Roberto Romano

La proposta della Commissione di nuovo Patto di Stabilità è deludente. A differenza di Cina e Stati Uniti, l’Europa perde l’opportunità di ripensare il suo ruolo, stravolge il metodo Next Generation Eu e frantuma la politica economica paese per paese. Un’unione di debolezze.

La documentazione messa a disposizione dalla Commissione Europea circa la riforma del Patto di Stabilità Europeo, raccoglie in parte il documento che aveva avviato la discussione sulla riforma dello stesso Patto (novembre 2022), e perde per strada, forse, il riferimento più positivo relativo alla necessità di superare alcuni vincoli che la pandemia aveva reso manifesti. Il metodo NGEU (Next Generation EU) è stato stravolto, non tanto nelle cosiddette finalità che rimangono tali (Green, resilienza, digitalizzazione, innovazione e un poco di sociale, piuttosto nella prospettiva storica. Mentre Stati Uniti e Cina riflettono sul rispettivo ruolo internazionale, con investimenti federali imponenti e investimenti interni per la Cina tesi a recuperare e superare alcuni vincoli tecnologici, l’Europa perde per strada la necessità di coordinare una politica pubblica all’altezza della sfida multipolare. Il nuovo Patto è migliore di quello precedente, ma rimane sempre quella manifesta impreparazione nell’immaginare una Europa grande, soprattutto grande nelle idee. 

La politica di bilancio e la politica economica delineata dal nuovo Patto Europeo è realizzata “Paese per Paese”; non è un elemento del tutto negativo se tutti i paesi avessero la stessa capacità di programmazione, ma riduce e depotenzia la politica economica europea perché fare politica economica paese per paese significa ridurre la stessa politica economica a piccoli interventi. Sostanzialmente la politica economica e fiscale rimane troppo piccola (nana) rispetto alle grandi sfide che devono essere intraprese. Nel regolamento e nei testi allegati c’è scritto (esplicitamente) che il bilancio europeo non deve in nessun modo essere coinvolto rispetto alle riforme degli Stati membri. Questo passaggio tradisce più di qualsiasi altro tecnicismo, e sono tanti, che le politiche di bilancio ed economiche non passano dal bilancio europeo, piuttosto dai singoli Stati. Tutti i Paesi potranno trovare una soluzione. Programmare un deficit pari o vicino al 3% del PIL, così come un miglioramento del debito pubblico nel corso di 4 più tre anni non è una impresa impossibile. Chi critica questa apparente rigidità, ricordo che il vecchio Patto di Stabilità prevedeva il pareggio di bilancio strutturale, tra le altre cose stimato da modelli econometrici che venivano smentiti ogni due o tre mesi.

Inoltre il quadro programmatico e tendenziale delle politiche di bilancio degli Stati si sovrappongono. È un tema che abbiamo più volte discusso, ma il pilota automatico necessita pur sempre di aggiustamenti. Possiamo discutere se il rientro dai deficit intervenuti in questi ultimi 3 anni sia la via maestra per la cosiddetta resilienza dell’economia europea e/o dei bilanci pubblici, per l’Italia questo rientro è dai più stimato in 0,5 punti di PIL; ovviamente questo rientro non è sempre uguale nel tempo in quanto, fortunatamente, il denominatore (PIL) non mai uguale a se stesso, ma l’eccesso di attenzione su debito e deficit, al netto delle buone intenzioni, financo rispetto alle parti sociali, rispetto al cosiddetto semestre europeo, riflette in realtà una preoccupazione contabile che mal si concilia con le debolezze degli Stati membri. Nessun Paese europeo preso singolarmente ha strumenti, risorse finanziarie e tecnologiche adeguate rispetto ai competitors internazionali; forse possono diventare subfornitori di un qualche attore internazionale nella riscrittura delle catene del valore internazionale. Sono troppo piccoli.

Il nuovo Patto di Stabilità Europeo non ha un orizzonte “normativo”, e riduce la politica economica ad una fiera di Paese, dove chi urla più forte può anche vincere, ma rimane pur sempre solo una fiera. Sembra che l’Europa abbia deciso di rimanere un nano economico e politico internazionale. 

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita è certamente migliore di quello precedente, sebbene rimanga ancora un enigma il modello econometrico per stimare ben 10 anni di crescita o meno delle diverse variabili che concorrono alla formazione del PIL, oggi non sono nemmeno tanto credibili le previsioni a un anno. Può una stima econometrica lunga 10 anni diventare alfa e l’omega per valutare il percorso economico di un Paese?

Quindi, i miglioramenti del nuovo Patto sono sufficienti?

In realtà c’è qualcosa di inedito e forse necessario. Se le cosidette politiche pubbliche dal lato del dare e l’avere finanziario hanno questi vincoli, per l’Italia, così come per altri Paesi, forse non è un segnale così brutto, soprattutto se consideriamo che le parti sociali (capitale e lavoro) hanno in mente solo di ridurre le tasse. Dopo la proposta del nuovo Patto, forse, finirà questa sterile discussione sulla riduzione delle tasse a favore del capitale o del lavoro. Ciò detto, allo Stato rimane (solo) la politica economica nel marcato. Non è una idea da buttare via vista l’assenza dello Stato nel mercato da troppo tempo. Forse è possibile predisporre delle riforme di struttura che modificano le regole di ingaggio tra i fattori di produzione. Se è l’unica via che rimane agli Stati, è il caso di considerarla molto bene.

Il progetto europeo è ancora da costruire. Tutti siamo coinvolti. Diversamente saremmo solo sudditi e/o spettatori di altri Paesi che hanno ben altri progetti. 

Il mio maestro Paolo Leon mi raccontava che stiamo facendo la Storia, e sarebbe il caso di arrivarci preparati. 

Sono disarmato, ma le idee non hanno bisogno di cannoni

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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