Il divario lavorativo di genere è soprattutto una questione di classe.

 di Federico Giusti

La revisione in corso del welfare da parte del governo Meloni nasce anche da un obiettivo recondito, ossia considerare le donne come madri e quindi favorire in subordine a questo ruolo il loro inserimento nel mondo del lavoro.

La ripresa occupazionale in Italia è fittizia e avviene soprattutto con tipologie contrattuali precarie e a tempo determinato, il numero delle donne in questo caso è decisamente maggiore di quello degli uomini dovendo conciliare lavoro con vita familiare. Se avessimo un welfare moderno e funzionante ci sarebbero asili nido pubblici in misura assai maggiore con tariffe abbordabili e a costi decisamente più bassi, e avremmo già da tempo inserito gli asili nido nel comparto dell’istruzione pubblica togliendoli dal limbo dei servizi a domanda individuale che presentano anche costi maggiori a carico  delle famiglie.

Il lavoro di cura in una società non patriarcale sarebbe appannaggio indistintamente di uomini e donne ma fermiamoci ad alcuni dati diffusi dalla Banca d’Italia. Nell’ultimo biennio quasi il 40% dei nuovi posti di lavoro sono stati occupati da donne ma gran parte di questa occupazione è part-time e precaria. E sempre le donne hanno pagato il maggiore scotto della pandemia in termini di posti di lavoro persi, tanto che perfino alcune aree liberal iniziano a parlarne.

Le caratteristiche del mercato del lavoro italiano sono da tempo note e il divario di genere è maggiore di ogni altro paese europeo a capitalismo avanzato, prova ne sia la presenza assai ridotta di lavoratrici in alcuni settori nei quali è possibile il ricorso allo smart working (visto inspiegabilmente come un vantaggio per compensare le carenze del welfare), per esempio la Pubblica amministrazione (ma il discorso non vale per alcuni comparti come sanità, enti locali).

La presenza di donne si concentra in alcuni settori come i servizi alla persona , il turismo e il commercio, ove il ricorso al part-time e ai contratti atipici è particolarmente accentuato.

In questi settori i posti di lavoro precari la fanno da padrone e nei contratti a tempo determinato e part-time la presenza delle donne è maggiore di quella degli uomini.

Come vediamo da tempo, l’Italia produce occupazione precaria, con contratti a tempo determinato, nelle aziende private la retribuzione delle donne continua a essere inferiore, l’offerta di trasformare i full-time in part-time in caso di crisi aziendale riguarda soprattutto le lavoratrici, una questione di genere da inquadrare dentro una prospettiva di classe perché un welfare insufficiente, la precarietà e la moderazione salariale sono tratti salienti del mondo lavorativo italiano e si abbattono indistintamente sui due generi.

E il divario di genere non può essere abbattuto solo pensando allo smart working, alle partite Iva farlocche e a salari ridotti che permettano comunque l’accesso al mercato del lavoro, perché questa tipologia contrattuale un domani determinerà assegni previdenziali da fame oltre a rappresentare in termini capitalistici un problema rilevante

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/una-questione-di-genere-e-di-classe-il-lavoro-mal-pagato-delle-donne

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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