Economisti di tutte le estrazioni culturali, di quasi tutte le tendenze politiche, hanno puntualmente messo in evidenza le contraddizioni di quella che potremmo definire una sorta di “sindrome della crescita produttiva“, a fronte di una rincorsa da parte degli Stati di affermare che le proprie riforme governative hanno dato adito ad una crescita occupazione in tal senso e, quindi, ad un aumento della ricchezza complessiva di ogni paese.

Sembrerebbe tutto direttamente collegato, spontaneo, quasi meccanicistico: all’aumento della domanda corrisponde un aumento pari, o quasi, della produzione e, quindi, un po’ sollogisticamente tutto si lega ad un segno positivo davanti alle cifre che riguardano le percentuali di accrescimento di tutto ciò che riguarda il PIL, il Prodotto Interno Lordo.

Sfortunatamente, questo viene troppe volte scambiato, molto riduttivamente, con la mera ricchezza monetaria, finanziaria: con un maggiore gettito derivante dal mondo del privato e, quindi, ulteriori introiti per le casse erariali dello Stato. Oppure, altra tendenza impropria, è quella di stabilire una equazione diretta tra PIL e ricchezza generalmente intesa: ma pur sempre riconducibili al denaro, ai fondi e alle riserve pubbliche.

Sarebbe tutto molto bello (si fa per dire…) se non fosse che il PIL rappresenta qualche cosa di molto più articolato nel suo comporsi in quanto tale: la ricchezza che esprime è riferibile a tutto ciò che di materiale si trova nel territorio di una nazione e che, quindi, ne determina una economia a tutto tondo, che nulla esclude e nulla pretende di tenere fuori dal concetto di “aumento“, di addizione rispetto a ciò che c’era prima.

Non sempre però l’aumento, ad esempio, del tasso occupazionale corrisponde a qualcosa di progressisticamente innovativo e, quindi, ad un miglioramento stesso delle condizioni della lavoratrice o del lavoratore. Ne abbiamo avuti dei chiari esempi in questi anni di sempre maggiore impiego dei contratti a tempo determinato, del lavoro a chiamata o, che fa al caso nostro, del lavoro sommerso, di quello in nero, di quello che rasenta uno schiavismo dal sapore antico ma dai tratti ultramoderni.

La maggiorazione dei tassi occupazionali e un saldo in crescita rispetto ai trimestri, ai semestri e agli anni precedenti avrebbe un valore di merito se rappresentasse davvero un insieme del mondo del lavoro trattato con la dignità che gli tocca: con contratti a tempo indeterminato o determinato ma pagati e garantiti in tutto e per tutto secondo precise norme legale e accordi sindacali degni di questo nome; se non si dovesse assistere all’assunzione di giovani cui, ad esempio, notturni e straordinari non vengono quasi mai pagati, includendoli nella paga stabilita.

E, inoltre, se  non si dovesse pure considerare l’alternanza scuola-lavoro come una prima introduzione degli studenti nella perversa logica imprenditoriale volta esclusivamente alla generazione del profitto privato, escludendo qualunque connessione tra conoscenza e benessere comune, tra sapere e messa in pratica dello stesso attraverso la qualificazione delle competenze sviluppate nel corso degli studi.

Così, accade che i punti in percentuale del PIL in aumento non siano sempre una buona notizia: sia se si guarda al trattamento dei soggetti meno tutelati e più deboli della società, che sono così costretti ad accettare qualunque tipo di rapporto con il loro datore di sfruttamento (questa è la denominazione corretta per il “datore di lavoro“); sia se si fa riferimento proprio alla produzione delle merci: se il comparto automobilistico, ad esempio, conosce una crescita produttiva notevole, in termini di ricchezza complessiva, che interessa quindi ogni ambito e aspetto del vivere comune, cosa avremo come conseguenza.

Più automobili in circolazione altro non significa se non maggiore inquinamento, maggiore invivibilità delle nostre città per il traffico aumentato, per l’inquinamento prodotto, per lo stress generato.

Il tasso di crescita finisce con l’essere l’unica percentuale utile alla considerazione della qualità della vita di ciascuno e di tutti, mentre ogni altro coefficiente risulta secondario e trascurabile, perché subordinato alle esigenze del capitalismo, del mercato, della circolazione delle merci e della generazione continua di nuovi profitti.

Prendiamo un esempio in casa nostra, nella povera Italia governata dalle estreme destre postfasciste. La ministra Santanché e il suo partito propongono una serie di misure a favore del lavoro stagionale, del settore che interessa il turismo che, come tutti sappiamo bene, è uno dei cuori economici del Paese. Gli interventi del governo, per favorire una ripresa post-Covid dell’ambito alberghiero in ogni dove, delle spiagge e dei balneari, pensano ad una detassazione degli straordinari e del lavoro notturno.

Parimenti, per compensazione, e – a detta loro – per sostenere una incentivazione giovanile in questo quadro, quindi una maggiore assunzione di forze fresche e reattive (leggasi: meglio sfruttabili per l’intera stagione estiva), mostrano tutta la loro generosità nella predisposizione dell’elargizione di un “bonus” che vada a coprire i costi della forza lavoro straordinaria e notturna.

Anche in questo caso si può, in parte, parlare di aumento del PIL, perché saremmo in presenza di una assunzione di decine di migliaia di addetti al settore turistico, ma la contraddizione che smentisce ogni logica dell’economia di mercato, privilegiando la voracità del suo lato prettamente liberista nel farsi sostenere dallo Stato in tutto e per tutto, starebbe tutta quanta nell’attingere denaro pubblico per pagare dipendenti privati.

Qui il legame tra Stato forte, presente e prontamente messo a disposizione dell’economia e della finanza private, e il mondo imprenditoriale diventa senza alcun tema di smentita la realizzazione dell’assunto primordiale del liberismo nato a metà degli anni ’70 del secolo scorso: il pubblico deve avere una funzione pubblica marginale. Per il resto viene ad essere una condiscendenza delle esigenze del capitale, dell’impresa, del privato senza alcun se e senza alcun ma.

Non si trovano sufficienti lavoratori per il comparto turistico nei mesi estivi disposti a fare straordinari e notturni? Nessun problema, invece di promuovere una politica che costringa gli imprenditori ad aumentare i salari, si prendono soldi pubblici e si fa un ennesimo regalo ai padroni e ai padroncini. E’ la lotta di classe fatta dal punto di vista dell’apice della catena di comando, dei poteri forti, di quelli che pretendono di rappresentare il PIL in interezza, ma sono sempre pronti a scansare le percentuali negative lasciandole in mancia alla responsabilità comune.

La grande idea di Fratelli d’Italia e della ministra Santanchè altro non è se non una traduzione pratica di un ennesimo accanimento del privilegio contro i diritti sociali, della forza del padronato contro la debolezza del mondo del lavoro e le troppe condiscendenze del sindacato.

Il ricorso al sacrificio delle finanze pubbliche, dicono questi mediocri teorici e grandi ruffiani del liberismo moderno, occorre farlo per evitare che la crescita e l’espansione economica siano frenate. Una tiritera che è stata canticchiata e geremiadizzata tanto a lungo quanto è diventata una insopportabile ripetizione neniosa, incapace di convincere anche il più fedele servitore del governo di centrodestra (e dei governi precedenti…).

Gli economisti di provata fede liberale e capitalistica, quindi non dei pericolosi marxisti dell’epoca attuale, hanno scritto che la crescita dell’1% a livello continentale (ma riferibile anche al contesto più strettamente nazionale) porta ad una crescita cumulativa del 35%. Quindi se alziamo di mezzo punto la prima percentuale, arriveremo ad un 50% in più per ogni cosa che ci circonda. E questo, come risulta abbastanza lapalissiano, rappresenta una modificazione quasi immediata degli stili di vita che conosciamo.

Se questa stima poteva essere fatta fino ai primi anni 2000, oggi le condizioni globali sono cambiate e la stessa nostra Italia si trova in una situazione che rasenta la recessione e, per molti versi, anche la tanto nominata e così poco capita “stagflazione“.

In pratica, mentre le ricchezze vengono costantemente prodotte e la domanda parrebbe aumentare, con un relativo innalzamento dei prezzi, proprio la crescita inflazionistica determinerebbe una contrazione dell’economia e quindi, dalla simbiosi di questi fattori strutturali si determinerebbe un stop dell’espansione tanto privata quanto sociale.

A farne le spese, si intende, sono coloro che non hanno risorse così ingenti per affrontare una crisi economica su vasta scala. Soprattutto se si tratta di una crisi che è determinata da un post-pandemia e da una moltiplicazione dei fenomeni migratori esponenzializzati dalle guerre che divampano nei paesi di origine. Nonché, ovviamente, dalle vicende europee, dal conflitto tra i due imperialismi che si fronteggiano nel risiko ucraino, sulla pelle di quello e di altri popoli vicini.

La sfacciataggine con cui il governo delle destre propone soluzioni pubbliche, nell’immediato, a problemi economici privati, spacciando il tutto per interesse nazionale e collettivo, è soltanto l’ultimo anello di una lunga catena di contraddizioni che il capitalismo di oggi mette in risalto, aiutandoci a stendere una critica ancora più aggiornata di fenomeni esuberanti ed eclatanti come il forte indebitamento cui vanno incontro intere zone del pianeta, mentre l’altra crisi, quella ambientale ed ecosistemica si fa preponderante e surclassa tutto il resto.

Non esiste una soluzione unica a tutte queste problematiche se non, nell’empireo delle ipotesi e degli auspici, il superamento necessario del sistema capitalistico, del liberismo e la fine dell’economia di mercato, del privato e della stessa proprietà privata dei mezzi di produzione e di ogni cosa da loro prodotta.

Ma questo riguarda la sfera dei desiderata che, tuttavia, devono essere lo strato dei princìpi su cui dare seguito ad una politica convintamente anticapitalista e quindi progressista nel vero senso del termine: senza una inversione di tendenza, senza un capovolgimento degli attuali assi di inviluppo e, pertanto, una proposta critica rinnovata del sistema liberista, non si potranno arrestare le finte crescite sociali dettate da politiche ipocritamente ispirate ad una assistenza dell’indigenza e ad una mitigazione dello sfruttamento con i soldi degli stessi indigenti e sfruttati.

Coloro, in pratica, che a differenza di molti padroni e padroncini, le tasse le pagano tutte quante e con queste si vedono finanziare magari gli stipendi dei propri figli che lavorano per nemmeno seicento euro al mese in una struttura alberghiera di lusso, tanto sulle montagne quanto sulle coste della nostra bella Italia…

C’è, se volessimo fare la prova del nove a tutto questo ragionamento un po’ tecnico e complicato, un elemento da considerare: il risparmio. Chi riesce oggi a mettere da parte una porzione di salario o di pensione, accantonandola e facendola fruttare in un conto corrente postale o bancario? Chi è davvero in grado di farlo ogni mese? Pochissime persone cosiddette “comuni”. Invece l’accumulazione dei profitti è sempre possibile e realizzabile.

Magari fletterà un po’ la percentuale del capitale investito, reinvestito o depositato e scudato nei grandi conti “offshore“, ma ecco che in soccorso di questi lievi cedimenti arriva il deprezzamento del capitale che, con una certa omogeneità e costanza nel tempo, si è aggirato quasi sempre intorno al 10/15% del reddito di un intero paese. Questo se riferito all’economia e, quindi, al “reddito nazionale“.

Se invece si trattasse tutto questo in termini di “reddito disponibile“, quello monetario, quello classicamente inteso come ricchezza personale, allora il rapporto tra capitale e reddito nei paesi ricchi toccherebbe dei livelli molto, molto più alti delle percentuali appena citate. La dismisura che si viene a creare tra livello della ricchezza privata e livello della povertà sociale diviene così enorme da permettere di considerare il patrimonio pubblico italiano come necessario ai soli interessi pubblici della popolazione e del Paese.

Qui la totalità della popolazione deve essere considerata anzitutto come sinonimo di collettività e quindi deve prescindere da qualunque interesse privato. L’impresa pretende di far parte del sistema-Paese soltanto quando la fase economica è in sviluppo e i ricavi generano sempre maggiori profitti. Nel momento in cui stagnazione e inflazione ciclicamente tornano a ricordarci che l’espansione non è infinita, perché la popolazione non è tale e perché, quindi, la domanda ha un punto di partenza e uno di arresto, allora i costi della crisi si riversano tutti sul mondo del lavoro.

La logica del governo viaggia esattamente in questa direzione e fa ancora di più: mette a disposizione dei privati il denaro pubblico, sopperendo alle loro carenze, alle loro scelte sbagliate in campo imprenditoriale e alle speculazioni che si mettono in atto per rischiare maggiori guadagni a scapito sempre e soltanto della grande massa degli sfruttati moderni.

Una simile logica esclude il reddito di cittadinanza dalle norme di tutela dell’indigenza e promuove il lavoro notturno e gli straordinari per far incassare nella seconda ricchissima stagione estiva postpandemica enormi cifre agli imprenditori, mentre i salari languono, mentre i bisogni crescono, mentre la povertà aumenta. L’indecisione di parte dell’opposizione di sinistra su questi temi di macroeconomia, che riguardano la sopravvivenza di milioni e milioni di italiani, è uno dei punti di forza dell’asse tra industriali e governo.

Rompere questo schema è d’obbligo e deve essere il fulcro di un nuovo programma anticapitalista, progressista e di sinistra per i mesi, per gli anni che verranno.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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