È accaduto in Val di Susa: una scuola superiore, un allarme antincendio che scatta, i controlli antidroga nelle aule, nessuna sostanza trovata e un professore che finisce denunciato e censurato per avere denunciato l’accaduto su Facebook. Non è, peraltro, un evento eccezionale, ma solo uno dei tanti blitz delle forze dell’ordine all’interno delle aule scolastiche su tutto il territorio nazionale.
L’obiettivo dichiarato è quello di stroncare il consumo di droghe considerato che – come è stato scritto – «l’educazione non basta; serve anche la divisa». È vero, l’azione educativa di famiglie e scuole non basta: merita l’insufficienza e spesso va anche fuori tema. Ma certo non la si completa perseguendo la “sicurezza” – anziché con la manutenzione degli edifici che crollano (e per i quali solo il Piano di ripresa e resilienza ha consentito qualche stanziamento altrimenti omesso – con gli accordi territoriali tra Prefetture, Questure, Uffici scolastici regionali e Comuni per fare entrare i cani-poliziotto a fiutare nelle aule gli zainetti dei ragazzi.
L’iniziazione al consumo di tabacco, alcol e cannabis in adolescenza ha varie motivazioni, tra cui prevalgono curiosità, trasgressione, imitazione. Così come nei giovani non si è riusciti a contenere il consumo di tabacco e alcol, nonostante il divieto per i minori di età, tanto meno ciò è avvenuto con le sanzioni amministrative per la cannabis e il rischio penale per spaccio. Realisticamente, nel quadro di un consumo giovanile che si protrae da ormai 50 anni, la prevenzione deve avere tre obiettivi: ritardare l’età del primo consumo; contenere la frequenza e l’entità d’uso per evitare l’instaurarsi della dipendenza; ridurre i danni connessi allo stato di alterazione. Ai servizi socio-educativi compete l’impegno più massiccio; a quelli sanitari la tempestività degli interventi d’urgenza e l’educazione alla salute; alle Forze dell’ordine i controlli alla guida e gli interventi di contenimento della violenza.
La scuola non ha bisogno di azioni di deterrenza nelle aule della didattica, che ottengono in genere solo effetti boomerang: spaventano la stragrande maggioranza degli studenti, alimentando una cultura di diffidenza e ostilità verso chi deve proteggere i cittadini; inducono nei ragazzi comportamenti di mimetizzazione e di chiusura difensiva, ostacolando il lavoro educativo; stigmatizzano l’eventuale possessore, con esiti spesso deleteri per lo stesso percorso scolastico.
La scuola è in grado di impedire il consumo al suo interno. Molte buone esperienze lo testimoniano. Ma per farlo è indispensabile la motivazione: che gli insegnanti vogliano effettivamente “vedere” il problema e affrontarlo. Più facile e comodo, e più illusorio, è delegare il problema alle forze dell’ordine, cosa che fatalmente avviene quando non si è voluto o non si è stati capaci di affrontare la questione all’interno. È il momento in cui la situazione scappa di mano, passando, repentinamente, dalla mancata prevenzione alla demonizzazione del consumo e, peggio, dei suoi presunti colpevoli.
Alcuni insegnanti, tra quelli che considerano la relazione e l’educare parti irrinunciabili dell’insegnamento, provano a opporsi e a dissentire. La “novità” degli ultimi tempi è che il dissenso viene punito, con denunce all’autorità giudiziaria e censure amministrative con ripercussioni di carriera. Penalizzati sono soprattutto i docenti precari. Non tutti i capi d’istituto sanno difendere la libertà di opinione e di insegnamento dei loro professori, o rifiutare i controlli di polizia. Ma ci sono anche esempi positivi, come quello del preside dell’Istituto Marco Polo di Firenze che è stato esplicito: «Non sopporto l’idea che un cane punti un ragazzo, mi ricorda brutte cose del passato… Preferisco puntare su psicologi, educatori, tutor».