La disfatta di Syriza e, al contempo, l’affermazione oltre ogni previsione sondaggistica ed ogni exit poll del partito del premier greco uscente Kyriakos Mītsotakīs, sono in egual mondo una sorpresa e un allarme. La prima perché ci sia attendeva, dopo il ruolo di forza di ritrovata opposizione (per forza, più che per volontà), che la Coalizione della Sinistra radicale potesse recuperare un consenso perso soprattutto tra le classi popolari, tra i più indigenti e tra i più colpiti dalle avvisaglie di una nuova fase recessiva che, anche nell’Ellade, sta per tornare con una certa virulenza.
Il secondo perché dà una certa conferma di una tendenza europea, ed anche trancontinentale, che vede le destre e le forze di centrodestra prevalere rispetto a quelle progressiste per narrazione della crisi e per proposte di soluzione della stessa.
Proposte che, nemmeno a dirlo, sono peggiorative di un quadro sociale ampiamente compromesso da interventi che ricalcano, in tutto e per tutto, quel memorandum di cui si rese responsabile proprio il governo di Tsipras e che, a quanto pare, proprio i moderni proletari e gli indigenti più percossi dal liberismo non gli hanno perdonato.
Nea Dimokratia distacca Syriza di venti punti in percentuale, fa il pieno di consensi anche nelle vecchie roccaforti rosse (un esempio piò essere Creta) e ottiene una maggioranza relativa che fa presupporre una vittoria in termini assoluti nel ritorno al voto il 25 giugno prossimo, quando per avere una maggioranza in grado di cambiare la costituzione ellenica bastera una percentuale di voti inferiori a quella ottenuta in questo “primo turno” tutto proporzionale.
La crisi economica, dunque, non diventa automaticamente una dimostrazione del fallimento delle politiche liberiste portate avanti dalle destre. Non produe un effetto di contrarietà alle lacrime e sangue imposte ai poveri, al guardare alla Troika una ennesima volta con l’atteggiamento caritatevole di chi va in cerca delle briciole lasciate ai paesi più indigenti dell’Unione, spremuti a dovere ben prima di questa chiamata alle urne.
La crisi economica produce, invece, l’effetto diametralmente opposto rispetto ad una risposta sociale, di critica di classe, di opposizione netta ai dettami del grande capitale e dell’alta finanza. La propaganda della destra fa il suo corso e si salda ad una serie di misure xenofobe e razziste, di contenimento dell’immigrazione e di salvaguardia di un pauperismo tutto quanto nazionale ed autoctono che sembra diventare il nervo saldo, oltre che scoperto, di un paese in rotta.
La Grecia ha perso fiducia in una sinistra anche socialdemocratica o moderata come quella di Syriza di cui, dati alla mano, non si fidano le aree più centrosinistre, che tornano a votare quel Movimento Socialista Panellenico che riprende fiato, che evita al momento la fine ingloriosa del socialismo francese.
Ma Syriza, sulla scorta dello scontento popolare, di quei 600.000 voti perduti ne conta almeno 200.000 andati in direzione dello stalinista Partito Comunista di Grecia (KKE), percepito come rigorosamente coerente nell’opporsi ad ogni manovra liberista tanto della UE quanto della politica di governo interna.
Un travaso di voti che non premia la proposta dell’ex ministro dell’economia Gianīs Varoufakīs, il cui Fronte della Disobbedienza Realistica Europea racimola una percentuale pari al 2,6, persino inferiore a quella delle formazioni della galassia dell’estrema destra neofascista e neonazista.
Segno, questo, che la saldatura tra classe sociale e proposta sociale si è fratturata, scomposta: i giovani non rispondono all’incertezza sul loro futuro con una scommessa anche soltanto di stampo neokeynesiano, ma con la ricerca di una sorta di stabilità dettata soltanto dalla continuità col precedente governo.
Il nuovo spaventa, aggiunge incertezza ad incertezza e i fenomeni globali inquietano quel tanto per aderire alle soluzioni conservatrici e reazionarie di chiara matrice nazionalista e xenofoba. Mītsotakīs non viene scalfito dagli scandali di governo, dagli interventi strutturali antisociali e nemmeno dalla tragedia di Tempi, quel disastro ferroviario che causò cinquatasette morti appena dopo le dichiarazioni del ministro delle infrastrutture sulla assoluta certezza della sicurezza dei trasporti in Grecia.
Eppure nemmeno quel ministro è stato punito dal voto. Siccome è impossibile ritenere che milioni di greci siano divenuti improvvisamente autolesionisti, così ciechi da non vedere i risvolti antisociali degli interventi del governo di Nea Dimokratia, una delle spiegazioni possibili tanto del successo delle destre quanto della disfatta a sinistra sta nel contesto europeo e globale e negli effetti di una propaganda che trasmette solo paura, insicurezza e incertezze che, tuttavia, sono oggettive, reali anche se ampiamente ingigantite dalle forze di governo.
Non è possibile minimizzare il contesto e farlo vorrebbe dire dare adito ad una soddisfazione meramente ideologica, tutta autoreferenziale di una sinistra che persevera nell’errore e che non tiene in debita considerazione tutte le implicazioni di un mutamento anche culturale della società. Un dato non secondario a cui va dato ampio risalto nell’analisi complessiva di un rigurgito nazionalista e conservatore che pervade la vecchia Europa da ovest ad est, da nord a sud e che non tralascia di insinuarsi nei meandri del potere americano.
Guerra e migrazioni hanno si sono imposte su una agenda politica che ne ha approfittato per impoverire e impaurire, per costringere la popolazione a scelte emergenziali e alla loro proroga: Nea Dimokratia vince ancora più largamente e distacca Syriza ben oltre i venti punti in percentuale nazionali laddove sono stati costruiti i reticolati antimigranti; là dove la marginalità è regola e la vicinanza del mare si fa sentire attorno al grande arcipelago ellenico.
In buona parte d’Europa, ed ovviamente in Italia, gli effetti di questa regressività politica tendono a consolidarsi, saldando l’idea e la pratica di uno Stato forte con i capisaldi del liberismo continentale. Politiche di austerità e poltiche repressive, escludenti, in netta controtendenza rispetto alle costituzioni democratiche, sociali e solidali venute dopo le guerre e le dittature militari, oggi sono quel piano di equilibrio su cui il capitalismo scommette per affrontare la crisi multipolare e multistrato che non accenna a diminuire.
Il fatto che vi siano delle affinità ideologiche, dei revanchismi neofascisti o, in generale, di stampo prettamente autoritario, nella concretizzazione delle controriforme ispirate da Bruxelles e Francoforte, finisce col non stupire più di tanto: per far digerire questo tipo di recrudescenza antistorica e inattuale ma, come è ne fatti, accolta dalla maggioranza (seppure relativa) degli elettori e, quindi, dei cittadini, bisogna presentare il tutto con una buona dose di pragamtismo.
La narrazione delle destre, infatti, è sempre ispirata ad una piena adesione alle alleanze internazionali, ad un presa in carico delle istanze imperialiste della NATO e degli Stati Uniti che combattono per qualcosa di più tragicamente importante della sicurezza e della libertà del popolo ucraino: un nuovo assetto mondiale che garantisca all’occidente capitalistico di preservarsi rispetto all’avanzata asiatica, alle proteste dell’America Latina, ai sussulti africani e alla ribellione russa alle prepotenze dell’Alleanza Atlantica.
Si tratta di imperialismi di varia natura che si scontrano, come placche tettoniche, come continenti alla deriva ma convergenti fra loro in una nuova pangea di cui bisogna stabilire chi sarà il dominatore e l’egemone a tutto spiano.
Il voto greco, dunque, sorprende per l’enorme perdita di consenso subita da Syriza, ma si attaglia perfettamente a questo schema tripolare, dando all’Europa quel messaggio che le istituzioni della Troika volevano sentirsi dire: non ci saranno tentativi nemmeno moderatamente neokeynesiani di fermare i prelievi da chi è già stato dissanguato a più non posso e non ci saranno, quindi, critiche all’attuale conduzione della fortezza dei ventisette. Un avamposto americano e atlantico ai confini dell’imperialismo putiniano.
Un teatro di guerra che va oltre i confini dell’Ucraina. La Grecia, basta guardare una semplicissima carta geografica, è proprio lì sotto: tra l’eterna instabilità balcanica e i paesi di Visegrad da un lato, il mortifero Mediterraneo sotto i suoi piedi e la guerra poco sopra dall’altro lato.
La sinistra in queste condizioni poteva prevalere? La risposta l’abbia già, ma la retorica della medesima ci dice che dobbiamo continuare a cercare delle soluzioni per essere all’altezza delle crisi in cui sopravviviamo e in cui, soprattutto, sopravvivono milioni e milioni di poverissimi…
MARCO SFERINI