In una serie di articoli pubblicati sulla “Neue Rheinische Zeitung“, titolati un po’ sbrigativamente “Il salario“, a loro volta testo di cinque conferenze che Marx tenne nel 1849 presso l’Associazione degli operai tedeschi, il Moro traduce molto semplicemente gli studi fatti sino ad allora sulla composizione della paga data al lavoratore.

Da questo apparentemente facile presupposto, molto poco accademico, tanto scientifico, matematico ed economico, nasce la disarticolazione di un sistema economico, la sua estrinsecazione come fondamento strutturale di ogni sopraso, abuso, ingiustizia e sfruttamento su questo pianeta.

Tanto dell’essere umano su sé stesso, quanto nei confronti delle materie prime tratte dalla terra, dai mari, dall’ambiente in generale e in quelli degli animali che oggi ci stiamo abituando a considerare nostri simili, anche se molto reticentemente dopo millenni di specismo e antropocentrismo.

Marx (ed Engels naturalmente) smentendo tutte le caricature filosofiche e le previsioni apocalittiche o, al contrario, entusiastiche sul sistema capitalistico, affidano alla scientificità dei dati la dimostrazione dell’esistenza di uno sfruttamento che viene occultato ancora oggi dietro fraseologie apparentemente innocenti, che hanno lungamente segnato la potenzialità della critica sociale, di quella di classe provando ad indebolirla: «Il padrone ci da il lavoro. Senza di lui chi ci farebbe lavorare?». E’ solo uno dei tanti esempi che si possono fare.

E’ ovvio che in questa società il capitale è, invece del lavoro, al centro di ogni condizione economica data, di ogni sviluppo immaginato e messo in pratica; mentre qualunque cosa tocchiamo, anche noi stessi, si riduce a merce, viene spogliata della sua vera essenza e delle sue qualità per diventare soltanto la somma del “valore d’uso” e del “valore di scambio“.

Scrive Marx:

«Prendiamo un operaio qualsiasi, per esempio un tessitore. Il capitalista gli fornisce il telaio e il filo. Il tessitore si pone al lavoro e il filo si fa tela. Il capitalista si impadronisce della tela e la vende, poniamo, a venti marchi. E’ il salario del tessitore una parte della tela, dei venti marchi, del prodotto del proprio lavoro? Niente affatto. Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro che egli ricaverà dalla tela, ma con denaro d’anticipo».

Se ne conviene che il presunto diritto che il padrone (o l’imprenditore, per stare alla modernità del linguaggio dei giorni nostri) ha sui prodotti che vengono lavorati e immessi sul mercato gli deriva da una accumulazione originaria di capitali, dal diritto di succcessione che rivendica per la proprietà privata dei mezzi di produzione e che riesce a continuare ad avere col supporto coeso di tutte le sovrastrutture sociali che coinvolte in una dipendenza reciproca.

E’ ovvio che ogni alternativa, per poter essere percepita come concreta e non aleatoria, deve potersi supportare almeno su un movimento di massa, su una vasta platea di coscienze che, consapevoli del fatto che nel mondo capitalista è inimmaginabile strutturare un anticapitalismo convivente col regime dei padroni, lotti per creare quei rapporti di forza tali da rovesciare il sistema.

Nel portare avanti una lotta per il superamento dello sfruttamento globale, si può agire con rotture repentine (che potremmo chiamare “rivoluzioni“) o con processi più lenti ma comunque inesorabili, visto che la complessità dei rapporti tra capitale e lavoro non permette una sostituzione facile e veloce tra sfruttatori e sfruttati alla guida dei grandi, enormi bisogni di una umanità quasi senza scampo.

La crisi ambientale e climatica, il disastro ecologico che avanza non solo rimettono in discussione tutti i tentativi di moderazione e riformismo correttivo del capitalismo, ma ne evidenziano ancora di più la totale inadeguatezza come sistema di regolazione dei rapporti tra umani e tra questi e il resto del pianeta.

Il sistema dello sfruttamento attraverso la realizzazione del “plusvalore“, il sottopagamento del lavoro in quanto forza di chi lo regala letteralmente all’imprenditore che ne trae quel profitto che gli è proprio e non di altri, è arrivato al suo punto di massima contraddizione con qualcosa di più forte della rivoluzione proletaria immaginata un tempo o di quella comunista tradita dal burocraticismo sovietico e dalla feroce statalizzazione dell’economia.

Adesso non sono soltanto più i movimenti operai, il sindacalismo, i partiti anticapitalsti e antiliberisti ad essere la cattiva coscienza di un pugno di profittatori e speculatori, rispetto alla grande milardevole massa dell’umanità e del mondo animale (impropriamente detto). Adesso è la natura che si ribella e lo fa senza alcuno scrupolo, senza riguardo alcuno, azzerando ogni possibile distinguo, trattando tutto e tutti alla stessa stregua.

Mentre le giovani generazioni si muovono per dare voce a questa tragedia planetaria che incombe, si fa fatica a trovare un legame tra ecologia e socialismo, tra uguaglianza sociale e uguaglianza in un senso molto più ampio e complessivo. Il Marx del 1849 che scrive del salario non si pone il problema ambientale e nemmeno quello dell’antispecismo, della liberazione dallo sfruttamento per tutti gli esseri viventi. Il suo orizzonte è umano. Ed è comprensibile.

Due secoli fa il potenziale capitalistico si mostra e si dimostra ma è inimmaginabile una devastazione come quella attuale.

Persino per il Moro che l’aveva comunque preconizzata attraverso lo studio delle leggi di sviluppo dell’economia di mercato, della sua diffusione sempre più planetaria e, quindi, di una sorta di globalizzazione ante litteram che, in nuce, si poteva intravedere nell’espansionismo coloniale, nell’occupazione da parte delle potenze statali e dei loro comitati di affari borghesi nello sfruttamento di ogni risorsa terrestre e marina, nell’appropriazione di qualunque bene potesse trovarsi in quelle terre fino ad allora senza un padrone europeo.

Il tema del salario non diventa primario se non gli si riconosce, soprattutto oggi, quell’essere cartina di tornasole di tutto un sistema perverso che continua ad alimentarsi grazie all’inespressione sociale, all’inefficiente politica moderata di una sinistra che ne accetta, tutto sommato, i presupposti. Per poter essere accettata nel consesso nazionale, europeo e mondiale come garanzia di un equilibrio tra esigenze padronali e bisogni del mondo del lavoro.

Ripartire dal salario, dalle pensioni, da rivendicazioni fondamentali per la destrutturazione dei paradigmi del capitalismo è tutt’altro che originale, si potrà dire, ma è necessario perché il sistema deve entrare in crisi attraverso la contestazione dei suoi presupposti artefatti, fondati su pregiudizialità che vengono consacrate, oltre che dagli imprenditori soprattutto dai governi che li servono, e che sono castelli e tigri di carta.

Quasi due secoli fa, come abbiamo già evidenziato, scrive ancora Marx:

«Il salario non è, dunque, una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di forza-lavoro produttiva. La forza-lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Perché deve vivere».

Meglio di così, ancora oggi, non si potrebbero spiegare tutte le disperazioni degli sfruttati di ogni parte del mondo: dai neoschiavismi praticati in paesi sottosviluppati (sul concetto di “sviluppo” bisognerebbe aprire un capitolo a parte…) dove l’esempio di Iqbal Masih è giustamente ancora più che attuale, alle migrazioni di massa che partono dalle terre dove si fa fatica a sopravvivere, dove si viene inquadrati in criminali milizie fondamentaliste, dove le donne vengono asservite, usate e violentate legalmente.

Meglio di così, ancora oggi, non si potrebbero spiegare le guerre, fatte per accrescere gli interessi imperialisti di nazioni che si perpetuano grazie al sostegno di grandi elargizioni private nelle campagne elettorali e che impoveriscono, di conseguenza, ogni ambito di tutela pubblica, ogni interesse economico sociale. Il privato si espande, fagocita ogni cosa e lo fa, come ogni azione economica e finanziaria, al di là dell’etica, oltre la morale. Obbedisce alle regole del sistema, di sé stesso e non può fermarsi.

Gli appelli di decine di migliaia di scienziati sulla irreversibilità di una crisi climatica che ci sta già uccidendo e che sterminerà le future generazioni di animali umani e di animali non umani, così come impoverirà progressivamente l’ambiente, la natura tutta, servono davvero a poco se non fermiamo il capitalismo, se non lo costringiamo a morire nel più breve tempo possibile.

Sarà, comunque vada, sempre troppo questo tempo, perché siamo già oltre il tollerabile: due miliardi e mezzo di salariati nel mondo vengono sfruttati al limite delle loro forze, delle loro condizioni di sopravvivenza. Altre centinaia di milioni di persone migrano verso quell’occidentalissima parte del pianeta che ha, nei secoli scorsi, occupato tutta la terra, se ne è appropriata e ha fatto scoppiare le peggiori contraddizioni antisociali e ambientali.

L’Europa ha dominato il mondo. Ma non c’è tempo per stare a guardare che, ora, a dominarlo siano altri paesi emergenti sul piano dell’imperialismo e del conflitto tra grandi poli di attrazione dei mercati e delle finanze.

Quando il capitalismo sarà ulteriormente costretto a fare i conti con gli sconvoglimenti naturali in aumento, proverà ad adeguarvisi, al costo del “si salvi chi può“. Chi avrà ingenti risorse da parte forse potrà crearsi delle bolle entro cui stare e ripararsi per qualche secolo dalle devastazioni. Ma prima o poi la vita umana verrà meno sulla Terra.

E tutto questo per il profitto, per la sete di potere, per la supremazia di alcuni popoli su altri, di alcuni individui su tutti gli altri. Non serve moralizzare questa critica un po’ apocalittica, ma abbastanza sincera nell’esserlo. Serve non disimpegnarsi dalla lotta, non considerare soltanto l’importanza di un voto parlamentare come dirimente per l’esistenza di un partito comunista o di una forza anticapitalista. Occorre avere un orizzonte più ampio da osservare.

Un orizzonte che tenga conto di tutti e di tutto. Che non provi a minimizzare nulla. Perché se niente importa – come scriveva molto bene Safran Foer citando le parole sagge della nonna in un campo di concentramento nazista – allora non c’è niente da salvare.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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