Alcuni giorni fa, il 30 marzo, a Tortona ho tenuto una conferenza sul revisionismo: numerose presenze in sala, pubblico attento, e partecipe. Ho evidenziato il passaggio del revisionismo dall’ambito storiografico a quello politico, fino alla sua espressione più trucida, che io una quindicina di anni or sono, circa, denominai “rovescismo”.
di Angelo d’Orsi – Blog
Preparando la conferenza, mi ero imbattuto in una intervista di anni fa a Gian Enrico Rusconi, sul tema, nella quale lo storico e politologo, minimizzava il rischio del revisionismo, quasi mettendo in burletta il mio rovescismo, sostenendo che in fondo non c’era da preoccuparsi più di tanto, che tanto la politica ha sempre agito sulla storia, e così via.
Rusconi aveva ragione a ricordare che politica e storia sono contigue, ma sbagliava, e clamorosamente, a non differenziare tale vicinanza, dall’uso politico della storia, che con il revisionismo è arrivato alla sua fase estrema, appunto, il rovescismo. E l’atteggiamento di Rusconi è stato lo stesso di numerosi altri studiosi e intellettuali, che in buona fede, o per distrazione, o chissà per timore di esporsi “troppo”, hanno taciuto, minimizzato, o addirittura negato che il pericolo esistesse.
E invece il pericolo c’è. Il pericolo di un esito direttamente e concretamente politico del revisionismo, compiutamente rovescistico. Li ricordiamo i libri di Giampaolo Pansa? Ebbene, Pansa era una sorta di nipote di Renzo De Felice, il quale aveva cominciato a demolire il ruolo storico del partigianato, ossia del contributo fornito dai resistenti italiani in armi, nella sconfitta del fascismo e del nazismo. Si tratta di un punto di vista, non suffragato da prove (anzi, rigettato da documenti e testimonianze), che in realtà riprendeva i luoghi comuni dei nostalgici del fascismo, nell’immediato dopoguerra, e che di tanto in tanto ritornavano a galla. Pochi giorni fa è stato Massimo Fini, giornalista controcorrente, a scrivere sul “Fatto Quotidiano” un mucchio di sciocchezze, in proposito, tanto da costringere il direttore Travaglio a dissociarsi. Ma prima di lui, quanti altri, si sono messi in evidenza in tale direzione: per tutti ricordo Bruno Vespa. (Et de hoc satis!)
Siamo sempre nel solco dell’idea che si vuole far diventare senso comune, per la quale nell’Italia del ’43-’45 dominava una grande zona grigia costituita da milioni di uomini e donne a cui nulla importava di fascismo e antifascismo, che solo volevano la fine della guerra (che era poi una parola d’ordine squisitamente antifascista, tant’è che per gli italiani che la gridavano o la sussurravano c’era il manganello, l’olio di ricino, l’arresto, il confino o la galera; proprio come nell’Ucraina del democratico Zelensky, che ha proibito anche l’uso di parole come pace o trattativa…). E fascisti e antifascisti costituivano due minoranze, colpevoli entrambi di turbare l’ordine, ma in fondo gli uni e gli altri avevano un po’ di ragione, perché erano in buona fede. In tal senso rimane pietra miliare il discorso di insediamento di Luciano Violante alla presidenza della Camera nel 1996, con il suo saluto ai “ragazzi di Salò”, che tanto commosse i “post-fascisti”, e ne portò a compimento lo “sdoganamento” che Bettino Craxi prima e Silvio Berlusconi dopo, avevano messo in campo.
Fu Norberto Bobbio a fare una piccola quanto essenziale precisazione. Anche ammettendo che i ragazzi di Salò avessero aderito a quel regime orrendo, mortifero, luttuoso, in buona fede, per una formalistica fedeltà alle alleanze, per sentimento del dovere, per un malinteso patriottismo, ebbene, anche salvando le loro coscienze, ci si doveva interrogare non già sulla moralità loro, personale, bensì sulla moralità delle cause per le quali essi combattevano. Se avessero vinto loro?, chiese Bobbio a De Felice, che sarebbe accaduto?
Una domanda a cui De Felice non seppe dare una risposta persuasiva. E oggi, rimestando nel fondo del Barile, una Meloni qualunque, se ne esce con l’idiozia (così l’ha definita Gustavo Zagrebelsky, suscitando l’imbarazzo di Gramellini, nel suo programma tv su canale Rai) dei martiri delle Ardeatine, trucidati “perché italiani” !). Buon ultimo arriva colui che il nostro ordinamento indica come il sostituto del Presidente della Repubblica in caso di impedimento anche provvisorio di questi a svolgere il suo ruolo di capo dello Stato. Sì, mi riferisco al più improbabile e grottesco dei presidenti del Senato in tutta la storia repubblicana. Personalmente trovo davvero incredibile che una figura come Ignazio La Russa possa rivestire tale ruolo. E questa “Seconda carica dello Stato” fin da subito ha contribuito potentemente a confermare il pregiudizio negativo su di lui, la sua storia, la sua fisionomia di fascista non pentito. Le frasi proferite da costui, sull’azione dei gappisti romani a Via Rasella e la vendetta nazista alle Fosse Ardeatine sono semplicemente indecenti, oltre che un piccolo campionario delle sciocchezze che la storia ridotta a cicaleccio televisivo o radiofonico, o “internautico”, può inanellare, impunemente.
Oggi anche i “democratici” del PD gridano allo scandalo. Ma il 19 settembre 2019 votarono tutti compatti la infamissima risoluzione del Parlamento dell’UE, che equiparava comunismo e nazismo, anzi dava le colpe maggiori al primo, spingendosi addirittura ad attribuire all’Unione Sovietica la responsabilità dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Quella risoluzione fu definita da Emanuele Macaluso, compianto anche da chi non era quasi mai d’accordo con lui, con una espressione risolutiva: “una macelleria della storia”.
Ebbene, i miei colleghi storici, politologi, filosofi, i miei colleghi giornalisti culturali, i miei colleghi uomini e donne di cultura, sono in grado di risvegliarsi dal lungo sonno, e creare una testuggine romana per opporsi a una deriva che è diventata slavina, e ora emette il sinistro lugubre della valanga?
D’altronde se non si può parlare di “ritorno del fascismo”, è solo perché dall’Italia il fascismo non se n’è mai andato, ma ha continuato a scorrere sotterraneo, come un fiume carsico, riemergendo di tanto in tanto. Le sue riemersioni, da una trentina d’anni a questa parte, sono diventate sempre più frequenti, e il revisionismo storico, nella sua forma estrema, il rovescismo, ha svolto un ruolo determinante. Forse occuparsene, non è fare sfoggio di sapere accademico, ma fare esercizio di pensiero critico e insieme di militanza civile.
La foto è tratta dalle recenti commemorazioni per il rogo di Primavalle a Roma