio del singolo cittadino; è cancellato l’art. 32 della Costituzione, ma anche l’art. 3 che attribuisce alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il concreto godimento dei diritti sanciti nella Costituzione medesima.
L’autonomia differenziata sarà la sentenza finale sul nostro SSN: le regioni del sud avranno una sanità sempre più fragile e i loro cittadini diventeranno “clienti” della sanità delle regioni del centro-nord, a loro volta sempre più nelle mani dei grandi gruppi privati e delle assicurazioni private. Con l’aggravante che se dovessimo fronteggiare nei prossimi anni un’altra pandemia, ipotesi tutt’altro che peregrina, non saremmo minimamente attrezzati a tale scopo e rischieremmo di pagare un prezzo estremamente alto.
Questo è il campanello d’allarme che come Medicina Democratica, insieme ad oltre sessanta associazioni, comitati, organizzazioni sindacali, abbiamo lanciato il 1° aprile da piazza Duomo a Milano; non solo un allarme, ma anche una proposta complessiva e articolata di quello che si deve fare da subito.
Una proposta per una sanità possibile, oggi
Ne riassumo qui alcuni tra i punti principali.
- Innanzitutto, aumentare immediatamente il finanziamento complessivo del SSN, servono almeno altri venti miliardi. Distribuire i fondi privilegiando la medicina territoriale, la prevenzione, la diagnosi precoce e i servizi di prossimità.
- La ripartizione del Fondo Sanitario deve essere destinata prioritariamente ai servizi pubblici, i contratti con gli erogatori privati devono essere vincolati a risultati da verificare annualmente rispetto agli obiettivi e dovranno essere sospesi, e gli accreditamenti revocati per inadempienze, fatturazioni improprie e reati accertati dalla magistratura.
- Rivedere i criteri attraverso i quali si realizza l’accreditamento alle strutture private che deve essere rilasciato in relazione al fabbisogno di assistenza definito dalla programmazione socio-sanitaria e in base alla presenza di strutture pubbliche e alla loro capacità o meno di rispondere alle necessità evidenziate.
- Vanno stabilizzati tutti i precari: medici, infermieri ecc. a oggi operanti nelle strutture sanitarie pubbliche; deve essere contrastata la pratica del “medico a gettone” ponendo nell’immediato dei forti limiti alla presenza di queste figure nelle strutture del SSN e in quelle accreditate, con l’obiettivo di una cancellazione definitiva di tale figura entro il 31 dicembre 2023. Contestualmente va contrastato l’abbandono del SSN da parte dei medici e degli infermieri, anche intervenendo con un significativo adeguamento degli stipendi, sugli orari e sull’organizzazione del lavoro.
- In ogni Regione deve essere istituito un unico Centro di Prenotazione dove devono confluire tutte le agende anche delle strutture private accreditate. Le disponibilità devono essere visibili online e i tempi di erogazione delle prestazioni, stabiliti a livello regionale e nazionale, devono essere rispettati in base alla priorità indicata dal medico e questo deve essere uno degli obiettivi sui quali valutare i direttori generali e i responsabili unici delle liste d’attesa. Nelle strutture private accreditate devono essere garantiti tempi simili di erogazione a chi afferisce tramite il Servizio Sanitario Nazionale e a chi invece arriva come soggetto pagante. Nelle strutture pubbliche va stabilito che se i tempi d’attesa superano, in modo significativo, quelli previsti per legge viene interrotta l’attività intramoenia fino a quando i tempi non verranno rispettati. Nelle strutture private accreditate il personale addetto a rispondere alle richieste che giungono attraverso il SSN non può in alcun modo proporre prestazioni private.
- Vanno istituiti in tutto il territorio nazionale i distretti che, tra l’altro, devono: avere un Dipartimento di Prevenzione; garantire tutti i servizi necessari a realizzare l’integrazione socio-sanitaria; istituire ambiti stabili di confronto con i comuni del proprio territorio e con le realtà associative e le organizzazioni degli utenti. In ogni Distretto devono essere presenti delle Case di Comunità, le quali devono avere una gestione pubblica, rappresentando, in prospettiva, il luogo di primo contatto tra i cittadini e il Servizio Sanitario. Le Case di Comunità non devono poter essere appaltate in gestione al privato.
- Deve essere nell’immediato favorita l’aggregazione tra Medici di Medicina Generale (MMG), utilizzando e incrementando i fondi già destinati a questo scopo, aumentando i giorni e gli orari di apertura degli ambulatori. In prospettiva, iniziando dai MMG di nuova formazione, deve essere rivista la loro collocazione verso il SSN attraverso un rapporto maggiormente definito, garantito da un giusto riconoscimento economico.
- Va programmata la progressiva cancellazione dell’esternalizzazione dei servizi del SSN e nel frattempo va potenziata l’attività di controllo, in particolare verso le cooperative che devono rispettare il numero di operatori previsti, le loro qualifiche e gli orari di lavoro, compresi i periodi di riposo secondo quanto previsto dalle regole comunitarie.
- Va, nell’immediato, verificato il rispetto dei parametri di legge e di quanto previsto dai contratti per il personale delle RSA che sono gestite, circa nel 90% dei casi, da soggetti privati. È urgente un’indagine sulle rette d’accesso alla RSA e sulla distribuzione della spesa, che spesso, in contrasto con quanto previsto dalla legislazione, ricade totalmente sulle famiglie. In prospettiva va profondamente modificato il sistema di assistenza alle persone anziane e/o non autosufficienti, sottraendoli al monopolio privato e puntando a un’integrazione socio-assistenziale con il territorio, riconducendo gli interventi all’interno del Servizio Sanitario regionale al contrario di quanto previsto dal disegno di legge sugli anziani fragili recentemente approvato.
- In nessun modo le istituzioni pubbliche devono favorire forme assicurative private in ambito sanitario e deve essere cancellata le loro defiscalizzazione.
L’importanza dei determinanti sociali
Oggi sappiamo bene che la tutela della salute necessita di un Servizio Sanitario Nazionale ad accesso universale ma non si esaurisce in questo obiettivo. La nostra salute è il risultato di molte altre scelte che riguardano il futuro della nostra società: dal sistema produttivo, al tipo e alla quantità di energia prodotta e utilizzata, dal sistema dei trasporti, alla filiera agroalimentare, solo per fare alcuni esempi.
Ne consegue che il SSN non può essere più pensato come un sistema chiuso e autosufficiente, ma deve essere inserito in una ampia rete di relazioni con le istituzioni e i luoghi ove si compiono le scelte in grado di determinare il nostro futuro.
In questo contesto può essere utile ricordare che il prof. Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerca Mario Negri, spesso ripete che il 50% delle attuali forme tumorali sarebbero state evitabili con diversi interventi di prevenzione relativi alla vita quotidiana e alle scelte produttive e ambientali.
Non abbiamo molto tempo. Dobbiamo costruire una forte mobilitazione nazionale, seguendo l’esempio di quanto sta avvenendo in Spagna con Marea Blanca, in Francia e nel Regno Unito per difendere, rilanciare e rinnovare il SSN.
Un detto popolare dice “Se c’è la salute c’è tutto” oggi potremmo dire “Se non ci sarà più un Servizio Sanitario Nazionale, non ci sarà più salute per tutti”, le differenze economiche e i determinanti sociali decideranno non solo la possibilità di curarsi, ma anche le nostre differente aspettative di vita.
Una ricerca, condotta da dei medici inglesi nei primi anni di questo millennio, documentò come a Glasgow, l’aspettativa di vita tra due quartieri, uno ricco e uno povero, della stessa città, collocati a circa 10 km di distanza, variava di oltre vent’anni.
Forse siamo ancora in tempo ad evitare di precipitare in una situazione simile. Ma dobbiamo reagire. Insieme.
*Vittorio Agnoletto, medico, insegna “Globalizzazione e Politiche della Salute” all’Università degli Studi di Milano, e fa parte del direttivo nazionale di Medicina Democratica