L’arresto dell’ex primo ministro pakistano, Imran Khan, avvenuto martedì 11 maggio durante un’udienza in tribunale con un’operazione dei rangers paramilitari, ha destabilizzato il Paese asiatico che è ora attraversato da violente manifestazioni e forti espressioni di dissenso verso la classe politica. Cosa che ha indotto il governo in carica a schierare l’esercito nella capitale Islamabad. L’ex premier continua ad “agitare” le piazze e a far parlare di sé da quando nell’aprile 2022 è stato destituito attraverso un voto di sfiducia da parte del partito che gli garantiva la maggioranza. La scomoda politica interna promossa da Khan, improntata alla lotta contro la corruzione dilagante nella nazione islamica, e la politica estera non allineata agli interessi statunitensi hanno fortemente contribuito ad estromettere il politico pakistano dalla guida del Paese. Secondo quanto denunciato da lui stesso, infatti, le forti ingerenze statunitensi hanno indotto i politici pakistani a piegarsi alla volontà della Casa Bianca, confermando la subalternità della classe dirigente della nazione. Da quel momento, Khan non ha mai smesso di manifestare – durante quella che è stata chiamata la “lunga marcia” – e di chiedere elezioni anticipate. Proprio durante una tappa della marcia per ottenere nuove elezioni, nel novembre del 2022, l’ex leader aveva persino subito un attentato da parte di un personaggio non identificato.

Pochi giorni fa, invece, è stato arrestato per accuse di corruzione riguardo alla gestione dei terreni e dei fondi dell’Università di Al-Qadir da lui stesso fondata per preparare una nuova classe di statisti che possa affrontare i problemi del Pakistan rinnovando la nazione. Nello specifico, il fondatore del “Pakistan Tehreek-e-Insaf” (PTI – Movimento per la giustizia del Pakistan) è stato accusato di aver concesso favori a Malik Riaz Hussain, un influente magnate del settore immobiliare, al pari di alcuni funzionari dell’università, che in cambio ha ottenuto terreni e donazioni. Al suo arresto sono seguite proteste senza precedenti contro stazioni militari e di polizia in tutto il Pakistan. L’indignazione della popolazione – sostenitrice e solidale con Khan fin dalla sua caduta come primo ministro – è stata tale da indurre alcuni contestatori a saccheggiare la casa di un comandante dell’esercito. A Islamabad, la folla ha cercato di bloccare un’autostrada, mentre a Lahore delle auto parcheggiate vicino alle residenze degli ufficiali militari sono state date alle fiamme. Il messaggio del popolo pakistano è chiaro: è la sfera militare il loro bersaglio, in quanto è proprio quest’ultima una delle componenti istituzionali antagonista dell’ex primo ministro. Non per nulla, lo stesso Khan ha accusato il maggiore generale Faisal Naseer dell’Inter-Services Intelligence (ISI) di aver complottato per assassinarlo lo scorso novembre. Da parte loro, invece, i militari lo accusano di «aver mosso false accuse» contro l’alto funzionario dell’intelligence.

La situazione risulta, dunque, fuori controllo e il governo ha reagito schierando l’esercito nella capitale, nella provincia del Punjab e in altre regioni del nord-ovest del Paese. Ancora più grave è la situazione a Quetta (Balochistan), dove l’esercito ha aperto il fuoco contro la popolazione. Al momento il bilancio degli scontri è di sei morti, con centinaia di persone arrestate: il primo ministro Shahbaz Sharif ha promesso «punizioni esemplari» per i cittadini coinvolti nelle proteste, aggiungendo che «il popolo del Pakistan non ha mai assistito a simili scene». L’esecutivo ha reagito anche attraverso la censura: un canale mainstream, infatti, è stato costretto a chiudere la trasmissione dopo aver mandato in onda un’intervista di uno dei più stretti collaboratori di Khan in cui faceva osservazioni antimilitari, mentre l’Alta corte di Islamabad ha vietato di esprimere messaggi di sostegno sui social media. Ciò non basta, tuttavia, a contenere la folla, la cui stima verso l’ex campione di cricket e carismatico attivista, oltre che politico, cresce di pari passo con la sua persecuzione politica. Dal canto suo, Khan ha negato tutte le accuse, che appaiono quantomeno pretestuose, specie se si considera che la corruzione nel Paese asiatico è all’ordine del giorno e che le autorità in carica hanno fatto tutto il possibile fino ad ora per allontanare l’ex premier non solo dalla politica, ma anche dalla scena pubblica. Secondo la stragrande maggioranza dei cittadini pakistani, infatti, il movente dell’arresto è strettamente politico.

Subito dopo la sua elezione come primo ministro, infatti, gli USA gli avevano accordato il loro appoggio, ma nel momento in cui l’amministrazione Khan ha cominciato ad avvicinarsi sempre di più verso Russia e Cina attraverso accordi diplomatici, commerciali e infrastrutturali, il favore della potenza a stelle e strisce è venuto meno: lo storico alleato statunitense, infatti, stava scivolando pericolosamente verso le potenze rivali, sebbene l’obiettivo dichiarato del capo del PTI fosse quello di rendere indipendente il Pakistan. Sul fronte interno, invece, la politica anticorruzione promossa dall’ex primo ministro gli ha inimicato parte della classe dirigente del Paese.

Non è un caso, dunque, che dopo averlo sfiduciato, alcune componenti dello “stato profondo” pakistano abbiano deciso di infangarlo accusandolo proprio di corruzione, ossia ciò che sosteneva di voler combattere. Le accuse, tuttavia, non sono ancora suffragate da prove concrete e la popolazione è sempre più convinta che Khan sia vittima di un sistema politico putrescente che non fa gli interessi del Paese. Per questo, con l’arresto dell’ex capo pakistano, la crisi politica, istituzionale e finanziaria di Islamabad è giunta a un punto di non ritorno che preoccupa non poco l’attuale governo.

[di Giorgia Audiello]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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