Don Lorenzo Milani, di cui ricorre oggi il centenario della nascita, ha avuto nel corso della sua esperienza di uomo e di prete, quindi laica e pastorale al tempo stesso, un concetto molto alto della preservazione delle istituzioni democratiche. Lo ha iniziato ad avere, e lo ha mantenuto ed insegnato per tutta la vita, quando la sua fede religiosa ha fatto il paio con una coscienza civile, democratica, antifascista e antimilitarista.
Una coscienza di pace, di altruismo, di soldarietà sociale, di condivisione dello spirito evangelico dell’eguaglianza con quello costituzionale della comune condivisione dei diritti oltre che dei doveri. L’esatto opposto di quello che oggi la destra sta mettendo in pratica da Palazzo Chigi.
Non c’è ambito di vita quotidiana, tanto del singolo quanto della collettività nel suo insieme, che non sia toccata da una riconversione dei valori repubblicani, comuni e costituzionali nell’esatto opposto.
L’universalità dei princìpi diventa parzialità ideologica di una politica antistorica, revisionista, beceramente ancorata ad una visione del tutto etico-fideistica della persona, della famiglia, delle istituzioni e, così, a scascata si riflette e si riverbera sui servizi fondamentali per la tutela di ognuno di noi e di tutti: dalla sanità alla scuola, dal lavoro ai diritti acquisiti dopo una vita di sfruttamento, dall’informazione alla cultura, dai diritti umani a quelli civili, dalla tutela del territorio a quella del patrimonio artistico.
Non c’è ambito di vita quotidiana, per l’appunto, in cui la destra non soggettivizzi l’oggettivo, non tenti di fare parti uguali tra diseguali, non stabilisca che credere e obbedire è la premessa per combattere quelle battaglie che una destra mediocremente moderna, saldamente ancorata all’egocentrismo fascista, alla imposizione piuttosto che alla condivisione, decide siano l’architrave di una politica che metta insieme lo Stato forte col liberismo forte.
L’esatto contrario, si diceva, di quello che don Lorenzo Milani ha insegnato prima, durante e dopo Barbiana agli operai, ai suoi ragazzi e anche ai genitori di costoro, vittime, allora, di una povertà che lasciava nell’ignoranza e di una ignoranza che non permetteva di godere di tutti quei diritti che la giovane democrazia italiana allora stava iniziando a mettere in pratica.
Chissà quante altre lettere in forma di libro, composto dai tanti pensieri stimolati dal “metodo di Barbiana“, dalla vera e propria scuola di vita che divenne quel luogo sperduto sui monti toscani, scriverebbe oggi don Lorenzo.
Ai cappellani militari e ad una professoressa ieri, contro quell’obbedienza che non è necessariamente una virtù se impone di sottostare a disvalori che nutrono la diseguaglianza, l’oppressione, la coercizione facendo apparire il tutto come perfettamente legale e magari pure democratico.
L’Italia del secondo dopoguerra era, raffrantotata a quella odierna, un Paese tutto da ricostruire: macerie di ogni tipo pesavano sulla vita di una popolazione che usciva da un regime totalitario e da un conflitto durati un quarto di secolo. Il piccolo regno unitario formatosi dopo l’epopea risorgimentale si era avventurato nel colonialismo imperialista del primo Novecento e aveva riscoperto il “Mare Nostrum“, una idea di grandezza che il fascismo associò alla romanità dei Cesari.
E l’involuzione dal liberalismo giolittiano alla dittatura di Mussolini fu qualcosa di profondamente diverso da un consolidamento puramente nazionalista del e nel Paese. Don Milani lo scrive e lo sottolinea molte volte.
La costruzione dell’identità di “italiano” nel cittadino di fine ottocento, di una Italia ancora erede della frammentazione mantenuta dal Congresso di Vienna, non poteva avvenire con un arbitraria imposizione militarista e di Stato (come nel caso dell’annessione al Regno di Sardegna degli Stati italiani pre-unitari) e né tanto meno con un panitalianismo autocratico e autarchico.
Il fascismo, di cui è erede la destra “post-fascista” di oggi, che siede al governo del Paese, ha imposto e non condiviso una cultura nazionale. Ha esasperato le differenze e non le ha amalgamate in una armoniosa condivisione di peculiarità territoriali, entico-culturali ed anche politico-sociali. Ha fatto dell’Italia un luogo esclusivista, buono solo per quella parte della popolazione che aderiva ad una impostazione corporativista e consociativa col padronato di allora.
Il fascismo diventato partito-Stato ha tradito l’originarietà delle sue proposte sociali e ha messo la guerra al primo posto, come “igiene” futuristica di una nazione che, a ben vedere, aveva appena iniziato a nascere in una Europa dove gli antichi Stati, quasi millenari, come Francia, Inghilterra, Portogallo e Spagna (discorso diverso vale per la Germania), si facevano interpreti di una attualità dell’economia di mercato in fase espansiva proprio nell’Europa degli imperi coloniali, mentre l’America a stelle e strisce attraversava la sua prima grande crisi strutturale.
Don Milani, nell’insegnarci che la fragilità della democrazia italiana del secondo dopoguerra era una eredità ben più importante del solo riconducimento alla terribile esperienza totalitaria del mussolinismo opportunisticamente monarchicheggiante prima e fieramente repubblicano sotto l’egida hitleriana poi, coglie in un ragionamento molto articolato, che comprende la conoscenza, l’istruzione, la cultura, il civismo e il militarismo, i rapporti tra Stato e Chiesa il condizionamento della vita pubblica che ne deriva, l’essenza di una parabola dei diritti che devono promanare da un impegno costante.
Nella “Lettera ai giudici” il priore di Barbiana scrive: «Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa.. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto». Non è sufficiente, quindi, stare nel proprio limitrofo, entro i confini di un’esistenza che si riduce ad un egoistico “io”, pronunciando tanti “me ne frego” per quanto ci accade in lontananza.
Troppe volte consideriamo irriguardevole nei nostri confronti ciò che ci non coinvolge direttamente. Ne siamo sdegnati quasi e lasciamo che ad occuparsene siano “gli altri“, quelli a cui compete.
Un atteggiamento che nasce da una superficialità inculturale ed anticivica che settorizza i cittadini, li incamera in determinate caselle e li rende estranei gli uni agli altri. Oggi questo auterferenzialismo è ispirato da un liberismo americano che ha ereditato la logica capitalistica del “self made man“. Prima della Seconda guerra mondiale era tipico di quelle democrazie liberali che hanno, anche per questo, concesso troppo spazio ad una presunta vena sociale dei regimi autoritari.
Il motto di don Milani è l’esatto opposto: al “me ne frego” di Mussolini egli oppone l’”I care“, mi importa, mi interessa, mi sta a cuore, mi coinvolge. E’ il capovolgimento di un egoismo che viene osteggiato dalla nostra Costituzione e che contraddice, soprattutto oggi, ai tempi del melonismo, il dettato del privato che prevale rispetto all’interesse pubblico, al bene comune, alla compartecipazione ad ogni espressione politica, sociale e civile della vita nazionale e delle comunità locali.
Il modo in cui trattiamo i nostri territori è lì a dimostrare non solo tutte le differenze tra regione e regione, tra egoismi ed altri egoismi da “autonomia differenziata“; ma di più ancora, è lì a palesare come il senso di comunità nazionale si stia disperdendo nell’acutizzazione di un “si salvi chi può“, a cominciare dal modo in cui lasciamo che vengano trattati i più deboli, i più fragili: i migranti, gli emarginati, i discriminati per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale, per ceto sociale, per mille altri motivi.
L’Italia del 2023 è l’antitesi di quella che don Milani pensava di contribuire a costruire non dall’eremo di Barbiana, ma anche grazie all’insegnamento di quelle scuola eretica tanto per i cattolici quanto per i laici.
Oggi le istituzioni governative ispirano sentimenti e idee che vanno nella direzione opposta della solidarietà e della giustizia sociale. Ed è anche per questo che non c’è bisogno che ministri e presidente del Consiglio si affannino molto in direttive ai sottoposti: ognuno “lavora incontro al governo”, segue la corrente e si comporta conformemente. Ecco: il conformismo. Ecco quello il tipo di incultura dominante o che pretenderebbe di scalzare quella di una vita in comune fondata sul confronto e non solo sullo scontro.
Le destre vedono e fanno vedere nemici dove invece vi sono solamente diversità da mettere a valore.
L’africano, il mediorientale, l’omo, bi o transessuale, addirittura il povero che non trova lavoro sono tutte categorie e non più esseri umani: categorie da etichettare con stigmi evidenti e da marginalizzare dando loro qualche briciola di una ricchezza nazionale che viene intesa solamente come effetto della concorrenza imprenditoriale e non come il prodotto sociale del lavoro di milioni e milioni di cittadini. Altrimenti si aumenterebbero i salari piuttosto che tagliare i cunei fiscali, introdurre le flat tax e dare i soldi del PNRR ai padroni e ai grandi detentori di ricchezze scudate all’estero.
Proprio la scuola della Repubblica, cui pure don Lorenzo aveva inizialmente riservato delle giustissime critiche, oggi diventa un baluardo di reattività all’inculturame delle destre, al revisionismo storico, al propagandismo di governo in materia tanto di diritti quanto di doveri. Lo diventa nella misura in cui respinge quel classismo che pretenderebbe di permettere nuovamente ai figli dei ricchi di poter studiare, permettendosi anche di pagare affitti esorbitanti per un posto letto e non certo in centro a Milano o a Roma, ma in periferia…
Lo diventa nella misura in cui diversifica emarginando e non crea empatia valorizzando ogni differenza. Lo diventa se il governo non investe nell’istruzione e nella conoscenza più di quanto investa negli armamenti militari e nel finanziamento delle guerre. Lo diventa se, ancora una volta, si fanno parti uguali tra diseguali.
Le parole del priore di Barbiana echeggiano in questo centanario dalla sua nascita e andrebbero lette e ascoltate in tutte le scuole, perché sono il migliore insegnamento per essere ancora una volta parte di un progetto collettivo di vita. Una vita degna di essere vissuta: «Se si perde loro [gli ultimi] la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati».
MARCO SFERINI