Difficile ricordare periodi storici in cui il concetto di libertà è stato strapazzato e invocato a sostegno dei più svariati interessi e diritti, spesso contrapposti, come in questi ultimi anni. Alla riflessione sul complesso rapporto tra libertà e democrazia è stata del resto dedicata l’ultima edizione di Biennale democrazia durante la quale sono stati messi in luce gli abusi che possono essere commessi in nome della libertà, evidenziate le sue frequenti strumentalizzazioni, i suoi ambigui rapporti con l’eguaglianza, approfondite le sue relazioni con principi “parenti” quali l’emancipazione, l’autonomia, l’autodeterminazione, la scelta. Princìpi, questi ultimi, attorno a cui ruota da sempre il pensiero femminista che si rinnova costantemente e che appare oggi quanto mai ricco, articolato e, soprattutto, assai diviso e frammentato.
In particolare, negli studi di genere attuali si rintracciano elementi che ricordano da vicino il femminismo cosiddetto emancipatorio, volto a liberare la donna da una situazione di discriminazione lottando per il godimento dei diritti civili in condizioni di parità con gli uomini; posizionamenti che fanno ancora espresso riferimento al femminismo spesso definito come “radicale”, ma meglio declinabile come femminismo della differenza, impegnato a far emergere la soggettività femminile e quindi a liberare la donna dalla gabbia dell’assimilazione al modello maschile; ancora, più di recente, attraversa i movimenti, l’associazionismo, l’accademia, la politica, il “femminismo della scelta” che si oppone, tacciandole di paternalismo (o forse maternalismo?), a tutte le politiche volte a limitare la possibilità delle donne di gestire il proprio corpo in totale autonomia, così invocando il diritto all’aborto, respingendo ogni divieto di porto del velo islamico, ma anche rifiutando regolamentazioni della prostituzione in senso abolizionista e normative che non contemplano la surrogazione di maternità tra le tecniche legali di riproduzione assistita. Il principio di libertà permea tutte le istanze di tutti i femminismi che ho qui (sicuramente in maniera eccessiva) sintetizzato e semplificato e in nome di questo principio la contrapposizione tra le diverse posizioni, teorie, pratiche si va facendo sempre più netta ed evidente, assumendo non di rado le forme dello scontro che rende impossibili forme proficue di dialogo. Le ragioni di questa polarizzazione non sono difficili da rintracciare: il confronto si va allargando e facendo serrato a causa delle attuali discussioni parlamentari sulle proposte legislative in materia di gestazione per altri in cui la divisione è spesso intrapartitica e in seguito ad alcune istanze riformatrici della legge Merlin di cui si è fatta portavoce pochi anni fa la Corte di appello di Bari nella ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità delle previsioni della legge n. 75 del 1958 sui delitti di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione per contrasto con il diritto di disporre liberamente della propria libertà sessuale ritenuto garantito dall’art. 2 Costituzione e con la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della stessa Costituzione. Non potrebbe la legge essere intesa come un inno alla libertà della donna di prostituirsi? E da questa non potrebbe derivare la qualificazione dell’accordo tra prostituta e cliente come contratto e l’attività dei favoreggiatori un’attività di mediazione lecita? La Corte costituzionale ha fornito la sua risposta negativa (sentenza n. 141 del 2109) ma l’emergere della figura della “escort” ha rilanciato l’idea della prostituzione non coattiva come lavoro e come espressione della libertà sessuale e della autodeterminazione femminile così tanto faticosamente conquistate.
Considerati i toni particolarmente accesi che caratterizzano l’attuale confronto pubblico riguardo l’uso “politico” del corpo femminile, scrivere di libertà rifuggendo da inganni ideologici e ipocrisie è impresa assai ardua. Con il saggio Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato, recentemente pubblicato da Bollati Boringhieri, Valentina Pazé ha compiuto con successo tale impresa, ponendosi l’obiettivo, subito dichiarato, di svelare le «nuove forme di sfruttamento, mascherate e giustificate nel nome della libertà» (p. 10) che si celano dietro patti firmati da individui che solo apparentemente sono liberi ed eguali. Obiettivo che mi pare pienamente raggiunto, nella misura in cui il volume costringe lettori e lettrici ad aprire gli occhi, ad alzare il tappeto per vedere la polvere che offusca il consenso delle donne che stipulano contratti di surrogazione di maternità (anche a titolo gratuito) o si impegnano a fornire prestazioni sessuali in cambio di denaro: insomma, nella misura in cui il suo pensiero critico arricchisce con preziose note di filosofia politica i termini di un confronto spesso aspro quanto sterile, forse anche perché condotto attraverso argomenti che poggiano su assunti talvolta troppo semplici e in cui l’analisi delle relazioni umane e tra i generi sembra incapace a coglierne certe complessità.
L’autrice entra nel dibattito femminista in punta di piedi, proponendosi come outsider: non menziona il patriarcato (se non riportando discorsi altrui), né a questo esplicitamente riconduce la legittimazione del dominio maschile sul corpo femminile e riduce al minimo indispensabile i riferimenti e le citazioni delle attiviste che attualmente animano il dibattito intorno ai problematici profili della autodeterminazione femminile. Ma, tuffandosi senza esitazioni nei meandri delle questioni più delicate e complesse affrontate da voci autorevoli dei diversi femminismi contemporanei riesce sempre a tornare a galla per indicare la via da seguire per trovare solidi argomenti spendibili nella presa di posizione sulle tre questioni attuali già accennate: libertà di prostituirsi; libertà di portare avanti gravidanze per altri; libertà imposta dai pubblici poteri di non indossare veli islamici.
Riguardo la prima, merita segnalare come la dicotomia tra esercizio della prostituzione necessitato dal bisogno economico o coattivo ed esercizio volontario viene attenuata, anzi azzerata. Un’operazione, questa, abilmente compiuta adottando il metodo femminista per eccellenza: dare credito e ascolto alle voci e alle esperienze delle donne. Così, l’autrice annota, considera e riporta le narrazioni delle diverse donne coinvolte in pratiche prostitutive, incluse quelle dell’associazione francese Les Putes che rivendicano la libera e consapevole scelta di essere sex-workers. Al contempo, però, promuove, richiamando l’analisi di Foucault e Deleuze sulla attendibilità della verità soggettiva, una pratica di ascolto non passiva, ma attenta a ricordare che «oltre alle verità dichiarate, declamate, esibite, esistono verità nascoste, talvolta confinate in spazi inaccessibili alla coscienza, con cui ogni teoria degna di questo nome dovrebbe cercare di fare i conti» (p. 64).
Le categorie marxiane, sullo sfondo del volume intero che ha come fil rouge l’indagine sui modi con cui le donne sono oppresse attraverso i sistemi del capitalismo e della proprietà privata, diventano protagoniste del capitolo dedicato alla surrogazione di maternità. E pazienza se Marx, in fondo, si era limitato a criticare l’ordine patriarcale solo nella misura in cui contribuiva a sorreggere l’istituzione familiare borghese, senza addentrarsi nelle dinamiche di genere e tralasciando la questione dello sfruttamento del lavoro non salariato, in primis di quello riproduttivo. Il richiamo al marxismo, alla «imprescindibilità del ricorso alla legge per impedire ai lavoratori di vendersi volontariamente al capitale» (p. 108), infatti, funziona bene, per avversare «la mercificazione dei “servizi gestazionali”» (p. 109), per ridimensionare la distinzione tra surrogazione di maternità a scopo di lucro e surrogazione solidaristica che proprio non convince, sia per i condizionamenti culturali che possono minare la libera scelta della donna, sia per la difficoltà di qualificare come dono una gravidanza portata avanti per realizzare il progetto procreativo di altri senza compenso, ma secondo le regole imposte in via contrattuale.
Insomma, molti sono gli stimoli intellettuali disseminati nelle pagine del libro che lettrici e lettori possono cogliere per districarsi in questioni delicate di estrema attualità e, magari, per prendere posizione avendo più elementi a disposizione sui quali ragionare e fondare il proprio convincimento. Personalmente, ringrazio questo libro perché mi ha offerto un argomento eccellente per spiegare la solo apparente contraddittorietà di chi, come me, condivide con l’autrice posizioni favorevoli agli interventi statali restrittivi della prostituzione e della surrogazione di maternità ma, al contempo, il sospetto verso l’ingerenza nella vita privata delle donne che scelgono di coprirsi il capo magari anche in nome di tradizioni religiose e culturali intrise di patriarcato. Il capitolo dedicato alla articolata critica agli interventi legislativi francesi che, in bilico tra ossequio alla laicità e islamofobia, hanno progressivamente esteso a più ambiti il divieto per le donne musulmane di indossare i diversi tipi di copricapo, si chiude infatti con un richiamo alla classificazione dei diritti fondamentali di Ferrajoli, volto a evidenziare come dietro alcuni diritti spesso concepiti come libertà da proteggere da qualsivoglia interferenza statale si celano poteri economici privati dal cui esercizio possono derivare inasprimenti delle disparità e delle gerarchie (anche di genere), in barba all’obiettivo della eguaglianza sostanziale posto a fondamento delle liberaldemocrazie contemporanee. Così, «limitare diritti-poteri, come il diritto di stipulare contratti (anche nel caso di soggetti imprenditori di sé stessi) è ben diverso dal limitare diritti-facoltà, come la libertà di espressione, sia essa esercitata tramite la parola, la scelta di un capo di vestiario o altri comportamenti di per sé privi di carattere offensivo» (p. 137).
L’indagine sulla libertà è condotta da Valentina Pazé attraverso gli strumenti della filosofia antica e del pensiero politico moderno e contemporaneo, ma non senza intessere un dialogo proficuo con altre scienze sociali: così, il profilo giuridico delle problematiche trattate emerge inevitabilmente e consapevolmente. Ecco, allora, che il volume non esaurisce il suo scopo – che pure basterebbe – di fornire a chi legge gli strumenti culturali idonei a comprendere le complessità di questioni di estrema attualità che occupano uno spazio rilevante nell’agenda politica italiana, europea e internazionale. Va oltre, implicitamente suggerendo una politica legislativa in materia di disciplina della pratica prostitutiva, della gestazione per altri, del porto del velo islamico che non tralasci una riflessione accurata sui diversi interessi coinvolti e, soprattutto, un approfondimento sulle implicazioni di genere (femminile) che ogni soluzione finirebbe per avere. Lo strumentario che offre l’autrice è ricco e a disposizione: lecito è però, ahimè, dubitare del suo utilizzo nell’attività politico-legislativa dell’immediato futuro