Il nuovo conflitto interno che si sta sviluppando in Sudan rappresenta la continuazione della travagliata storia del Paese, che già nel 2011 ha subito la scissione del Sudan del Sud.
Il Sudan, come altri Paesi africani, non è altro che una creazione dei colonizzatori occidentali, in questo caso gli inglesi, che nelle loro suddivisioni non hanno tenuto conto dei criteri riguardanti le popolazioni che abitavano quei territori. Infatti, il Sudan era un nome utilizzato per indicare i possedimenti britannici a sud dell’Egitto; del resto, lo stesso nome Sudan deriva dall’espressione araba Bilād al-Sūdān, ossia “Paese degli uomini neri”, per distinguere quelle popolazioni dagli egiziani, di carnagione più chiara, ma non ci dice nulla sulle differenze etniche, linguistiche e religiose esistenti all’interno di quegli “uomini neri”.
Questa situazione ha portato a numerose tensioni nel corso dei decenni, scaturite in alcuni casi in veri e propri conflitti, come nel caso della guerra del Darfur, una regione occidentale del Sudan in cui dal 2003 sono emersi movimenti indipendentisti in contrasto con il governo centrale, portando ad un bilancio di oltre 700.000 morti secondo le Nazioni Unite. Nel 2011, invece, fu la parte meridionale del Paese a staccarsi, ottenendo l’indipendenza con il nome di Sudan del Sud, ad oggi lo Stato più giovane al mondo tra quelli riconosciuti dalle Nazioni Unite.
Nel 2019, dopo quasi trent’anni di governo, il presidente ʿOmar al-Bashīr fu stato costretto ad abbandonare la guida del Paese a seguito delle ingenti proteste popolari e dell’appoggio dato dall’esercito ai manifestanti. Nell’aprile del 2019, dunque, ha avuto inizio il periodo di transizione sotto la guida del Consiglio militare di transizione, poi ribattezzato Consiglio Sovrano del Sudan, e del suo presidente Abdel Fattah al-Burhan, che molti considerano come capo di Stato de facto del Sudan.
Una situazione già molto difficile, precipitata il 15 aprile, quando hanno avuto inizio i combattimenti tra l’esercito regolare e le forze paramilitari denominate Rapid Support Forces (RSF), create da al-Bashīr nel 2013, che hanno coinvolto la capitale Khartoum e altre città del Paese. Le RSF hanno affermato di avere preso il controllo del palazzo presidenziale, della residenza del capo dell’esercito, della stazione televisiva di Stato e degli aeroporti di Khartoum, della città settentrionale di Merowe, e dello Stato del Darfur Occidentale con la sua capitale El Fasher, notizie smentite dall’esercito regolare.
La causa scatentante dei combattimenti risiederebbe tensioni sulla proposta di integrazione delle RSF nell’esercito. Il disaccordo ha ritardato la firma di un accordo sostenuto a livello internazionale con i partiti politici sulla transizione verso la democrazia. Inoltre, la rivalità tra l’esercito regolare e le forze paramilitari ha acuito lo scontro tra i rispettivi leader, il già citato generale Abdel Fattah al-Burhan, comandante dell’esercito sudanese, e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, capo delle RSF.
La situazione nel Paese africano sembra al momento destinata a degenerare in una guerra civile, che potrebbe mettere ulteriormente a repentaglio l’unità dello Stato sudanese. Questo getta ulteriore scompiglio in una regione del mondo che certo non brilla per stabilità, visto che anche lo stesso Sudan del Sud è in preda a tensioni interne, per non parlare dei conflitti intestini che si sono svolti negli ultimi anni in Ciad, Repubblica Centrafricana, Somalia ed Etiopia. Per questo motivo, la maggioranza dei governi regionali e mondiali ha espresso preoccupazione per la situazione in Sudan, chiedendo alle parti di deporre le armi e risolvere le controversie attraverso il dialogo.
Secondo le notizie pubblicate proprio in queste ore, le forze armate sudanesi e le RSF hanno concordato l’apertura quotidiana dei corridoi umanitari, ma gli scontri continuano in tutto il Paese. Le forze armate sudanesi sono state le prime a dichiararsi pronte ad aprire corridoi umanitari in risposta all’iniziativa delle Nazioni Unite. Le RSF hanno risposto di essere pronta a mantenere la pausa umanitaria per quattro ore al giorno. Entrambe le parti si sono riservate di rispondere alle provocazioni avversarie. Tuttavia, finora le promesse non sembrano essere state mantenute.
Abdallah Hamdok, ex primo ministro del Sudan, dal canto suo, ha messo in guardia contro l’interferenza straniera negli affari interni del paese nel mezzo dello scontro armato tra l’esercito e le RSF: “Qualsiasi interferenza straniera negli affari del Sudan deve essere respinta“, ha detto il canale televisivo Al Arabiya. Ha inoltre invitato le parti in conflitto “al dialogo, che porterà a un accordo e al rifiuto di qualsiasi interferenza straniera negli affari del Sudan“. “Sono necessari un cessate il fuoco immediato e la comprensione reciproca“, ha affermato ancora Hamdok. “In Sudan si sta verificando una situazione umanitaria catastrofica e il sudanese non ha altra scelta che la pace“.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog