di Chiara Nalli
E’ previsto per oggi, 2 maggio, il terzo round di negoziati nell’ambito degli accordi per la normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, cui prenderanno parte il Presidente serbo Aleksandar Vucic e il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti. L’incontro fa seguito a quelli del 27 febbraio e del 18 marzo, con i quali, sotto la mediazione dell’Unione Europea, sono stati delineati i punti fondamentali per la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi e la relativa roadmap attuativa. Nell’incontro di oggi, in particolare, è prevista la discussione riguardo la creazione della “Unione dei Comuni Serbi del Kosovo” (ZSO – sigla in serbo), punto di vitale interesse per Belgrado.
Già prevista negli Accordi di Bruxelles del 2013 e mai realizzata nei successivi dieci anni a causa delle resistenze delle autorità kosovare, l’Unione dei Comuni Serbi del Kosovo rappresenterebbe sostanzialmente un’area di autonomia amministrativa per i comuni a maggioranza serba del nord del Kosovo (ed alcune enclave nell’area sud-est) ed è tuttora ritenuta essenziale per la tutela delle popolazioni serbe della regione.
Per avere una misura di quanto simili questioni possano essere vitali in un contesto di tensione interetnica, basti pensare a come la crisi fronteggiata tra luglio e dicembre 2022 abbia avuto origine proprio da una questione amministrativa, vale a dire dal rifiuto, da parte di Pristina, di prorogare l’accordo sulla libera circolazione delle targhe serbe (e con esse, delle persone). L’escalation che ne è conseguita, sia a livello locale (con scontri e blocchi) sia a livello istituzionale (con le dimissioni di massa, a novembre 2022, dei rappresentati serbi da tutte le principali istituzioni governative) ha portato i rapporti tra Belgrado e Pristina ad un livello di tensione senza precedenti negli ultimi dieci anni, tale da “rendere necessaria” l’intermediazione di diplomatici statunitensi e dell’Unione Europea; quest’ultima, sulla base di una risoluzione ONU del 2010 (64/298), ha assunto il ruolo di “mediatore ufficiale” dei negoziati.
Il testo dell’accordo per la normalizzazione delle relazioni (del quale si studierà l’attuazione a partire da oggi) è basato su una proposta franco-tedesca che, se da un lato ribadisce la necessità di formare l’Unione dei Comuni Serbi, chiedendo al Kosovo un impegno generico in tal senso, dall’altro pone le basi per un riconoscimento de facto del Kosovo da parte della Serbia, stabilendo che “la Serbia non si opporrà all’appartenenza del Kosovo a nessuna organizzazione internazionale”. Non solo: l’allegato attuativo dell’accordo prevede che i singoli punti debbano essere realizzati indipendentemente l’uno dall’altro: il che significa che Belgrado potrebbe trovarsi nella scomoda posizione di non avere l’autonomia richiesta per i territori a maggioranza serba e, allo stesso tempo, di aver implicitamente riconosciuto soggettività internazionale al Kosovo, perdendo qualsiasi strumento idoneo (anche solo di pressione diplomatica) a impedirne l’accesso all’ONU (o alla stessa NATO).
Un’ipotesi remota? Forse sì. Ma quelle che a prima vista potrebbero sembrare elucubrazioni di diritto internazionale assumono un aspetto totalmente diverso alla luce dell’atteggiamento delle autorità di Pristina e della stessa Unione Europea nei confronti dei due contendenti.
Partiamo dalle prime. Ieri il primo ministro kosovaro Albin Kurti si è lasciato andare a esternazioni che, a sole 24 ore dall’avvio del round di negoziati, suonano quantomeno poco incoraggianti: in un’intervista all’agenzia di stampa croata Hina, ha dichiarato che non avrebbe permesso “la creazione di una qualche forma di Repubblica Srpska*” e “la territorializzazione basata sull’etnia perché contraria alla democrazia”, definendo la bozza di statuto della ZSO come “il documento su cui Bruxelles insiste”. Dichiarazioni che hanno suscitato la reazione nervosa del Ministro degli Esteri serbo e del membro serbo del Comitato Congiunto per il Monitoraggio degli accordi, i quali hanno ricordato che le prerogative e i limiti della ZSO sono fissati nell’Accordo di Bruxelles del 2013, la cui applicazione è attesa da dieci anni. La situazione non si presenta maggiormente distesa sui territori: il 28 aprile scorso, le unità speciali della polizia del Kosovo hanno arrestato e trattenuto per diverse ore tre dipendenti delle Poste Serbe che trasportavano il denaro per il pagamento di pensioni e assegni sociali alla popolazione serba, secondo la consuetudine in vigore da vent’anni. Le autorità serbe hanno interpretato l’incidente come una provocazione e un atto intimidatorio nei confronti della popolazione, minacciata di rimanere senza alcuna forma di reddito.
Ma se le autorità kosovare mostrano una qualche forma di incoerenza, non meno ambiguo è l’atteggiamento di Bruxelles nel suo ruolo di “mediatore”. Nelle ultime settimane, le istituzioni europee si sono mostrate particolarmente ben disposte nei confronti di Pristina. E’ del 18 aprile, per esempio, la decisione del Parlamento Europeo di abolire il regime di visti per i cittadini del Kosovo che quindi potranno viaggiare liberamente in tutta l’area Schengen a partire dal prossimo anno (del provvedimento non beneficeranno invece i serbi residenti in Kosovo). Parimenti, il 24 aprile il Consiglio d’Europa (istituzione cui partecipano anche paesi non europei) ha accolto (con 33 voti a favore, 7 contrari e 5 astenuti) la domanda di adesione del Kosovo, avviando il relativo iter. Due “concessioni” che, a parere di Belgrado e di diversi analisti, avrebbero potuto essere quantomeno rimandate nel tempo in maniera tale da costituire una forma di pressione negoziale su Pristina.
D’altro canto, la normalizzazione delle relazioni con il Kosovo costituisce, per la Serbia, un impegno fondamentale nel processo di adesione all’Unione Europea, nell’ambito degli accordi stipulati fin dal 2014. Ad uno sguardo superficiale si potrebbe concludere che il riconoscimento del Kosovo e l’eventuale perdita di controllo sulle aree a maggioranza serba rappresentino il prezzo che Belgrado dovrebbe pagare per entrare nel luminoso consesso delle libere democrazie europee e condividerne la prodigiosa sorte.
Ma le cose non stanno esattamente così. Innanzitutto, l’opinione pubblica serba è fortemente polarizzata contro l’adesione all’Unione Europea e soprattutto, sulla tutela dei serbi di Kosovo; gli ultimi sondaggi riportati dalla stampa serba (gennaio 2023) dicono che solo il 35% della popolazione sarebbe favorevole all’adesione all’UE mentre tale percentuale scenderebbe al 9% se la condizione per l’ingresso nell’UE fosse il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo. Ma anche se l’opinione pubblica non fosse un problema, ci sarebbe dell’altro.
Già a partire dall’estate del 2022, infatti, le istituzioni europee hanno avviato forti pressioni su Belgrado affinché aderisse al quadro sanzionatorio nei confronti della Russia. La Serbia è infatti tra i principali paesi (insieme, a titolo esemplificativo, a Cina, India, Emirati Arabi e Israele) che rifiutano l’applicazione di sanzioni a Mosca. A settembre 2022, anche gli Stati Uniti, attraverso una dichiarazione del portavoce del Dipartimento di Stato, hanno affermato che “la Serbia dovrebbe accelerare i passi per avanzare nel percorso europeo, compresa la diversificazione delle fonti energetiche per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia e l’armonizzazione della politica estera e di sicurezza con l’Unione Europea”.
Sanzioni e “diversificazione delle fonti energetiche”: un mantra a cui siamo tristemente assuefatti da questa parte dell’Adriatico ma che suona a dir poco blasfemo per la Serbia, legata alla Russia da una profonda connessione storica e culturale ma soprattutto, da vincoli economici strategici di importanza fondamentale. Senza entrare nelle vicende del settore finanziario, basta citare, in questa sede, la compagnia petrolifera nazionale NIS, controllata al 50% dalla russa Gazprom Neft, insieme al fatto che la produzione di energia a costi relativamente bassi (anche tramite carbone) ha costituito uno dei maggiori elementi di competitività dell’economia serba e rappresenta tutt’oggi un fattore essenziale per l’attrazione degli investimenti esteri e lo sviluppo della produzione nazionale. Il quadro appare ora più chiaro: nel difficile equilibrio dei rapporti con Bruxelles (e con Washington nelle retrovie) la cessione di quote di sovranità e l’apertura a interessi economici occidentali sarebbe piuttosto il prezzo che Belgrado pagherebbe per assicurarsi un terreno di confronto quantomeno non ostile con il Kosovo di Kurti.
Il percorso di adesione all’Unione Europea, così come delineato dai vertici occidentali, potrebbe significare per la Serbia la perdita di quella sfera di indipendenza raggiunta a fatica negli ultimi dieci anni e soprattutto, l’ingresso in quel tritacarne economico che ha già caratterizzato il percorso della vicina Croazia: immigrazione di massa della forza lavoro verso l’Europa Centrale, produzione nazionale azzerata e totale dipendenza dell’economia da fonti esterne, siano esse finanziamenti, turismo europeo o rimesse dei lavoratori.
Ma la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo significa la pace, la stabilità dell’area e soprattutto la sicurezza di 50.000 serbi che ancora vivono nella regione.
Ad oggi sembra che per Belgrado sia impossibile ottenere una senza accettare l’altra, mentre Cina e Russia rimangono “geograficamente lontane” per un Paese circondato da membri NATO.
Aspettiamo che la storia ci indichi la via.
*la Repubblica Srpska è l’enclave di autonomia amministrativa serba in Bosnia Erzegovina, riconosciuta con gli accordi di Dayton del 1995.