«Frocio di merda, vuoi vedere come ti ammazzo, gay di merda? Lo vuoi vedere? Ti devi solo vergognare, vieni qua gay, vieni qua». E di seguito altre ingiurie, vere e proprie minacce di morte. Luca e il suo fidanzato camminano nella stazione di Pavia. Hanno parcheggiato l’auto e si dirigono in centro città.
All’improvviso un uomo li apostrofa malamente. Probabile che l’abbigliamento o le acconciature dei due ragazzi gli abbiano immediatamente fatto scattare una molla omofoba.
Così li insulta, li riconcorre. Luca riprende tutto col telefonino e denuncia pubblicamente sui social. E fa bene. Perché non si può parlare di “episodi“, ma di una vera e propria cultura dell’aggressività e dell’aggressione da parte di individui che decidono per tutti gli altri di rappresentare la quinta essenza della morale, di essere dalla parte della “normalità” e, quindi, si sentono in diritto di minacciare verbalmente e fisicamente le persone LGBTQIA+.
Sì, quelle dell’acronimo sempre più lungo, che dà fastidio perché include, perché riconosce le differenze e le valorizza, mentre chi avverte una pruriginosità da Pride e, quindi, tollera e non è solidale con le lotte per i diritti civili, vorrebbe parlare genericamente di “omosessualità“, di “quelli” che “se non fanno vedere in giro quello che fanno, a me sta bene“.
Facessimo tutto nelle nostre segrete stanze, per non turbare troppo l’eteroetica dei perbenisti basso, medio e piccolo borghesi, a cui si mescola l’ignoranza manifesta di un moderno sottoproletariato abituato a pensarla come la pensa il governante di turno, il leader carismatico che sbraita nelle piazze e vomita intolleranza e discriminazione a tutto spiano.
Luca e il fidanzato sono subissati dalle grida: «Io vi ammazzo, froci di merda!». Nessuno dei passanti interviene in loro difesa, tutti scorrono per le vie e le stradine facendosi i fatti propri, guardando quello che accade, assistendo e ascoltando attentamente. C’è odore di guaio, meglio non impicciarsi. Un po’ diverso da quello che è avvenuto a Forlì, dove è scoppiata una rissa a suon di accettate che fanno brillare l’asfalto di scintille, mentre uno dei malcapitati, scansa il colpo forse fatale.
A Pavia due giovani cercano solo di evitare il peggio. Per sé stessi anzitutto. E la gente non muove un dito, non si esprime in loro difesa.
E’ questo che, al di là degli improperi e delle gravissime minacce di morte, colpisce come sempre: l’indifferenza, una apatia certamente indotta dalla paura, ma indubbiamente anche suggerita da una nuova stagione della separazione tra singolo e collettivo, tra diritto dell’uno e diritti di tutti che, invece di essere sentiti come un insieme, sono settorializzati e protetti come privilegi esclusivi.
La gente che è lì, per le vie di Pavia, in stazione e fuori non fa nemmeno il gesto di tirare fuori un telefono, di scattare delle foto all’aggressore, nemmeno quando questo volta loro le spalle. E’ sufficiente guardare il video fatto da Luca per rendersene palesemente conto. Non un aiuto, nemmeno indiretto.
Perché così tanta lontananza da una empatia necessaria al vivere comune? Che società è diventata quella in cui sopravviviamo ogni giorno ad una insofferenza manifesta, ad un disagio globale che impregna le città, le sovradimensiona e le comprime al tempo stesso…?
Noi mettiamo su un piedistallo la nostra cultura, i nostri beni comuni, la meravigla tutta italiana di un’eredità storica, artistica, paesaggistica e naturale di cui andiamo fieri e poi, ci rendiamo conto che a crollare non sono solamente gli argini dei fiumi, e nemmeno a franare sono soltanto le colline cementificate e rese allo stato della sabbia tra le sempre meno presenti radici degli alberi.
A rovinare in basso sono le nostre coscienze, il nostro modo di rapporti con i più fragili e i più esposti alle cattiverie e alle molestie di chi si reputa “maggioranza” e, quindi, assolutamente nel giusto e nel pieno diritto di “dettare legge“. Non quella con la elle maiscuola, ma la propria (im)moralità, il proprio, unico modo di decifrare i codici di comportamento attraverso la lente dei pregiudizi e delle prevenzioni articolate in complessi sistemi di ignoranza e di presunzione.
Vale anche per altre categorie sociali: dai migranti che hanno un colore della pelle diverso dal nostro, agli handicappati. Dalle donne concepite come proprietà del maschio e, quindi, per estensione, dell’uomo maschile e magari pure orgogliosamente maschilista, fino agli anziani, che invece di essere tutelati da uno Stato che dovrebbe mettere in essere presidi di prossimità per la salute quanto più vicini alle case di ciascuno, consente che si sviluppi un vergognoso mercimonio sugli ultimi anni di vita di ognuno, di tutti.
La maggioranza delle persone è ancora in grado di mettersi dalla parte del più debole e di cercare di comprenderne le esigenze. La maggior parte dei cittadini si schiera con la diversità e non con l’uniformità di un eterosessualismo inteso soltanto come una espressione naturale dell’erotismo, dei desideri, dell’amore che ciascuno può vivere nella sua particolarità.
Ma il messaggio che oggi le forze di destra, che reggono il governo della Repubblica, fanno passare è quello di una restaurazione dei “sani princìpi” della famiglia “normale“, quella “classica“, composta solo da un uomo e da una donna.
La riduttività di questa impostazione esclusivista, tipica dei reazionari e dei conservatori di tutti i tempi, si fa spazio attraverso una conversione delle politiche sociali in politiche nettamente antisociali e, in questo particolare frangente, nella trasformazione della tutela dei diritti e nella loro necessaria espansione in un accidente collaterale, qualcosa che magari non va discriminato ma che certamente non va sostenuto.
Xenofobia e omofobia, maschilismo e patriarcalismo, sono condannati ufficialmente dalle destre e da tutte e tutti coloro che affermano di abbracciare i valori costituzionali, la democraticità repubblicana. Si tratta di affermazioni di prammatica, utili per evitare di cascare nella condanna internazionale più che nazionale.
Perché, alla fine, le verità substanziali emergono vistosamente. Dal modo con cui ci si riferisce ai migranti fin dai primi giorni di governo al revisionismo storico sui battaglioni nazisti che marciavano per le vie di Roma nel 1943/44; dalla “sostituzione etnica” alla concezione dei giovani come degli sfaccendati, incapaci di saper soffrire sotto un padrone o un padroncino che li paga peggio delle multinazionali del cibo a domicilio.
Tutto questo viene vendicato come parte di una nuova esegesi di una articolata narrazione, molto più complessa di quello che potrebbe sembrare, e che riguarda menti, corpi, emozioni, diritti e giustizia sociale così come diritti civili e umani. Una concatenazione di concetti che si legano ad una trasformazione non rivoluzionaria, nel senso di chiaramente innovativa, di progressista, ma regressivamente incanalata verso una affermazione di un tradizionalismo impossibile da accettare.
Ma le destre, oggettivamente, sono e non possono non essere tutto questo. Sono l’indifferenza dei passanti mentre Luca e il suo ragazzo si allontanano, riprendono col cellulare chi dice di volerli ammazzare; sono l’accettazione dell’assunto per cui… sì, i diritti vanno anche bene, ma poi, alla fine questa famiglia tradizionale, cristiana, cattolica, che deve dare figli alla patria e al governo fintamente nazionalista, la si vorrà mettere o no in primo piano?
Mica andavano bene tutti questi gay e queste lesbiche in RAI. Lo ha datto un noto presentatore televisivo, passato dal gialappismo all’amizia meloniana nemmeno tanto d’improvviso. Dispensatore – a suo dire – di consigli anche a Salvini, ha capito ora che bisogna riportare un po’ di ordine in quello che viene spacciato come “disordine“: morale, civile, sociale.
Sono fantastici questi convertiti al nuovo corso postfascista del governo attuale. Sono peggio di quelli che da sempre professano una fede politica contraria al resistenzialismo e all’antifascismo repubblicano, perché non hanno nemmeno la scusa della presunta coerenza ideale.
Ma è proprio da qui che si notano le modificazioni che stanno intervenendo nella società per rafforzare e consolidare quei antivalori che vengono affiancati a quelli universali, antecedenti agli sconvolgimenti che i regimi totalitari portarono in Europa e nel resto del mondo.
L’indifferenza, è vero, ha un po’ sempre fatto parte del tratto distintivo della pavidità, del paradgimatico “Io non mi impiccio“; di una società fondata sull’ammirazione entusiastica per la retorica sugli angeli del fango in ogni dove capiti un disastro ambientale e, al contempo, impermeabile ad aggressioni omofobe, xenofobe o alle violenze dei mariti, dei fidanzati nei confronti delle loro mogli o compagne.
La simbiosi tra tutte queste perversioni intrise di tolleranza come sinonimo esplicito di mala sopportazione, di superiorità etica dell’uniforme rispetto al difforme, di altezza morale del maggioritario rispetto al minoritario, rischia di creare un clima in cui l’autorizzazione all’insulto omofobo, all’aggressione verbale, nonché alla minaccia di morte diventino, se non proprio la regola non approvata ufficialmente, quanto meno una condizione empatico-politico-ideale da seguire nella direzione tracciata dalle forze reazionarie e conservatrici della destra.
Ufficialità e ufficiosità, laddove non combaciano, stabiliscono dei mondi che si sovrappongono e mai si interscambiamo. Ciò che è ufficioso viene scansato ufficialmente ma, in fondo, viene ampiamente condiviso. Le scelte politiche sono anche messaggi politici, sociali e civili. Togliere il patrocinio ai Pride è esattamente come dire: le istituzioni non approvano, deplorano e magari pure condannano le sfilate dell’orgoglio omosessuale, in generale di rivendicazione e difesa dei diritti civili.
Questo è il messaggio che passa, perché questo è il messaggio che la destra vuole fare passare, visto che fa parte della sua incultura storica, della sua origine fascista e nazionalista.
Siamo ben al di là dei “vizi privati e pubbliche virtù” della borghesia degli anni ’60 e ’70. Qui siamo all’ipocrisia di Stato, di governo, di una collettività che, in larga parte, si sente parte di questo disegno e condivide l’aprezza dei toni, la durezza delle dichiarazioni e lavora incontro a questa impostazione data dalle forze politiche più repressive, discriminanti e reazionarie che si potessero ricordare a Palazzo Chigi.
Chi si permette il lusso di affermare che non esiste nessun pericolo “omofobia” in questa Italia moderna, lo fa pretendendo di convincerci che, per gridare a ciò, occorra una vera e propria politica omofoba da parte delle istituzioni. Tutto il resto sono singoli episodi, rubricabili in quanto tali all’escandescenza di un tizio. Fenomeni isolati, quindi.
Ma la vita del Paese non si regola soltanto sulle norme scritte. Si pianifica anche attraverso il sentimento comune che si contribuisce a creare: un sentimento diffuso che è quella compartecipazione all’”opinione pubblica” che anticipa la Legge molte volte. Ormai, molto poco in chiave progressista, nel segno di una sempre maggiore tutela delle prerogative specifiche di ognuno nella previsione di una garanzia più generale e collettiva.
Oramai sempre più nel solco della stigmatizzazione, dell’esclusività perniciosa, della discriminazione come elemento fondante la nuova purezza razziale, etnica, sessuale, familistica: una identità personale che raffigurerebbe la “normalità” su cui dare seguito ad una nuova nazione fatta di divinità, patriottismi e nuclei ristretti non tangibili dal resto del mondo che, lo si voglia o no, ci riguarda e che non possiamo tenere fuori dai nostri confini, dalle porte di casa ma, soprattutto, dalle nostre menti e dalle nostre vite.
MARCO SFERINI