La fine di più di un periodo storico
Adesso dove siamo? Nella Terza Repubblica? Perché la seconda pare già archiviata da chi legge, vede, sente e percepisce nella morte di Silvio Berlusconi la chiusura di quel ciclo che si era aperto (o riaperto…) con il crollo delle grandi forze politiche di massa, DC, PCI, PSI e i cespugli del Pentapartito, con la tanto declamata – anche a sinistra… – “fine delle ideologie” – e che ha segnato l’intera società italiana dalla discesa in campo del Cavaliere nero di Arcore fino a poco tempo fa.

Ante litteram, il berlusconismo si era già esaurito, come ricostituente antidemocratico e incivile per l’intero Paese da alcuni lustri, sostituito da eredi tanto di destra quanto di centrosinistra che ne avevano raccolto le peculiarità fondamentali, i tratti fisiognomici di una nuova sorta di mutamento antropologico e sociologico di una Italia in crisi di identità, di egemonia culturale e con una spiccata propensione a gettarsi tra le braccia del liberismo moderno.

Governi tecnici, renzismo e populismi vari, sono stati in differenti forme e modi, la continuazione di un cammino tutt’altro che anticonformista, fintamente rivoluzionario per tanti aspetti, di certo ruffianamente conservatore e reazionario: tanto quanto lo era stata la presuntuosa innovazione forzitaliota dalla metà degli anni ’90 in poi.

La destra che Silvio Berlusconi ha saputo unire prima, unificare poi nel PDL, e tornare a coagulare intorno a minimi comuni denominatori aggiornati alla bisogna, è la vera protagonista del mutamento epocale che ha investito il Paese da trenta e più anni a questa parte. Quando il Cavaliere nero di Arcore scende in campo con un partito da lui fondato, diretto, completamente finanziato e quindi posseduto, i rimasugli della cosiddetta “prima repubblica” riguardano, a questo proposito, un MSI che cresce nei sondaggi, come partito antisistema, antitangentopolizio.

Gianfranco Fini lo porta alla trasformazione, al lavacro termale di Fiuggi, ma dopo che Berlusconi lo abbia preferito a Francesco Rutelli nella corsa a sindaco della capitale: è l’atto fondatore di una alleanza non prematura, ma certamente difficile da immaginare per come si presenterà successivamente. Del resto, al nord la Lega di Bossi punta sull’autonomia, sul federalismo spinto, su un regionalismo non difforme dal progetto calderoliano di oggi, fino a diventare forza secessionista, pervicacemente antimeridionale e pare difficile che si possa tenerla insieme con l’altra destra, quella erede della fiamma tricolore.

Berlusconi ci riesce. Polo del Buon Governo al Sud e Polo delle Libertà al Nord: il collante è quell’insieme di socialisti craxiani, liberali di centro e destra, cattolici di vario tipo, imprenditori e affaristi, marxisti un po’ pentiti e giornalisti ex sessantottini che stanno sotto l’emblema del nuovo partito della nazione, della nuova creatura che sembra la quinta essenza della discontinuità. Nasce l’asse tripartito tra Forza Italia, Lega Nord e Alleanza Nazionale, insieme al Centro Democratico Cristiano e all’Unione di Centro.

La borghesia italiana, il padronato, l’alta finanza e la gerarchia cattolica hanno la loro coalizione. Il liberalismo dai rivendicati contorni crociani è, insieme al tradizionalismo familistico tipico dell’Italia postbellica di un tempo, l’impostazione prima di un fronte anticomunista in cui Berlusconi mette tutto e il contrario di tutto. Sarà la paura dell’arrivo delle sinistre al governo una delle leve primitive e primordiali di una chiamata popolare alla salvezza del Paese da una specie di condanna al pauperismo.

I comunisti, dice il Cavaliere, vogliono impoverirci, farci stare peggio con nuove, nuovissime tasse. Vogliono farci regredire sul piano economico e sono portatori di una serie di novità devastanti sul piano morale.

Lui è “l’unto del Signore“, il “presidente operaio“, una sorta di conducator per cui provano simpatia anche le destre più estreme. La logica imprenditoriale si prende quel che rimaneva della politica pubblica: rampantismo ed arrivismo a buon mercato entrano nella scena istituzionale e sostituiscono quella compostezza formale di rispetto verso il potere che, in un certo qual modo, doveva anche rispondere al proprio elettorato.

La trasformazione strutturale
Le leggi vengono cambiate con una disinvoltura disarmante. Ciò che è contrario alla pianificazione di un piano più che quinquennale in difesa dei profitti, della grande finanza e dei rapporti internazionali tra il capitalismo italiano e le grandi potenze, viene rubricato a marginale: il lavoro non è un diritto, soltanto un dovere.

Quando la CGIL e gli altri sindacati indicono lo sciopero generale, Berlusconi dichiara: «Bisogna lavorare, non scioperare». L’informazione gli fa eco dalle sue televisioni, dai suoi giornali, dalle reti radiofoniche. Manca ancora il supporto internettiano, perché lo sviluppo del web dovrà attendere ancora qualche anno, ma la macchina della trasformazione strutturale del Paese si è messa in moto.

Forza Italia diventa il nuovo partito-Stato, il centro assoluto e assolutizzante della coalizione delle destre che, tuttavia, vivono contraddizioni interne non da poco. Più il potere si accresce e si espande, più la rappresentanza degli interessi borghesi, ed anche di quelli di un moderno proletariato sempre più inconsapevole del suo sfruttamento a tutto tondo, fa gola ai partiti di governo.

I Progressisti occhettiani e il centro di Segni sono stati battuti. Il tripolarismo immaginato finisce qui. L’era del bipolarismo è iniziata. Un altro mutamento, apparentemente sovrastrutturale, in realtà necessario ad una stabilizzazione di un equilibrio che si giocherà al centro dello schieramento. I voti che contano sono quelli che le grandi organizzazioni possono eterodirigere e convogliare verso l’opportunità del momento, verso il duce che ha il favore della classe dirigente.

Gli Stati Uniti benedicono ogni cambiamento epocale che vada nella direzione di una fedeltà atlantica, liberista e conforme al sostegno del loro colonialismo economico-militare. Il governo Berlusconi gode di questa benedizione, mentre la sinistra si dibatte alla ricerca di un pallido riformismo imitatore di una socialdemocrazia che, ben presto, lascerà il posto ad un liberalismo progressista incapace di rispondere ai bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori, scontentandoli, e non riuscendo a soddisfare, al pari di Berlusconi, le esigenze dei confindustriali.

Berlusconi è un Re Mida che si proietta verso la fine del Secolo breve, verso un nuovo millennio. Ogni cosa che tocca diventa vincente. Almeno in apparenza: dalle televisioni commerciali a Milano 2, dai supermercati al Milan, dalle assicurazioni alle banche, da riviste storiche (“TV Sorrisi e canzoni“) ad interi gruppi editoriali. Pare invincibile, insuperabile. Fin dai tempi in cui Craxi gli fece riaccendere i ripetitori delle reti che trasmettevano i programmi di Canale 5, Retequattro e Italia 1 sfidando il monopolio nazionale della RAI.

La dimensione parallela
L’Italia sembra guidata da un genio senza confini, capace di trasmettere il messaggio: “Se ce l’ho fatta io, ce la possono fare tutti“. Un paradgima a stelle e strisce, del self made man che, con il semplice (si fa per dire) impegno indefesso, un po’ di intuito e un pizzico di fortuna, può arrivare ai confini della realtà, oltre l’iperuranio platonico e vicino al tocco delle stelle. L’Italia sogna nella favola berlusconiana che si legge nelle riviste che arrivano a casa: “Una storia italiana“.

Chinato su uno splendido prato fiorito, il Cavaliere detta la regola della felicità universale: abbandonare il pessimismo delle sinistre, abbracciare l’ottimismo delle destre. Il Paese vive in una vera e propria dimensione parallela per un po’ di anni, imbambolato, sedotto dalle promesse del milione di posti di lavoro, dai successi imprenditoriali, dimenticando che la discesa in campo di Berlusconi è la disperata conseguenza di un uomo che, crollato il sistema di potere craxiano e democristiano, teme proprio per le sue fortune.

E’ il panico da “fronte popolare” che spinge molti a coalizzarsi, per evitare che l’Italia possa cadere nelle mani anche soltanto di un timido riformismo di sinistra che metta un po’ d’ordine nei conti e faccia pagare più tasse a chi a di più e meno a chi ha pochissimo per vivere.

L’incanto regge trasversalmente per un po’ di tempo. Ricchi e molto poveri si uniscono nel sostenere il Re del Successo, sperando che ce ne sia un po’ per tutti. E’ l’illusione di un sottoproletariato che si compera con pochi spiccioli e che si dissangua altrettanto facilmente. A farne le spese sono tutte le lavoratrici e i lavoratori: inizia l’era delle privatizzazioni senza alcun discrimine, della precarietà come nuova linea di condotta industriale nella stipulazione dei contratti.

A schermare questa regressione (anti)sociale c’è sempre la televisione che mostra quanti bei prodotti si possono comperare nei supermercati, quanta innovazione prende campo, quante possibilità si hanno con rate sempre più convenienti. Mike Bongiorno e mille altri volti della RAI passano a Canale 5, legittimano nazionalpopolarmente e culturalmente la corazzata mediatica che avanza e diventa imprendibile per ascolti e incassi pubblicitari da parte di altri gruppi.

La dimensione parallela resiste, si innova di continuo: gli italiani diventano sempre meno tutelati e garantiti, ma il Paese non sembra mai essere stato così felice come allora. Eppure il malcontento è evidente, le tasche sono sempre più vuote, le guerre americane sparse per il pianeta condizionano una economia raccontata come “virtuosa” su un terreno addirittura globale…

Berlusconi inizia a vacillare: non solo per le schermaglie tra Lega Nord e Alleanza Nazionale, ma per le inchieste che si ramificano, che lo riguardano e che lo toccano sempre più da vicino. E’ il momento di gridare al fumus persecutionis, al complotto della Magistratura rossa nei suoi confronti, alla dittatura dei giudici comunisti, all’accanimento contro “il primo contribuente italiano“. La risposta del centrosinistra ulivista è la condivisione delle riforme istituzionali: ci prova D’Alema anzitempo, ci riprovano altri successivamente.

Ma l’Italia del Cavaliere è così privata e antipubblica da impedire una felice soluzione dei problemi della Commissione bicamerale e, d’ora in avanti, ogni tentativo di stravolgimento della Costituzione repubblicana verrà respinto tramite referendum. Ma questo non impedirà, sostanzialmente, una torsione autoritaria, uno sdoganamento dei postfascisti, un capovolgimento dei valori fondanti ed egemoni fino a poco tempo prima.

Empatia totale, antipatia parziale
Berlusconi non ha filtri, non si maschera dietro a nulla, se non alla sua incandescente, smargiassante e protuberante simpatia a tutti i costi. Per superare gli ostacoli legale gli si frappongono, rinsalda la coalizione, crea il Popolo della Libertà, unendo Forza Italia e Alleanza Nazionale e raggiunge il massimo della sua popolarità che coincide con l’apice dell’insulsaggine: l’uomo di governo deve mostrarsi come uomo comune, a cominciare dai rapporti personali.

Tutti gli scandali che lo riguardano, tutte le inchieste che si sommano e che non sono proprio delle inezie (le accuse sono pesanti e vanno dalla frode fiscale al falso in bilancio, dall’appropriazione indebita alla corruzione semplice; dal finanziamento illecito ai partiti alla rivelazione di segreto d’ufficio; dalla falsa testimonianza alla prostituzione minorile; dall’evasione fiscale ad altri reati tributari, fino ai rapporti con la mafia), scalfiscono il suo potere, deteriorano la sua credibilità, ma ormai si inseriscono nel quadro di un Paese che tollera tutto questo.

Almeno in larga misura. E lo tollera perché reputa la politica qualcosa di atavicamente corrotto e corruttibile, di cui, alla fine, il Cavaliere sarebbe quasi vittima ma non certamente ispiratore nel nuovo corso dell’era berlusconiana iniziata a metà degli anni ’90.

L’empatia che i suoi sostenitori gli dimostrano è certamente accompagnata da una buona dose di devozione pelosa: tantissime e tantissimi gli devono carriere che altrimenti non si sarebbero mai concretizzate. Dai giornali alla televisione, dalla radio allo spettacolo in generale. E, ovviamente, alla politica.

L’impero si è esteso, è diventato un nuovissimo Paese nel Paese: non solidale, inclusivo, aperto, capace di badare, con la logica del mutuo soccorso, gli uni agli altri, ma tutto improntato ad una sfrontata capacità imprenditoriale che diviene l’unico metro di giudizio della ricchezza personale e anche sociale. Le circonvoluzioni partitiche e i cambiamenti epocali che intercorrono nella realtà europea, italiana ed internazionale segnano, a poco a poco, il cedimento di un sistema di potere che inizia a mostrare tutti i suoi limiti.

L’antipatia che Berlusconi può registrare è indubbiamente diffusa e non riguarda solo la sinistra e il mondo del lavoro. Se almeno nelle prime fasi della sua resistibile ascesa il consenso elettorale era il frutto di una saldatura interclassista, nella fase calante quello che rimane a supporto della nuova Forza Italia è una ridotta della stessa. I giri di valzer parlamentari, tra governi tecnici e tentativi di grandi alleanze di salvezza nazionale, separano dal Cavaliere porzioni di centrodestra che non avranno grande fortuna nel contrapporsigli o nel cambiare addirittura campo.

L’antipatia sociale probabilmente si estende con l’avvento del grillismo, con l’aumento del numero delle inchieste, con un usato che non è più sicuro (ammesso che lo sia mai stato…!) e si unisce a quella politica che serpeggia nella sua stessa sfera di governo prima e di opposizione poi.

Il superamento della sua leadership nella coalizione di centrodestra è, giocoforza, l’atto di discesa agli inferi per Forza Italia, per quella controffensiva delle Ardenne a guerra già ampiamente e visibilmente persa.

L’Italia capovolta
Nel corso di quasi trent’anni, attraverso alterne vicende, salite e discese, vittorie e sconfitte, Berlusconi è comunque riuscito a mettere al sicuro il suo vasto impero finanziario, economico, televisivo, bancario, sportivo, editoriale, eccetera eccetera. Ed è riuscito, insieme a ciò, a capovolgere l’Italia del dopoguerra, nonostante gli stop messi dai referendum che hanno sfidato la volontà popolare.

Il privato, la precarietà, l’egoismo, l’individualismo come elemento fondante di un nuovo corso del Paese, al pari del revisionismo storico, hanno sono stati il programma politico-imprenditoriale di una destra berlusconiana che ha puntato tutto sul contenimento dei diritti sociali nel nome di una contrazione delle lotte, delle rappresentanze delle stesse e, non di meno, nei confronti di una democrazia in cui le minoranze sono divenute sempre meno garantite, sempre più ostracizzate, derise e lasciate ad una inedia, ad una consunzione inesorabile.

L’Italia capovolta da Berlusconi ha finito con l’uniformarsi ad una serie di prerogative dei più forti, dei più ricchi, di maggioranze stabilite per consuetudine e per tradizione: bianchi contro neri, ricchi contro poveri, eterosessuali contro omosessuali, disonesti contro onesti, populisti, fascisti e affini contro democratici ed antifascisti.

L’Italia capovolta da Berlusconi è stata quella del G8 di Genova, dove la mano pesante del governo si è vista nella ferocissima repressione del movimento dei Social Forum che, proprio in quel contesto, ha avuto il suo massimo punto di aggregazione e che, quindi, secondo la logica di un esecutivo padronale, liberista, xenofobo e antiglobal, doveva essere calunniato, mostrato come causa dei disordini, dei pestaggi e delle morti che vi sono state.

Il bastone come soluzione nei confronti di chi aveva fatto emergere un livello di coscienza critica che, effettivamente, era diventata un serio pericolo per la credibilità dell’incredbilità che era al governo del Paese.

Ma l’Italia capovolta di Berlusconi è anche quella della giustizia addomesticata con leggi che hanno cambiato la prescrizione e altre norme ad uso e consumo di chi doveva beneficiarne, tralasciando qualunque considerazione per il diritto come fonte di uguale trattamento legale verso tutti i cittadini. Nella politica del Cavaliere e delle destre da lui forgiate il concetto di uguaglianza è sempre e soltanto una variabile dipendente dall’interesse esclusivamente personale, privato e di parte.

La condiscendenza con cui una parte del centrosinistra ha sempre trattato Berlusconi e le destre come avversari degni di una qualche note, come competitori di un sistema reputato democratico, in cui le elezioni venivano truccate con leggi elettorali pro domo propria, è una colpa storica, incancellabile, che pesa sul seguito delle vicende che hanno riguardato fondamentalmente il PD.

Il bilancio di un trentennio
Se, dunque, si dovesse tentare oggi di fare, a caldo, un bilancio di questi trentanni di epopea berlusconiana, se ne potrebbe trarre come conclusione, provvisoria ma abbastanza aderente alla realtà dei fatti, che il Cavaliere nero di Arcore ha rappresentato veramente nel miglior modo il peggio della società italiana. Gli esempi che ha dato sono stati tutti in controtendenza rispetto ad una sostanziale coincidenza con i valori di una Repubblica intesa come res publica, come bene comune, come affare di tutti e proprietà di nessuno.

Berlusconi è la trasfigurazione della democrazia in quella che è stata acutamente definita una “democratura“, un regime apparentemente rispondente al formalismo legale, costituzionale, ma de facto un governo (ed una opposizione) fondato sul privilegio, sulla discriminazione, sull’egoismo, sull’alienazione, sulla riscoperta dell’uomo solo al comando come unica soluzione ai problemi del Paese.

Le peggiori leggi che sono state fatte, a discapito del mondo del lavoro, dei migranti, delle comunità LGBTQIA+ e di tutte quelle presunte minoranze esistenti nello Stivale, sono norme varate da governi presieduti dal Cavaliere. Si potrebbero citare tutte le cosiddette “leggi ad personam” che hanno visto la luce dal 1994 in poi…

Tanto per gradire: il Decreto Biondi sulla custodia cautelare in carcere; la Legge Tremonti sulla detassazione del 50% degli utili reinvestiti dalle imprese; la Legge delega 61 del 2002 sulla riforma dei reati societari; la mancata ratifica del mandato di cattura europeo; la Legge Cirami sulla “legittima suspicione“; il Lodo Maccanico-Schifani sui processi SME e Mondadori e poi, ancora, condoni fiscali, la Legge Gasparri… Troppe ce ne sono.

Con Berlusconi la politica italiana diventa molto più che cosa privata: diventa una cosa personale, tutta gravitante attorno alla sua individualità, al suo impero, al suo essere prima di ogni altra cosa imprenditore di successo. Un successo ottenuto grazie alla compiacenza della politica e grazie alla politica della compiacenza.

Nelle reti unificate dalla sospensione del giudizio, nel nome della comprensione un po’ funerea, del rispetto per l’uomo e per il genio dell’economia e della politica, ci si dimentica anche quella locuzione che per tanti anni ha invaso le colonne dei giornali, serpeggiato nei salotti televisivi che si stavano già trasformando in casse di rissosità rissonante: il “conflitto di interesse“.

Qualcosa che ci ha sempre negativamente contraddistinto dal mondo anglosassone e dalla sua integerrimità in materia di verità e interessi pubblici e privati. In realtà è difficile poter dire quale sarebbe stata la linea di confine, il punto di non ritorno sorpassato nel dire una totale, mezza, o tre quarti di verità davanti al Parlamento: una posizione essenzialmente politica in materia di tasse, di fisco, di lavoro? Oppure il fatto che Ruby Rubacuori fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak?

L’Italia ricapovolta
La morte di Berlusconi è la fine di una Italia già finita da tempo e, nonostante ciò, non fosse altro per il suo portato simbolico, da oggi quella fine la segna per davvero, materialmente, plasticamente, senza più ombra di dubbio. Le incognite per il governo Meloni possono riguardare la tenuta di Forza Italia che, con la perdita della sua identità personificata e insostituibile, rischia l’ultima implosione, l’irrilevanza in mezzo a FdI in crescita di consensi e ad una Lega da questo punto di vista stabile.

Non è da sottovalutare il potenziale ritorno del Terzo Polo, alla charger di ciò che rimane di liberaldemocratico dentro il fortilizio berlusconiano già sensibile al correntismo centrifugo, trattenuto fino ad ora dalla presenza del suo fondatore e padrone.

Non è da scartare alcuna ipotesi di tenuta o meno del governo. Ma, almeno l’impressione che si ricava dal nuovo corso meloniano delle destre di governo, è che queste si siano sapute emancipare per tempo dalle influenze berlusconiane: indubbiamente grazie ai numeri acquisiti alle elezioni, ma ottenuti proprio in virtù di più passaggi tesi a smarcarsi dall’interpretazione “storica” del tridente del centrodestra.

Il capovolgimento dell’Italia berlsconiana oggi somiglia ad un ricapovolgimento, per non tornare ad ipotizzare una alternativa di centrosinistra che, per quanto fornisse qualche garanzia in merito, impediva una nuova rassicurazione pressoché totale nei confronti dei privilegi delle classi dominanti per lungo tempo protette dal regime della proprietà privata esaltata dal Cavaliere come fonte di ogni benessere. Suo, di certo.

Per troppo tempo l’antiberlusconismo è stato il nutriente della sinistra di fine secolo e di inizio millennio. Proprio lì Berlusconi e suoi corifei volevano che finisse il dibattito: nell’alternanza e non nell’alternativa, nel bipolarismo obbligato dalle leggi elettorali, ed alimentato dalle politiche simili tra centrodestra e centrosinistra in materia economica e sociale,  piuttosto che nella pluralità proporzionale delle posizioni espresse dall’elettorato.

Ora non abbiamo più alcuna scusa per essere antiberlusconiani. Abbiamo molti motivi, ed uno in più, per essere comunisti, di sinistra, antifascisti e democratici. Berlusconi è morto, ma la sua Italia sopravvive ancora. Una Italia che non vogliamo e non dobbiamo vedere e vivere mai più.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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