Contiamo di nuovo i morti, le centinaia di frane, le decine di fiumi esondati, le migliaia e migliaia di sfollati e il corollario dei commentatori televisivi che indugiano su considerazioni oggettive sul cambiamento climatico. Per accattivarsi una opinione pubblica attonita, frastornata, priva di quei punti di riferimento che ha avuto fino a poco tempo fa, meteorologicamente parlando: fresco in primavera, caldo d’estate, freschetto in autunno e freddo in inverno.
Ogni rappresentazione artistica delle stagioni appartiene al passato. L’oggi è in continuo mutamento. Veloce e irreversibile. La sabbia della clessidra è quella del deserto, ed anche quella delle nostre spiagge erose, di un tempo che divora il tempo stesso, che ci avvicina ad un punto di non ritorno senza che si intraveda un impegno fattivo di governi e imprese per invertire la rotta, per smetterla con il carbone, con gli allevamenti intensivi, con le deforestazioni, col consumo del suolo, con le cementificazioni, con l’impoverimento dei mari, con l’inquinamento dell’aria.
Quando i giovani di Ultima generazione denunciano tutto questo, con metodi che sono certamente opinabili e criticabili, vengono scherniti, irrisi, presi a male parole e tacciati di essere dei nullafacenti sognatori che vogliono cambiare un mondo irrimediabilmente compromesso. Per cui non si capisce fino in fondo se sia la rassegnazione a guidare le critiche aspre e l’odio che ne trasuda, oppure se la voluta ignoranza del problema ecologico, del dramma climatico e del mutamento ecosistemico siano ormai parte di un negazionismo autoconsolatorio o psicoanaliticamente assolutorio.
Invece di ascoltare il grido di dolore di quella che magari non sarà proprio l’ultima ma certamente una delle ultime generazioni a vivere ancora in condizioni di sopravvivenza sul pianeta, si fanno spallucce, ci si prende gioco di un impegno civico, civile, cultura e sociale che è a dir poco encomiabile e si riduce l’attivismo di queste ragazze e questi ragazzi ad un capriccio ideologizzato, ad un estremismo privo di senso, accusandoli persino di essere fascisticamente prepotenti, perché, a detta dei soloni televisivi e internettiani, pretenderebbero di imporre la loro visione del mondo.
Nonostante ci si possa rassicurare vicendevolmente e si trovi un qualche conforto nelle ipotizzate politiche di transizione ecologica, nelle promesse che i grandi agglomerati di Stati e di poteri economici si elargiscono per ridurre le emissioni di gas serra, per evitare un surriscaldamento di Gaia che, a quanto riferisce l’Organizzazione meteorologica mondiale, è destinato periodicamente a salire di 1,5° e a determinare quindi sconvolgimenti molto più vistosi ed impattanti di quelli che fino ad ora ci hanno descritto un quadro piuttosto inquietante del cambiamento climatico.
L’impressione è che la consapevolezza dei rischi sia ancora troppo bassa e che, appena passata l’iconica tragicità di fatti come quelli avvenuti (e tutt’ora in corso) in Emilia Romagna, appena una notizia ne sostituisce un’altra, si ritorni a considerare il tutto come endemico, parte di un mutamento strutturale, abituandoci ad una tropicalizzazione del clima e assecondando ancora una volta una politica incapace di tutelare il suolo, le acque, di limitare l’antropizzazione a tutti i costi, di reputare il rapporto tra esseri umani e animali non umani come ambivalente e non osservare gli eventi solo dal punto di vista umano.
Le storiche organizzazioni che si battono per la tutela dell’ambiente, del patrimonio, della vita di tutti gli esseri senzienti, hanno denunciato sempre per tempo le eventualità a cui si andava incontro con una spinta sempre maggiore sul fossile, con lo sfruttamento delle risorse naturali, con la produzione indiscriminata di animali da allevamento intensivo. Un consumo esponenzialmente enorme di risorse idriche, un inquinamento altrettanto tale, un disprezzo per la vita e il dolore di miliardi di esseri viventi al solo scopo di alimentare un mercato della carne (e quindi anche dei pesci) che ha arricchito le multinazionali a scapito della salute di ognuno e di quella del pianeta.
Noi facciamo finta di ritenere che lo sbancamento delle colline, l’erosione delle spiagge, lo scioglimento dei ghiacciai e tanti altri fenomeni di impoverimento ecologico non riguardino affatto lo stile di vita complessivo che adottiamo. Ed invece ci sbagliamo. Quello che consumiamo è il primo passo per un attacco costante alla sostenibilità delle nostre esistenze e di quelle di miliardi e miliardi di altri esseri viventi.
Noi pensiamo che la tragedia dell’Emilia Romagna sia soltanto il frutto di un impazzimento del clima (ci piace tanto utilizzare termini come questi che marcano una distanza tra noi e il problema), di una perturbazione depressionaria che ha deciso di sorvolare i nostri cieli con più ostinazione rispetto ai consueti fenomeni pluviali, di una precipitazione inconsueta di centinaia di millimetri di pioggia e limitiamo la critica ad una necessità di adeguamento delle legislazioni a fenomeni che la scienza ci dice si manifesteranno con sempre maggiore costanza.
La prevedibilità, preziosa per mettere in sicurezza almeno la popolazione, per preservare tutto ciò che è possibile e tutelare al massimo le comunità che si trovano coinvolte, è indubbiamente un vantaggio che però rischia di essere vanificato da una visione miope delle ragioni fondanti di una crisi ecologica che è crisi sistemica, generata da un capitalismo insopportabile, innaturale sotto tutti i punti di vista.
Va messo quindi in discussione una volta per tutte quello che viene definito “il modello economico e sociale“. E a livello globale, perché è impensabile ragionare per settorialità locali, immaginando che ci si possa isolare dal resto del mondo. Il fallimento del liberismo si può anche negare e si può far finta che il sistema capitalistico abbia in sé le capacità di autocritica tale da limitarsi e da convertirsi in una società diversa, dove il profitto non sia più al centro della produzione di ricchezza, dove finalmente sia l’interesse sociale e pubblico a dinamizzare l’economia e a soddisfare i bisogni umani, quelli animali e della natura.
Ma questa favoletta può esserci raccontata appunto dai capitalisti stessi, dai loro sostenitori politici, da partiti e forze che hanno interesse alla conservazione di un regime irriformabile. Perché? Perché è nella sua natura essere vorace, divoratore di ogni valore esprimibile attraverso la lavorazione delle materie prime, mediante lo sfruttamento della forza-lavoro umana, utilizzando tutto ciò che gli capita a tiro. Se la crisi climatica ci mostra i suoi terribili effetti alterando gli equilibri naturali, quella economica ci dimostra ancora una volta di essere parte del problema e non un semplice effetto collaterale.
Gli interventi che il governo Meloni intende mettere in campo per lenire il disagio economico e sociale di una intera popolazione locale saranno utili solo nel breve e medio periodo senza una vera e propria programmazione alternativa di politiche che riguardino la riconsiderazione del rapporto tra ambiente ed economica, tra ambiente e comunità, tra ambiente e consumo. Le belle parole se le porta il vento e, purtroppo, governi come quello delle destre (ma pure di sinistre acquiescenti nei confronti del mercato e del capitale) sono intrinsecamente rivolti all’indietro, ad un modello di sviluppo devastante e devastatore.
Non ci si può attendere nulla di veramente risolutivo da chi vede le “grandi opere” come elemento di modernizzazione del Paese, mentre gli argini dei fiumi anche più piccoli si rompono sotto l’irruenza delle acque, mentre a poche centinaia di chilometri il vecchio Po rimane in secca e minaccia, al pari dei suoi fratelli minori esondanti, tutta una agricoltura che, a quanto pare, si è estesa troppo, partecipando indirettamente alla catastrofe che osserviamo mestamente e con un grande senso di impotenza.
L’impermeabilizzazione del suolo è una delle ragioni che oggi sono tra le prime responsabili degli allagamenti di interi comuni, della sommersione di vaste aree antropizzate nel corso dei secoli. Fino a mezzo secolo fa, quando lo sviluppo economico era immaginato come motore di una nuova economia italiana ed europea del dopoguerra e il clima era ancora simile a quello vissuto dai nostri bis e trisnonni novecenteschi (e di fine Ottocento), la parola “sostenibilità” poteva avere un significato compiuto aderente ad una realtà che cercasse un compromesso tra capitalismo e difesa dell’ambiente.
Oggi questo tentativo di compenetrazione e di convivenza è irrimediabilmente compromesso. E non per colpa di qualche bizzarra bislaccheria comportamentale delle leggi di natura. La responsabilità è tutta quanta di un capitalismo irriformabile, incontrovertibile e incompatibile con la vita tutta sul pianeta. Non solo noi animali umani ci stiamo trasformando nell’”ultima generazione“, ma la prospettiva dell’estinzione è già una realtà per tanti abitanti degli oceani, per molti animali terresti e per tanti volatili.
E così è per il regno vegetale: piante secolari e millenarie muoiono senza che ce ne accorgiamo e ci facciamo tutti più poveri pensando di essere sulla breccia dell’onda sviluppista di un modernismo senza confini. Ogni energia prodotta con il consumo di combustibili fossili è devastante al pari di una produzione atomica le cui scorie si perderanno nella notte di un futuro senza vita sulla Terra. Ogni irrisione del problema e ogni tentativo negazionista sono dei veri e propri crimini contro noi stessi e contro la casa che ci ospita.
Di tutta l’umanità esistita nel corso dei millenni, da quando i sapiens sono diventati i padroni del mondo prima conosciuto e poi intero, oggi noi siamo solo il 6/7%. Una percentuale consistente se si pensa che ci riferiamo ad un arco temporale di duecentomila anni circa. Anche per questo la nostra responsabilità dovrebbe essere maggiore rispetto ai terrestri del passato. Per numero e per qualità dell’esistenza. Con le capacità scientifiche dell’oggi noi dovremmo essere in grado di garantire un futuro davvero migliore a chi vivrà dopo noi.
Invece, siamo i protagonisti di una lacerazione spaventosa tra sapiens e natura. Siamo l’origine della distruzione di una terra, di un mare, di un’atmosfera e di una natura tutta che ci sono dati in prestito e che dovremmo lasciare alle generazioni che verranno quanto meno intatte, così come le abbiamo ereditate. Un modo di dire ormai. Un modo di dire che rischia di abbandonare il plurale ed essere ridotto ad un singolare davvero inquietante: quello dell’ultima generazione.
MARCO SFERINI