Il giorno dopo dovrebbe essere quello della presa di consapevolezza della titanica conta dei danni: fisici, materiali, psicologicamente umani, animali, materialmente economici e strutturali.
Invece, il giorno dopo è quello dei droni che sorvolano i quaranta e più comuni romagnoli completamente alluvionati, le oltre quattrocento frane che hanno sbancato intere colline, lasciato senza terra sotto le rotaie le ferrovie, fatto crollare ponti e strade. Non si è salvata nemmeno l’autostrada.
Nelle zone dove l’acqua ha superato i due metri e mezzo di altezza, tutto quello che ha incontrato lo impoltigliato nel fango, distruggendo, uccidendo quattordici persone, imbrigliando la vita di metà della regione nella pesantezza morale e materiale di una massa di detriti che sono le cicatrici aperte sulla fragilità di un territorio tra i più a rischio di eventi come quelli che si sono presentati in forma di maltempo e che, invece, sono la manifestazione oggettiva del cambiamento climatico in essere.
L’Emilia Romagna, le Marche, la Sicilia prima, ma anche altre regioni come il Veneto, il Piemonte, la Liguria: tutte hanno conosciuto nel corso degli ultimi decenni vere e proprie mutazioni geofisiche a seguito di smottamenti, deviazioni di canali, torrenti, fiumi, allagamenti di città e campagne, erosione delle spiagge, scivolamenti a valle di intere porzioni di colline, valanghe apparentemente improvvise che hanno ucciso decine di escursionisti.
Caldo e freddo si alternano con una escursione delle temperature che ha messo da parte quelle mezze stagioni di cui ogni tanto si favoleggia come se fossero più che altro parte di una proverbialità comune, piuttosto che un altro sintomo eclatante del mutamento del clima, di una nuova era ambientale, ecosistemica del pianeta intero.
Il problema è, appunto, globale perché riguarda quel tanto citato “modello di sviluppo” che non trova punti di compatibilità con l’ambiente, che non è in grado di essere sostenibile e che, quindi dovrebbe essere messo in discussione senza troppi infingimenti.
Ma la parola “capitalismo” o “anticapitalismo“, o anche soltanto una critica del liberismo moderno, sono argomenti impronunciabili in televisione: chi osa chiamare col suo nome il sistema in cui sopravviviamo ogni giorno, viene apostrofato con l’accusa (ammesso che possa esserlo) di ideologizzazione dei temi trattati, di sviamento dalla vera e propria natura del problema. E’ importante che almeno si parli con un accento sempre più rilevante e critico del mutamento climatico.
Ma sarebbe altresì importante che lo si associasse alle cause che lo hanno prodotto. E la prima di queste cause è il modo in cui viviamo noi animali umani rispetto al resto della vita sul pianeta: sia nei confronti degli animali classicamente ed impropriamente intesi come qualcosa di separato dall’”umanità“; sia nei confronti dell’ecosistema, della Natura come madre e non come matrigna, dell’Ambiente con la a maiuscola.
Il capitalismo, che ha tra le sue prerogative quella di sfruttare incessantemente tutte le risorse possibili per garantire l’accumulazione dei profitti da parte di un pugno di esseri umani rispetto ai quasi otto miliardi che abitano i cinque continenti, deve essere considerato incompatibile con la vita e con l’esistenza di ogni forma vivente, di ogni ambiente.
Invece di rivoluzionare il punto di vista socio-economico davanti all’oggettività degli eventi catastrofici che investono molta parte del globo, i cosiddetti liberali che si mostrano critici nei confronti della torsione iperliberista del capitale.
Avanzano al più dei correttivi sovrastrutturali, lasciando intendere che bastano degli interventi locali per ridimensionare l’impatto dei fenomeni atmosferici, di quelli marini, delle concause che determinano sempre più malattie gravi e diffuse, dello scioglimento dei ghiacciai e dell’estinzione di molti animali ad ogni latitudine e longitudine.
I rendez-vous delle grandi potenze hanno prodotto in questi ultimi trent’anni protocolli di intesa che sono stati in larghissima parte disattesi. Gli investimenti nazionali, e dei grandi poli del capitalismo mondiale, hanno seguito la direzione dell’incentivazione del riarmo, della messa in sicurezza di uno Stato nei confronti di un altro, della predisposizione a ridisegnare la mappa di un moderno colonialismo imperialista dall’Asia all’Africa, dall’America Latina all’Est europeo.
I protocolli per la diminuzione progressiva delle emissioni di gas, per la denuclearizzazione e, quindi, lo smaltimento delle scorie nucleari su tempi futuri degni della macchina del viaggiatore di Wells sono irrispettabili per due ragioni di motivi: il disimpegno dei governi e la velocità con cui l’aggravarsi delle condizioni naturali avanza e supera le previsioni anche più pessimiste degli scienziati.
Il progresso tecnologico e quello della scienza medica fanno grandi passi avanti ogni giorno, eppure siamo rimasti tutte e tutti sorpresi da un evento come quello della pandemia da Covid-19 e il coronavirus è penetrato irruentemente nelle nostre angosciate esistenze sconvolgendo molto di più di qualche semplice abitudine. Ci ha irregimentato, costretto a ripensarci in spazi, tempi, luoghi, rapporti. Ha alterato ogni fisionomia sociale e l’ha resa subordinata all’emergenza costante e di cui si pensava di non vedere la fine prima di qualche anno.
Così è stato e, a dire il vero, nemmeno ora possiamo completamente dirci al sicuro da un rigurgito pandemico o da una nuova minaccia virologica.
E’ veramente illuminante constatare come ad una efficienza sempre maggiore delle nostre menti e delle nostre potenzialità di risoluzione dei problemi che minacciano la nostra (e le altre) specie, non corrisponda una risposta dei governi e del capitalismo uguale, ma solamente contraria. Tecnologia e scienza sono asservite alle ragioni del profitto e obbediscono, in larga misura, a questa illogicità antisociale, incivile, di nocumento per l’interesse collettivo e generale.
Scrive a questo proposito David Harvey nelle sue preziose “Cronache anticapitaliste“, riprendendo gli studi di Marx:
«Quando immaginiamo il processo di innovazione tecnologica, in genere pensiamo a qualcuno che fa una certa cosa e cerca un miglioramento tecnologico per il suo settore. Il dinamismo tecnologico, cioè, è specifico di una particolare fabbrica, un particolare sistema di produzione, una particolare situazione. Ma si dà il caso che molte tecnologie in realtà passino da una sfera di produzione all’altra. Diventano generiche. Per esempio, la tecnologia informatica è disponibile a chiunque voglia usarla, per qualsiasi scopo»
e così anche per le tecnologie che riguardano l’automazione, il movimento, la mobilità in generale. Un tipo di innovazione non rimane mai relegata nel suo stretto ambito, quello in cui ha visto la luce, quello in cui per prima è stata messa al servizio.
Questa capacità espansiva globale del miglioramento delle condizioni produttive, e quindi di generazione della ricchezza, dovrebbe essere un fenomeno di accrescimento planetario delle conquiste singole. Invece di essere patrimonio comune dell’umanità, qualunque scoperta e qualunque miglioramento tecnologico, scientifico e medico diventano oggetto di scambio, merce intrinsecamente intesa nel sistema dell’accumulazione dei profitti.
Se ancora oggi, come notava Marx ai suoi tempi, esiste una certa autonomia creativa nelle scoperte, siano esse di meccanica, di fisica, di ingegneria, di architettura, di medicina, eccetera eccetera, l’attimo immediatamente successivo è già l’ingresso di queste innovazioni nella morsa dei brevetti e, quindi, della sottrazione di esse al benessere sociale per ricondurle nell’alveo della concorrenza mercatista, dello sfruttamento delle idee e dei loro prodotti a fini meramente privati.
Lo stesso ragionamento lo può trasferire sul piano della sovrastruttura politica, quella dei governi che obbediscono alle direttive del capitale e della grande finanza: la cura dei territori è vincolata all’interesse privato, a quanto può rendere la speculazione dopo un terremoto, dopo un’alluvione, dopo uno tsunami che si abbatte sulle coste, dopo la rottura di una di quelle dighe che sommergono le vallate dopo aver impedito alla natura di esprimersi, per l’appunto, naturalmente.
Le contenzioni che, nel nome della modernità antropizzante, abbiamo messo dentro le porzioni più piccole dei nostri territori, oggi saltano una dopo l’altra e si sommano al mutamento climatico imponente, ad una irreversibilità dell’aumento delle temperature, ad uno stravolgimento di uno stile di vita cui eravamo abituati ancora quarant’anni fa e che, ormai da qualche lustro, non è non sarà più lo stesso.
Le crisi economiche e finanziarie registrate nel biennio 2007-2008 non hanno riguardato soltanto aspetti legati alla stabilità di grandi gruppi azionari, di aziende medie e di banche dedite alla speculazione tout court. Il salvataggio del capitalismo globale ha avuto come conseguenza, tanto negli USA quanto nella emergente potenza cinese, un aumento dell’inquinamento globale: l’esponenzializzazione produttiva ha spinto il gas serra a livelli superiori ai 400 ppm.
Il riassorbimento dell’anidride carbonica è uno dei problemi irrisolti. Il carbonio estratto rimane al di sopra del suolo, veleggia nell’aria, fa ammalare noi e gli animali, impoverisce le colture, inquina e contribuisce al deperimento delle risorse.
Riportare a livelli di pre-allarme questa situazione è una sfida che i movimenti ambientalisti, soprattutto quelli animati da molti giovani che hanno una limpida coscienza dei grandi temi ecologici del nostro tempo (e del futuro immediato…) si pongono come punto di partenza per una riconversione ecologica tanto della macroeconomia quanto dei comportamenti individuali quotidiani.
Ci sono delle soluzioni veramente naturali da mettere in pratica. Soluzioni che non richiedono grandi investimenti, visto che questa è la costante preoccupazioni dei capitalisti e dei grandi finanzieri: la riforestazione è una di queste. Riforestazione vuol dire proprio questo: nuove foreste e non semplicemente piantare qualche ettaro di alberi per avere la coscienza pulita davanti ai propri elettori.
Ugualmente, quando si parla di “transizione ecologica” si dovrebbe intendere compreso in questa locuzione un piano strutturale che riguardi davvero ogni aspetto della vita di una comunità locale tanto quanto quello più ampio della comunità nazionale.
Una interazione tra bisogni singoli e collettivi, tra centro e periferia, tra città e territorio collinare, boscoso, montuoso (l’Italia è prettamente un paese rispondente a queste caratteristiche geologiche) sta certamente alla base di una ridefinizione dei ruoli reciproci tra cittadini, istituzioni e centri produttivi.
Lavoro e ambiente devono poter convivere, mentre il profitto e la tutela della vita sulla terra sono manifestamente incompatibili. La valorizzazione del lavoro, dunque, è condizione imprescindibile, unitamente a quella della preservazione dell’ecosistema, per un nuovo modello di sviluppo. Un modello che vada oltre il capitalismo distruttore del pianeta, responsabile a monte di tutte le tragedie ambientali che ci piovono o ci tracimano addosso.
MARCO SFERINI