Dopo la pandemia la speranza di un possibile cambiamento rispetto alle drammatiche condizioni del sistema sanitario si è arenata: nel silenzio dell’opposizione sociale la classe dominante si organizza e il progetto di autonomia differenziata firmato Calderoli sarà l’unica risposta concreta al dramma del Servizio Sanitario Nazionale italiano: la sua definitiva cancellazione.
Durante il primo lockdown la speranza in un possibile cambiamento del sistema dissestato in cui gli operatori si trovavano a lavorare era l’unico antidoto all’angoscia dei turni di Pronto Soccorso. Ripensando, però, alle condizioni storiche che hanno prodotto lo sfascio del nostro sistema sanitario, alle enormi responsabilità della stessa categoria medica e al sostanziale disinteresse del resto della popolazione per i temi della salute, è chiaro che quella fosse solo una forma disperata di autodifesa, il miraggio di una luce in fondo alla galleria. Terminata per decreto l’emergenza, infatti, la salute pubblica è tornata a essere l’ultimo problema dell’agenda politica. E non parliamo soltanto dell’agenda dei politici di professione, perché sarebbe troppo semplice quando, invece, è arrivato il momento di parlare di tutti noi.
La politica, del resto, una risposta al problema la sta elaborando, perché nel silenzio dell’opposizione sociale la classe dominante si organizza e il progetto di autonomia differenziata firmato Calderoli sarà l’unica risposta concreta al dramma del Servizio sanitario nazionale italiano: la sua definitiva cancellazione. Per il resto in Italia non si è avuta alcuna mobilitazione generale sulla «questione sanità» mentre nel resto d’Europa, invece, qualcosa si muove.
Una serie di scioperi ha attraversato il continente dallo scorso dicembre, quando i medici francesi sono scesi in piazza contro la proposta di riforma sanitaria seguiti a gennaio da infermieri e medici addetti alle cure primarie nel Regno Unito. A febbraio 250.000 operatori sanitari spagnoli hanno sfilato a Madrid contro i tagli alla sanità e in Portogallo e Germania a marzo sono scattati gli scioperi dei medici contro i tagli e per il rinnovo del contratto. Queste mobilitazioni, senza precedenti negli ultimi anni, sono il segnale di un rinnovato protagonismo del settore contro la chiara direzione delle politiche sanitarie europee in risposta alla crisi: tagli, deterioramento delle condizioni lavorative e la volontà di liberarsi della spesa sanitaria, ormai preponderante nei bilanci pubblici, per devolvere ai gruppi privati quello che ormai è un «problema» per governi centrali ed enti locali.
Una riforma sostanziale in grado di investire non soltanto gli aspetti organizzativi e quelli del lavoro ma lo stesso ruolo della medicina nella società necessiterebbe, infatti, di investimenti che le classi dirigenti europee non vogliono accollarsi perché significherebbe uno stravaso di miliardi in un progetto a lungo termine che non produrrebbe profitti immediati e nemmeno facile consenso elettorale, per una classe politica che della borghesia industriale e finanziaria è, oggi più che mai, «comitato d’affari». Intanto nel summit organizzato da Oms, Ue e Ministero della Salute rumeno a marzo è stata firmata la Carta di Bucarest, un documento che risponde alla crisi con 11 punti nei quali si punta a intervenire, con una dichiarazione d’intenti ma senza progetti concreti, sulle condizioni lavorative e l’aumento di investimenti pubblici.
In Italia la risposta alla crisi del sistema, messa a nudo dalla tragedia del Covid, si è concretizzata nella fuga degli operatori verso il privato, emigrazione all’estero e rifiuto di intraprendere le attività più rischiose come quelle dell’area di urgenza-emergenza. Sono molti i concorsi per contratti a tempo indeterminato andati deserti o quasi, laddove un tempo ci sarebbe stata ressa per entrare a vita dentro la «Grande Madre» del Servizio sanitario pubblico.
Resta la domanda, a fronte delle mobilitazioni europee di settore, sul perché del silenzio italiano su un tema così rilevante. Una risposta esaustiva ha bisogno di tenere presente la condizione attuale in relazione ai processi storici che l’hanno prodotta, senza comprendere i quali si finisce con l’abbaiare alla luna.
Guardando all’Europa che si muove è evidente che quelle mobilitazioni, così come le lotte in Francia contro la riforma del sistema pensionistico, siano eventi dentro cui è forte l’impronta dei sindacati che, a differenza di quanto accade dalle nostre parti, gli scioperi li fanno invece che minacciarli di continuo. In Italia ormai l’idea dello sciopero generale è ridotta allo spauracchio di Cavallo Pazzo che a cavalcioni della ringhiera di Sanremo urla: «Mi butto! Guarda che mi butto! Oh, mi butto davvero ho detto!», aspettando che Pippo Baudo vada a recuperarlo.
Se si considera, invece, fuori dalle lotte di settore, la società nel suo complesso, va detto che nel nostro Paese mancano mobilitazioni concrete e di massa perché non esiste più una cultura della salute e delle politiche sociali a sua tutela, gli italiani considerano il servizio sanitario pubblico qualcosa di «naturale» e hanno interiorizzato il discorso del potere, ritenendo la questione salute un problema esclusivamente tecnico.
Esperienze di lavoro collettivo e mobilitazioni locali, che pure ci sono, rappresentano sicuramente momenti importanti ma la loro frammentazione e l’incapacità a produrre proposte politiche articolate è un elemento di debolezza strutturale determinante. Per quanto riguarda le diverse categorie di operatori del settore, invece, che abbiano dato prova, durante la crisi, di abnegazione e professionalità è indubbio ed è solo per questo che, per quanto disastrato, il Ssn non è ancora colato a picco. A proposito di tale «senso di responsabilità », però, andrebbe fatta una riflessione sull’altra faccia di questa dedizione al lavoro che è l’incapacità di protagonismo politico di chi ha «tirato la carretta» durante la crisi senza mai mobilitarsi a fronte della mancanza di percorsi di sicurezza nelle strutture ospedaliere, della carenza di presidi, della sostanziale arte di arrangiarsi delle direzioni sanitarie di gran parte delle strutture, tristemente rappresentata dalle buste della spazzatura legate ai piedi degli operatori privi di calzari per lavorare nei Pronto Soccorso.
La passività di fronte a questa situazione tragica è senso di responsabilità o il grado zero della capacità di iniziativa politica? La remissività di fronte al potere monocratico dei Direttori Generali rientra nella virtuosa abnegazione o è, invece, uno specchio drammatico dell’anemia politica del mondo degli operatori e delle loro rappresentanze sindacali?
Sarebbe onesto, a fronte di tale situazione, parlare chiaramente, a parte la meritoria resistenza in trincea, della resa collettiva di una categoria, in particolare quella medica, che non ha mostrato uno spessore culturale e politico adeguato a prendere in mano il proprio destino (inevitabilmente legato a quello collettivo) nemmeno di fronte a una simile catastrofe. In questo senso aveva ragione chi parlava di «apocalisse» perché la crisi pandemica è stata soprattutto una «rivelazione», in grado di mostrarci davvero chi siamo e dove stiamo andando.
Il silenzio italiano, del mondo del lavoro e della società del suo complesso, quindi, è frutto di un disastro culturale e politico prodotto da quarant’anni e oltre di arretramento delle lotte di classe e della disgregazione del tessuto politico che fino alla fine degli anni ’70 aveva tenuto testa alla ristrutturazione capitalistica.
Se ci si vuole interrogare davvero su quello che sta accadendo nel nostro Paese, quindi, bisogna riflettere su quanto avvenuto in questi ultimi quarant’anni e sullo stato di agonia delle organizzazioni di classe e dei movimenti sociali, di cui il silenzio sui temi della sanità è uno degli aspetti.
All’indomani della riforma 833 del ’78 che istituiva il Servizio sanitario nazionale (Ssn) dopo un decennio di lotte di classe di intensità inaudita, si è avviato un immediato processo di controriforma, all’interno di un piano complessivo di ridimensionamento delle conquiste operaie del «decennio rosso», operato dalle classi egemoni italiane all’indomani della sconfitta di Mirafiori del 1980. La riforma del ’78 rappresentava un indubbio punto di svolta per le politiche di salute nel nostro Paese e sarebbe dovuta diventare la pietra angolare di un processo di evoluzione del servizio sanitario, in grado di rispondere in maniera dinamica alle esigenze di una popolazione in transizione demografica ed epidemiologica. Quel punto di svolta rappresentava una faglia che andava chiusa perché avrebbe significato investimenti continui, da stornare da altre voci di bilancio più redditizie e così a partire dal 1980 le classi dirigenti italiane si sono adoperate con ogni mezzo per azzerarne il portato. È evidente, quindi, che se la riforma 833 nasceva dalla spinta delle lotte di classe, l’attuale disgregazione delle organizzazioni di base e dei movimenti sociali è il vero responsabile del grande sonno in cui versa il dibattito sulla salute (e non solo) in Italia.
In questo senso solo un rinnovato protagonismo di queste organizzazioni può incidere in maniera significativa su quella che sembra un’agonia irreversibile e confidare, invece, in una iniziativa riformatrice guidata dagli «addetti ai lavori» significa confondere il ruolo dei tecnici con quello della direzione politica dei processi.
Che questo sia il nodo, del resto, lo dice la storia stessa della medicina, durante la quale i momenti più alti sono stati quelli in cui il protagonismo della «soggettività del servo» ha prodotto una filosofia del mondo e una dimensione storica all’interno delle quali le scienze, come prodotti storico-sociali, si avvicinavano alle reali esigenze umane. Pensiamo alla Rivoluzione francese e a tutte le esperienze storiche in cui l’emergere di questa soggettività ha spinto la medicina ad abbandonare il suo carattere esclusivamente «assistenziale» e perdere il suo aspetto di razionalizzazione e controllo per diventare scienza al servizio degli esseri umani.
Dalla Russia dei Soviet al Viet Nam della «medicina al servizio del popolo», dall’America Latina dell’esperienza di Allende fino alla rottura rivoluzionaria degli anni Settanta italiani, dentro cui matura un’esperienza della medicina sociale di grande rilievo. Questi esempi, nobili e purtroppo lontani, testimoniano che solo quando «i servi», sani o malati, si organizzano ponendosi di fronte alla scienza con l’esigenza che ne siano controllate la finalità possono costringerla a mettersi al servizio di una collettività non più inerte e passiva.
Il rapporto della scienza con i problemi concreti dell’uomo, infatti, è sempre relativo al grado di pressione che gli oppressi esercitano e, nello specifico, la vicinanza o la distanza della medicina da essi coincide con il ruolo che occupano dentro l’organizzazione sociale, soggetti protagonisti oppure oggetti subordinati.
La direzione della medicina, l’organizzazione sanitaria e i suoi aspetti tecnici sono un riflesso dell’ordinamento sociale e la separazione della scienza dall’umano che andrà aumentando sempre più dalla fine del XIX secolo per diventare smisurata ai giorni nostri coincide perfettamente con ciò che diventa l’umanità nella società del dominio capitalistico: un insieme di soggetti espropriati del corpo in funzione della produttività.
Ecco perché è fondamentale che un nuovo dibattito non solo sull’organizzazione sanitaria ma sulla medicina e il suo ruolo cominci non tra gli scranni parlamentari e nemmeno all’interno delle società scientifiche ma dentro il corpo vivo della società e all’interno delle organizzazioni di base, anche per evitare che una serie di istanze pur giuste e comprensibili, come quelle espresse da una parte della società durante la crisi pandemica, siano abbandonate all’influsso mefitico degli algoritmi e al veleno dei social network.
A tale proposito l’insieme dei movimenti sociali deve cominciare con urgenza ad analizzare la complessità di questa fase storica ponendo come prioritaria la questione culturale e la necessità di una nuova alfabetizzazione dei movimenti sociali e delle organizzazioni di base sui temi della salute, della medicina e della sanità, per evitare che le mobilitazioni si riducano a un insieme di proclami generici senza sostanza politica che fanno il gioco del nemico.
Ripartire da questo è un punto necessario, per cominciare almeno a chiarire alcuni nodi teorici e pratici essenziali, in un rinnovato rapporto culturale e politico tra tecnici e organizzazioni che provi a rianimare il paziente, prima che sia troppo tardi.