di Fabrizio Poggi per l’AntiDiplomatico
Sono riportate ormai da giorni, un po’ dappertutto, le parole dell’ex segretario generale NATO, Anders Fogh Rasmussen, a proposito della possibilità che alcuni paesi dell’Alleanza atlantica decidano “su base individuale” di introdurre proprie truppe in Ucraina: «Un gruppo di paesi NATO può inviare truppe in Ucraina, se gli Stati membri, compresi gli Stati Uniti, non possono garantire la sicurezza all’Ucraina al vertice dell’Alleanza a Vilnius». Il riferimento diretto è, ancora una volta alla Polonia, che mirerebbe a mettere insieme una «coalizione di volenterosi», tra cui, in primo luogo, i Paesi baltici, i cui bilanci militari, dell’una e degli altri, vengono ampliati a spese delle sovvenzioni UE. Se si andasse in questa direzione – su Ukraina.ru, commentatori polacchi lo ritengono molto verosimile – non scatterebbe l’art. 5 della NATO, ma sarebbe assicurato un pericolosissimo allargamento continentale del conflitto.
E, comunque, le esternazioni dell’ex segretario e, dal 2014, “consigliere presidenziale ucraino”, sembrano dar voce alle ambizioni polacche, di cui si vocifera da tempo, pur se, a parere dell’osservatore militare Aleksej Leonkov, «è improbabile che l’idea di Rasmussen venga sostenuta dalla maggioranza dei paesi NATO». Tanto più che si parla della presenza in Ucraina, già da tempo, di circa ventimila polacchi i quali, per il carattere delle azioni belliche condotte, somigliano tanto a truppe regolari ben addestrate, nonostante la Varsavia ufficiale si premuri di “non averci niente a che fare”, come ha fatto coi terroristi del Polski Korpus Ochotniczy (PKO).
Su Life.ru, Elena Ladilova scrive che i social polacchi raccontano di ripetuti transiti di mezzi militari nell’est del paese, in direzione di L’vov: la città ucraina che i polacchi considerano “la più polacca delle città polacche”; mentre la rivista polacca Niezalezna Dziennik Polityczny scrive che sono stati chiusi per 90 giorni, a partire dal 23 maggio, gli accessi alle aree confinarie polacco-ucraine, specificamente nel Voivodato della Precarpazia (confinante direttamente con la regione di L’vov) in modo da non interferire con le esercitazioni NATO. Ancora Leonkov afferma che Varsavia, al confine con l’Ucraina, avrebbe messo a punto una sorta di “corpo di spedizione”, ma che è improbabile che intraprenda azioni concrete prima del vertice NATO del 11-12 luglio a Vilnius, da cui la Polonia si attenderebbe il sostegno finanziario all’impresa.
Da rilevare che, probabilmente non a caso, l’uscita di Rasmussen, coordinata con Varsavia, abbia preceduto di pochi giorni il vertice del 12 giugno a Parigi tra Emmanuel Macron, Andrzej Duda e Olaf Scholz, il cui tema centrale, secondo l’edizione belga di Politico, saranno le garanzie di sicurezza all’Ucraina al vertice NATO. E anche al recente summit “Bucarest Nine”, Duda ha incontrato diversi leader di paesi NATO dell’Europa orientale, coi quali ha discusso della guerra e della volontà ucraina di aderire all’Alleanza atlantica.
A proposito delle esternazioni di Rasmussen, Ukraina.ru riporta una serie di ipotesi, formulate da osservatori polacchi. Esistono due possibilità, nota Konrad Rekas: una è che Rasmussen sia una “pezza da piedi russa”, come vengono definiti in Polonia gli “agenti del Cremlino”, cioè un provocatore al «soldo della propaganda militare di Mosca». L’altra ipotesi è che si stia verificando ciò che «temiamo praticamente dal febbraio 2022: la Polonia sarà il prossimo paese che l’Occidente manderà in guerra contro la Russia. E Varsavia verrà mandata da sola, senza l’appoggio attivo delle principali potenze NATO: una guerra destinata al fallimento fin dall’inizio». Ma, di fatto, osserva Rekas, un piano di invio di truppe polacche in Ucraina esiste sin dall’inizio del conflitto, come da tempo indicato da alcune dichiarazioni di Jaroslaw Kaczynski e di esponenti militari, anche se negato. Fino a poco tempo fa, l’accenno pubblico a tale possibilità comportava l’accusa di agente del nemico o provocatore, mentre oggi ne parla a viva voce Rasmussen. Tanto un conflitto diretto di Polonia e Paesi baltici contro la Russia, quanto l’intervento polacco in Ucraina non sono più una questione di “se”, ma una questione di “quando”».
Si avvereranno così i sogni di Varsavia di tornare in possesso dei cosiddetti “Kresy Wschodnie”, passati all’Ucraina nel 1945 – L’vov, Stanislavov (l’attuale Ivano-Frankovsk) e Ternopol – e la questione, a detta di Rekas, riguarderà anche la Lituania, con l’introduzione di truppe polacche nella regione di Vilnius, popolata in maggioranza da polacchi; per quanto riguarda la Bielorussia, le operazioni militari interesseranno probabilmente la sua parte di “Kresy”, cioè la regione di Grodno, anch’essa popolata da una numerosa minoranza polacca. Questo, volendo ignorare la data ormai stabilita – mese di luglio – per la dislocazione di armi nucleari tattiche in Bielorussia, come concordato nel recente vertice Putin-Lukašenko.
Si tratterà, dice Rekas, di un enorme conflitto «interetnico, simile a quelli che distrussero in modo estremamente sanguinoso e brutale l’ex Jugoslavia. L’Occidente ama quando gli slavi si uccidono a vicenda, e la dichiarazione di Rasmussen suggerisce che, forse, presto i nostri nemici comuni avranno ancora più motivi per rallegrarsi, alla contemplazione del sangue slavo versato in una guerra fratricida».
Il direttore del portale polacco Strajk.eu, Maciej Wisniewski, considera le parole di Rasmussen una conferma della volontà occidentale di continuare e allargare il conflitto: un vero e proprio ricatto, che si esplicita in questo. Se la controffensiva ucraina fallisce, allora l’Occidente smetterà di finanziare e armare Kiev negli attuali volumi: ci sarebbe allora la possibilità di raggiungere la pace. Ma Rasmussen ha chiarito che non è interessato alla pace, al contrario, vuole che la guerra continui il più a lungo possibile sul territorio dell’Ucraina e dell’Europa nel suo insieme.
Fortunatamente, afferma Wisniewski, Rasmussen è un ex segretario della NATO, e bisogna prendere in considerazione molti altri fattori, non ultimo le prossime presidenziali in USA. Sul piano militare, poi, dato il “peso microscopico” dei Baltici, si deve considerare la sola Polonia: «Se truppe polacche verranno introdotte in Ucraina, prima o poi si scontreranno con le truppe russe e avremo un conflitto armato su scala europea, se non globale. Anche se non scatterà l’articolo 5 del Trattato Nord-atlantico, lo scenario descritto dal signor Rasmussen è il peggiore che si possa immaginare».
C’è da rilevare che, a fronte del danese Rasmussen guerrafondaio dichiarato, questa volta è il norvegese Jens Stoltenberg a giocare il ruolo del “poliziotto buono”. Si fa per dire: la cosa più importante, ha detto l’attuale segretario NATO, «è garantire che Putin non vinca… e che l’Ucraina si conservi quale stato sovrano; in caso contrario, se l’Ucraina non avrà la possibilità di esistere quale stato democratico sovrano indipendente in Europa, non ci sarà materia di discussione sulla sua adesione» all’Alleanza. Dunque, nota sarcasticamente Mikhail Rostovskij su Moskovskij Komsomolets, ecco che è stata pronunciata la frase magica, che il Cremlino vuole tanto sentire: “non ci sarà materia di discussione sull’adesione ucraina alla NATO”. Ma è «proprio per far risuonare questa frase, che Vladimir Putin conduce l’operazione speciale. E l’Occidente sta armando Kiev fino ai denti in modo che una tale formulazione non risuoni mai».
A Singapore, anche il capo della “diplomazia” UE, Josep Borrell, ha dichiarato che se l’Occidente smettesse di sostenere Kiev, il conflitto finirebbe molto rapidamente, ma con una pace che, a giudizio di USA e UE, è molto peggio della guerra: «Noi non possiamo smettere di fornire sostegno militare all’Ucraina, perché non vogliamo un mondo che sia un mondo di capitolazione, un mondo dei più forti». «È oggi Stoltenberg, e non Rasmussen, a esprimere la linea generale dell’Occidente collettivo», afferma Rostovskij; dunque, se si valutano le parole del primo per se stesse, e non in contrasto con le parole del suo predecessore, quella linea appare piuttosto inquietante. Oggi «non ci sono motivi di ottimismo in termini di una rapida risoluzione del conflitto. Questa valutazione era assolutamente corretta un anno fa e rimane assolutamente corretta anche oggi. Su quanto possa durare questo “status quo venefico”, si può solo tirare a indovinare».
In ogni caso, notava giorni fa la russa RT, siamo di fronte alla “prima rondine” informativa, volta a preparare l’opinione pubblica all’intervento occidentale nel territorio, un tempo noto come “Ucraina”; in questo senso, l’ex segretario NATO è il candidato ideale: vanta legami giganteschi, sa di cosa parla, e il prefisso “ex” aiuta a rimuovere l’eccessivo carico di responsabilità per le sue parole. Ma le parole di Rasmussen confermano la cosa principale: d’ora in poi, nel territorio che portava il nome di “Ucraina”, tutto è possibile. Non ci sono più linee rosse: «Fornire proiettili all’uranio impoverito, fregandosene della salute delle persone e della natura? Semplice. Far saltare in aria una centrale idroelettrica e provocare un disastro? Non fate complimenti. Fornire armi NATO ai terroristi per uccidere civili nel paese vicino? Prego. Organizzare un intervento militare su vasta scala con il rischio di una guerra nucleare? Un affarone».
L’urlo di guerra di Anders Fogh impone a ognuno di assicurarsi il dantesco «fieti manifesto l’error de’ ciechi che si fanno duci».