Nessun 25 aprile è mai uguale ad un altro. Così come non lo è nessun giorno dell’anno, nessuna ora di ogni singolo giorno, nessuna emozione che proviamo noi durante le ventiquattro ore. Tutto cambia continuamente: sensazioni, rapporti intimi e personali, raffronti con la realtà e, dunque, la realtà medesima. E’ lo scorrere delle cose, la turbolenta e caotica dialettica di un universo che è la quinta essenza del mistero, di una vita è la quinta essenza del non-senso.
Non fosse che, scendendo nel microcosmo della vita sulla Terra, animale umana e animale non-umana, si cerca da millenni di dare un significato a queste nostre giornate, a questi anni, a tutto il poco tempo che, in relazione all’enormità del cosmo e alla sua irragiungibilità ai massimi confini del visibile attraverso ingegnosissimi telescopi, sonde e satelliti, è davvero piccola ma non ben poca cosa.
Ed ecco che, allontanandosi da un nichilismo pervadente, che induce alla disaffezione, al tralasciare, al trascurare e al non curarsi di tante cose ritenute sempre più piccole e quindi sempre meno degne di attenzione e di cura, si può riscoprire un senso dell’esistenza proprio nel cercare di viverla il più serenamente possibile, in armonia magari con gli altri esseri viventi. Tutti quanti. Compresa quella grande unità vivente che è Gaia, la Madre Terra.
Dovrebbe essere un po’ lo scopo logico, naturale e, anzi, proprio eticamente assegnato a noi stessi da una osservazione intelligente tanto autocritica quanto rivolta verso ogni cosa che ci circonda: quello di realizzare le condizioni per una condivisione di ogni valore che può essere o divenire comune. Per abbandonare l’istinto primitivamente primordiale della sopraffazione, della caccia, della predazione, della dominazione ad esclusivo scopo della sopravvivenza.
Una lotta che oggi si rigenera in forme che hanno attraversato i millenni, in storie di espansione di città che si sono fatte regni, imperi, hanno allargato i loro domini e poi li hanno visti collassare su sé stessi, contraendosi e contorcendosi come si contorce la massa di un pianeta che sta morendo, di una stella che sta implodendo, di un sole che termina la sua vita ed è destinato a divenire quell’altro grande mistero che è il “buco nero“.
Lì dove la distorsione temporale sembra avvalorare ancora la teoria della relatività einsteiniana, dove si presumono tante cose e dove le certezze sono altrettanto poche, lì la nostra piccola vita, ma non insignificante per questo, torna ad essere ridimensionata nelle sue altissime ambizioni imperialistiche, di dominio di un popolo sugli altri, di una nazione sulle altre, di un governo su altri, di una economia su altre.
La globalizzazione capitalistica, davanti ad una sorta di proiezione metafisica dell’animale umano nell’Universo, è, questa sì, ben poca cosa. Perché è la contrazione del diritto all’esistenza libera per tutte e per tutti in una prevedibile implosione ambientale, destinata ad essere il futuro prossimo di quelle generazioni che già da ora si sentono “ultime” e che lottano per qualcosa che oltrepassa persino le giuste rivendicazioni sociali, civili e morali che riguardano il lavoro, la salute, la democrazia costituzionale.
Che cos’è, dunque, il 25 aprile in questa astrazione di contesti, in questa elevazione oltre l’umano, nel dis-umano, nella afasia di una cosmogonia incapace di parlarci oltre la semplicità fantastica del mito, dal particolare all’universale, dalla mediocrità dell’umana specie alla totalità della materia che è in continua trasformazione e che può tranquillamente trascurarci nella solitudine della galassia?
Solo nel rapporto molto laico con questa enormità indicibile e incomprensibile si può ritrovare il significato della nostra esistenza: un senso che noi dobbiamo dare per evitare di impazzire continuando a pensare che siamo al momento solissimi nell’Universo e che siamo della stessa materia delle stelle. Polvere davvero. Polvere eravamo al principio, poi ci siamo fatti acqua e poi vita. Poi ancora, questa vita è diventata complessa, così tanto da generare qualcosa di straordinario, che forse era già presente nella materia stessa in potenza, ma non certamente in atto.
La coscienza. La consapevolezza dell’esistenza del mondo e, soprattutto, della nostra esistenza e di tutti gli altri esseri viventi. Questa coscienza ci rende qualcosa di veramente speciale anche in relazione al 25 aprile e all’Universo che, se messi vicini l’uno all’altro, paiono davvero non avere nulla a che fare reciprocamente.
Invece una relazione c’è ed è proprio quel tentativo di liberare l’essere umano dalla sua voglia di dominio, di sopraffazione su sé stesso, di arbitrarietà e di comando totalitario nel nome di una ratio superiore alle altre, di una norma che si imponga su tanti traviamenti e che quindi possa considerare questi ultimi come deviazioni, come qualcosa che sfugge al controllo e che deve essere riportato nel recinto dell’ordine.
Non esiste nessun ordine se non quello naturalmente dato. Non esiste nessun significato vero per la nostra esistenza se non quello di valorizzarla nel nome dell’uguaglianza assoluta: tra noi animali umani e tutti gli altri animali. E tra noi animali nel nostro complesso e il pianeta che lentamente muore.
Abbiamo così tanto lavorato a dare un significato alla nostra vita, abbiamo così ostinatamente impiegato la nostra intelligenza e la nostra coscienza a dare forma e sostanza a concetti del tutto arbitrari, da aver perso completamente di vista la piccolezza delle nostre esistenze, finendo per stabilire una correlazione tra “piccolo” e “insignificante“. E per sfuggire a questo paradigma, abbiamo pensato che la grandezza fosse, di contro, equiparabile al significato, all’unico significato possibile.
Così chi, nel corso dei millenni, è divenuto grande ha fatto la Storia e chi è rimasto piccolo, sovente, l’ha subita e l’ha dovuta vivere a discapito delle ragioni delle classi che hanno ottenuto il dominio sociale, quindi politico ed economico su altre classi. Non solo il 25 aprile, ma certamente molto di più rispetto ad altre date, è il momento di un recupero di una coscienza di massa, di una volontà eversiva contro l’eversione, di rivolta contro l’antiribelle per eccellenza, ma, almeno nella Storia moderna e contemporanea, rimane un punto fermo di svolta.
Se dobbiamo andare in cerca di una affinità possibile, elettiva, tra l’impenetrabilità dell’Universo, il nonsense della vita e i turbamenti della coscienza alla ricerca di una felicità condivisa, ebbene tutta l’empatica speranza che la lotta contro quanto esaltava la grandezza contro la piccolezza, la maggioranza contro la minoranza, la significanza dell’enorme contro l’insignificanza del minuto, infimo, reietto, miserrimo destino della massa indistinta del popolo, ecco, quel punto di maggiore vicinanza è proprio la rivolta partigiana, la Resistenza all’oppressione, l’insurrezione contro il nazifascismo.
Nella Storia dell’animalità umana, è esattamente il nazismo a far raggiungere alla dicotomia grande/forte versus piccolo/debole lo zenit negativo della coscienza (dis)umana.
Una congiuntura di circostanze storiche, politiche, economiche e sociali determina quell’allontanamento totalizzante del nostro ancestralismo mutevole e rotolante nella dialettica del dubbio costante sull’esistenza, quell’aderenza, uguale e contraria, ad un pieno senso della vita dato dal Terzo Reich e dal fascismo all’essere umano nel “trionfo della volontà“. La volontà non è mai qualcosa di veramente e soltanto buono. Vi si nascondono dietro mezze verità, parzialismi che inducono a diffidare, a riferirsi a noi stessi come agli unici detentori di concetti ontologici che dovremmo invece disprezzare.
Visto che l’ontologia è retoricamente insopportabile quando pretende di sapere cosa è e cosa non è, mentre la nostra coscienza può solo dirci – montalinamente – “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo“.
E’ questo che possiamo sapere: quello che ci differenzia da noi medesimi e ci pone in relazione ad una consapevolezza che pensiamo di detenere e di esibire come parte di quella grandezza che ci regala un anestetizzante “senso della vita” e che, invece, è un abbaglio accecante, un attimo illusorio di serenità, oltre l’angoscia dell’incomprensibile, dell’indicibile, dell’imperscrutabile.
Dunque, il 25 aprile, come tante altre date della Storia dell’animalità umana (impariamo a riconoscerci parte dell’animalità tuta e non qualcosa di distinto per specialità e, quindi, autorizzato a dominare su tutti gli altri viventi), è importante come giornata della Liberazione da ciò che ci ha portato vicini a quella criminale consapevolezza totalizzante (e totalitaria) che voleva regalarci il senso dell’esistenza nel dominio assoluto di un popolo su tutti gli altri, di una specie sulle altre, di una “razza” su presunte altre.
La grandezza non è potenza, così come la piccolezza non è debolezza. E il senso dell’esistenza, se proprio dovesse avere un sinonimo sarebbe nell’abbandono dell’onnipotenza umana, del dominio e della sopraffazione, dell’imperialismo e della coercizione, per regalarsi ad un altro abbandono: quello di una serena, saturniana incoscienza, molto meno rassicurante sul posto che occupiamo nell’Universo, molto più confacente a quello che dobbiamo ancora guadagnarci qui su questo pianeta che stiamo devastando.
Buon 25 aprile a tutte e tutti, incoscientemente, piccolissimamente e, perciò, veramente bello, straordinario e degno dell’intelligenza e della consapevolezza umana.
MARCO SFERINI