Chiunque voglia discutere della prima analisi del fascismo italiano, presentata 100 anni fa, il 20 giugno 1923, da Clara Zetkin (1857-1933), non può fare a meno di parlare della sinistra italiana e dei suoi punti deboli. Perché come in guerra, così in storiografia: la prima vittima è spesso la verità.
di Jörn Schütrumpf* – Rosa Luxemburg Stiftung
Anche Lucio Magri, il grande esponente della sinistra democratica italiana, considerava l’inizio del movimento comunista in patria come risalente alla fondazione del Partito Comunista Italiano (PCI), avvenuta nel 1921. È importante riconoscerlo e far sì che questo riconoscimento avvenga con la consapevolezza che Magri ha agito con la massima sincerità in questo senso. Magri, che fu espulso dal PCI nel 1969, come altre icone della sinistra contemporanea che furono espulse anche a causa della loro simpatia per la Primavera di Praga,[1] è certamente al di sopra di ogni sospetto di doppiezza. Ciò dimostra semplicemente che anche gli autori più rispettabili possono non riuscire a discernere la vera storia nascosta dietro la storiografia dominante.
Infatti, non fu la fondazione del PCI a segnare l’inizio del movimento comunista in Italia, bensì l’ammissione del Partito Socialista Italiano (SPI) nell’Internazionale Comunista due anni prima.
La frammentazione della sinistra italiana
L’intera vicenda è preceduta da una lunga preistoria, che fa parte anche della preistoria del fascismo italiano.
Nel 1907, al congresso di Stoccarda, i partiti politici europei ed extraeuropei riuniti sotto la bandiera dell’Internazionale Socialista (nota anche come “Seconda Internazionale”) decisero che, in caso di guerra, avrebbero fatto tutto il possibile per porre fine alla carneficina nel più breve tempo possibile. Mentre in Germania il Partito Socialdemocratico (SPD), come i partiti socialisti di quasi tutti gli altri Stati in guerra, alla fine abbandonò questa decisione, lo SPI fu l’unico partito della Seconda Internazionale con un numero consistente di iscritti ad attuare la risoluzione del 1907 durante la Prima Guerra Mondiale e a rifiutare coerentemente di partecipare attivamente alla guerra.
Nel settembre 1915, a Zimmerwald, nella Svizzera neutrale, Robert Grimm, editore del giornale socialdemocratico Tagwacht pubblicato a Berna, e Angelica Balabanoff,[2] la leader più importante dei socialisti italiani (nel 1919 ricoprì per breve tempo la carica di prima “segretaria” dell’Internazionale Comunista), si adoperarono affinché i vari filoni dell’ampia sinistra europea potessero comunicare tra loro per la prima volta dopo lo scoppio della guerra: da Lenin, che chiedeva di trasformare la guerra mondiale in una guerra civile globale, ai pacifisti tedeschi e francesi che non erano affatto disposti a sostituire una guerra con un’altra, ma che – in linea con la risoluzione della Seconda Internazionale del 1907 – volevano semplicemente porre fine alla guerra il più rapidamente possibile.
Fondato nel 1892, lo SPI si posizionò tra questi due poli opposti. Al congresso del partito tenutosi nel 1912, la base del partito aveva votato contro la generazione riformista dei fondatori di Filippo Turati. Da allora, il partito era stato guidato dalla sinistra rivoluzionaria guidata da Giacinto Menotti Serrati, Angelica Balabanoff e – fino all’inizio della guerra – da Benito Mussolini, che sarebbe poi diventato un dittatore fascista.
Fu anche grazie a questa esperienza che Rosa Luxemburg, Clara Zetkin e i loro seguaci giunsero a credere che anche in Germania sarebbe stato possibile avviare la socialdemocrazia su una strada che avrebbe dato al partito la possibilità di affrontare una situazione rivoluzionaria, vale a dire che il partito sarebbe stato in grado di riconoscere – ovviamente seguendo un percorso di sobria analisi – i passi successivi da compiere in ogni caso per far crescere la rivoluzione, per poi presentarli alle masse mobilitate.
È proprio così che aveva funzionato la Rivoluzione francese del 1789, con la differenza che in quel caso non c’era un solo partito politico a fare da tirapiedi: di fronte ai crescenti livelli di radicalizzazione, la direzione ideologica si era spostata dal centro-destra all’estrema sinistra.
Quando i bolscevichi fondarono a Mosca, all’inizio di marzo del 1919, la Terza Internazionale, nota anche come Internazionale Comunista, il Partito Socialista Italiano non tardò ad aderire a questa nuova organizzazione internazionale. Il Partito Socialista Italiano non aveva potuto partecipare alla fondazione dell’Internazionale Comunista per mancanza di opportunità, così come nessun altro partito politico straniero.
L’unico delegato straniero che aveva un mandato adeguato per il congresso di fondazione era il tedesco Hugo Eberlein di Saalfeld, in Turingia. Tuttavia, egli aveva ricevuto un mandato limitato da Rosa Luxemburg – poco prima del suo assassinio il 15 gennaio 1919 – per opporsi in ogni caso alla formazione dell’Internazionale Comunista.
Rosa Luxemburg, polacca, e i suoi amici avevano aderito al Partito Socialdemocratico del Lavoro russo tra il 1906 e il 1912. Il partito era composto dai bolscevichi di Lenin, dai menscevichi di Julius Martov e da alcuni indipendenti come Leon Trotsky e Anatoly Lunacharsky. Fu soprattutto l’esperienza di Rosa Luxemburg con Lenin a farle temere che i bolscevichi potessero tentare di dividere i partiti stranieri creando una nuova Internazionale per sottomettere i “volenterosi”.
Come si sarebbe poi dimostrato in Italia, i timori di Rosa Luxemburg erano in realtà più che giustificati. Prima ancora della fondazione dell’Internazionale Comunista, nel marzo 1919, i bolscevichi inviarono a Trieste due provocatori, armati di documenti e di molto denaro, per seminare la divisione tra le varie fazioni della sinistra socialista italiana. Angelica Balabanoff ricordò in seguito:
Ero molto preoccupato e andai a trovare Lenin […]. Con mio grande stupore (questa interazione era precedente alla fondazione dell’Internazionale Comunista; si cominciava appena ad adottare i metodi dei bolscevichi all’interno del più ampio movimento internazionale), Lenin non apparve né sorpreso né indignato: sembrava invece irritato dal mio appello. “Anche questi sono sufficienti per schiacciare il partito di Turati”, osservò con rabbia.
Poche settimane dopo, in Italia scoppiarono feroci proteste: “I ragazzi non avevano fatto altro che alimentare un senso di indignazione generale, elargendo enormi somme di denaro in locali di alto livello e bordelli”[3] Così, questo primo attacco ai socialisti italiani era naufragato.
Gli eventi proseguirono a Mosca nell’estate del 1920. Il comitato direttivo del II Congresso mondiale dell’Internazionale Comunista era composto da Lenin e Karl Radek – entrambi bolscevichi ed ex oppositori della socialista democratico-rivoluzionaria Rosa Luxemburg – e da due figure di spicco della sinistra italiana e tedesca, Serrati e Paolo Levi, entrambi rimasti alleati di Rosa Luxemburg nello spirito anche dopo il suo assassinio e come tali contrari alla politica di divisione e di dominio di Lenin.
I fascisti avevano individuato proprio l’elemento che aveva reso il movimento socialista così vincente in Europa occidentale – la visione di un mondo migliore – e riuscirono a presentarlo sotto le spoglie di un programma rivoluzionario.
Dietro le quinte del Secondo Congresso Mondiale, le due parti erano seriamente ai ferri corti. Ma naturalmente i verbali ufficiali del congresso non ne fanno menzione. Wilhelm Pieck, che in seguito diventerà presidente della Germania dell’Est (non era certo il cofondatore più intelligente del Partito Comunista di Germania, ma era il più capace di sopravvivere), riportò innocentemente gli eventi nella sua rivista nel 1921, dopo che Paul Levi era stato espulso dall’Internazionale Comunista. All’epoca, la censura non era ancora in piena attività.
Ma all’indomani del Secondo Congresso Mondiale, i bolscevichi cominciarono a fare sul serio. Riunirono alcuni esponenti della sinistra italiana di calibro molto diverso: il gruppo guidato dall’economista Antonio Graziadei, [4] insieme ai sostenitori di Nicola Bombacci, Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga ed Egidio Gennari. Nell’autunno del 1920, questi esponenti della sinistra italiana permisero ai bolscevichi di formare una fazione comunista all’interno dello SPI – nel tentativo di assicurarsi il sostegno della maggioranza al successivo congresso del partito, che si tenne a Livorno nel gennaio 1921.
Si rivelò un clamoroso fallimento. Nonostante ciò, i bolscevichi optarono per la trasformazione della fazione comunista in un partito comunista separato, in gran parte irrilevante. Di queste figure, solo una ha una rilevanza duratura nei circoli intellettuali di oggi: Antonio Gramsci. Il resto del Partito Socialista si frammentò in una serie di gruppi diversi. Lenin aveva raggiunto il suo obiettivo di eliminare il partito di Turati.
Mussolini beneficia della scissione
La persona che beneficiò maggiormente della scomparsa del movimento operaio socialista in Italia fu Benito Mussolini. Mussolini, che era redattore capo del giornale dei socialisti italiani “Avanti!”, era stato acquistato dall’agenzia di intelligence francese nell’autunno del 1914.
L’intermediario dell’agenzia di intelligence francese era il socialista Marcel Cachin, che aveva co-fondato il Partito Comunista Francese nel dicembre del 1920. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1958, l’agente dei servizi segreti francesi rimase uno dei più fedeli sostenitori dei bolscevichi. Utilizzò una somma di denaro adeguatamente generosa per convincere Mussolini a fondare un proprio giornale, il Popolo d’Italia. Il giornale sosteneva la partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale – e la necessità che il Paese si alleasse con Francia e Gran Bretagna – in un momento in cui la maggioranza degli italiani era riluttante a entrare in guerra.
I francesi, che naturalmente stavano facendo altre mosse in Italia, avevano fatto un buon investimento: il 23 maggio 1915, l’Italia – nonostante l’alleanza con l’Austria-Ungheria e la Germania – entrò nel conflitto mondiale a fianco dell’Intesa. Ne uscirono vittoriosi, ma con poco da mostrare per i loro sforzi.
Una cosa che i francesi non avevano previsto, tuttavia, è che Mussolini avrebbe fondato un proprio movimento all’indomani della guerra, che intendeva mobilitare contro i suoi ex compagni del movimento operaio: lo chiamò Fasci di combattimento.
Il movimento fascista di Mussolini attraversò l’Italia sulla scia della scissione del movimento socialista del Paese operata dai bolscevichi. Nel febbraio del 1921, il Paese contava solo circa 1.000 fascisti, mentre nel 1922 le loro fila erano più di 300.000. Le bande di teppisti di Mussolini fecero irruzione nelle riunioni dei lavoratori, incendiarono le case degli operai e assassinarono i leader socialisti a tutti i livelli.
Il governo italiano, per nulla irritato da questo sviluppo, chiuse gli occhi. I grandi proprietari terrieri e industriali se la passavano bene, mentre il movimento operaio italiano, che si stava frammentando in diversi gruppi, veniva eroso a poco a poco.
Dal 27 al 31 ottobre 1922, Mussolini inscenò quella che divenne nota come Marcia su Roma, un evento che portò all’instaurazione della prima dittatura fascista del mondo. Per chi osservava gli eventi da oltreoceano, l’intero spettacolo fu considerato – anche dai membri della sinistra – un “classico” esempio di controrivoluzione, come quello avvenuto in Ungheria sotto l’ammiraglio Miklós Horthy.
L’analisi di Clara Zetkin sul fascismo
Solo una donna si staccò: Clara Zetkin, la fondatrice del movimento internazionale delle donne socialiste. Clara Zetkin era l’unico volto familiare e presentabile dell’Internazionale comunista al di fuori della Russia sovietica. Questo fu uno dei motivi della sua influenza nei primi anni dell’Internazionale Comunista.
In gioventù, a Lipsia, si era formata non solo come insegnante di francese e inglese, ma anche di italiano. All’inizio del governo di Mussolini, la stampa non era ancora stata messa in riga e così Zetkin, già gravemente malata, si fece recapitare a casa sua, a Sillenbuch, vicino a Stoccarda, tutte le pubblicazioni italiane disponibili. Ben presto si rese conto che stava accadendo qualcosa di inedito. I punti di riferimento esistenti stavano naufragando.
Clara Zetkin esortò i bolscevichi a presentare la loro analisi del fascismo a una riunione del Comitato esecutivo allargato dell’Internazionale comunista (ECCI) nel giugno 1923, nonostante fosse ben consapevole che era improbabile che i bolscevichi avrebbero accettato idee che non avevano elaborato loro stessi. Nel 1921 aveva scritto a Paul Levi: “I nostri amici a Mosca… non hanno ancora imparato che mentre il proprio pugno è il più delle volte sufficientemente indispensabile, in Occidente, dalla fine del Medioevo, non è più permesso dare pugni in faccia alla gente; ci si aspetta invece che si infili la mano in un guanto di velluto e si accarezzi il viso dei propri simili”[5].
Benché contrario al viaggio a Mosca, anche il figlio maggiore di Clara Zetkin, un medico, sapeva che la resistenza sarebbe stata inutile e per questo scelse di accompagnare la madre malata nel suo viaggio. Arrivata a Mosca, Clara Zetkin fu portata in braccio nella sala delle riunioni il 20 giugno 1923. Non potendo stare in piedi, divenne la prima e unica persona nella storia dell’Internazionale Comunista a tenere il suo discorso da seduta.
Naturalmente, Clara Zetkin era ben consapevole della politica catastrofica perseguita dai bolscevichi in Italia. Ma il danno era già stato fatto. Non restava che fare in modo che non causassero ulteriori disastri.
Il primo allontanamento dalla forma classica di controrivoluzione che Clara Zetkin aveva tracciato in dettaglio: “… la base del fascismo non sta in una piccola casta, ma in ampi strati sociali, in ampie masse, che arrivano fino al proletariato”. I fascisti avevano individuato l’elemento che aveva reso il movimento socialista così vincente in Europa occidentale – la visione di un mondo migliore – e riuscirono a presentarlo sotto le spoglie di un programma rivoluzionario.
Clara Zetkin visse per assistere all’ascesa al potere dei nazisti in Germania nel 1933. Fuggì a Mosca, dove morì il 20 giugno 1933.
A causa dell’incapacità dell’Italia di riprendersi dalla crisi del dopoguerra, l’ideologia fascista vi attirò masse di persone provenienti da strati sociali molto diversi. Secondo Zetkin, il fascismo era diventato “un asilo per tutti i senzatetto politici, gli sradicati sociali, gli indigenti e i disillusi. … Possiamo combattere il fascismo solo se comprendiamo che suscita e travolge ampie masse sociali che hanno perso la precedente sicurezza della loro esistenza e con essa, spesso, la fiducia nell’ordine sociale”.
Per Clara Zetkin era “evidente che il fascismo ha caratteristiche diverse in ogni Paese, in base alle circostanze specifiche. Tuttavia, in ogni Paese ha due caratteristiche essenziali: un falso programma rivoluzionario, che si collega in modo estremamente intelligente con gli umori, gli interessi e le richieste di ampie masse sociali; e l’uso di un terrore brutale e violento”.
Mentre i bolscevichi concepivano e praticavano la loro politica in termini militaristici e polizieschi, Clara Zetkin adottò un approccio alla lotta contro il fascismo che nessuno aveva mai perseguito con lo stesso rigore di Rosa Luxemburg:
I mezzi militari da soli non possono sconfiggerlo, se posso usare questo termine; dobbiamo anche sconfiggerlo politicamente e ideologicamente. … Dobbiamo lottare più energicamente non solo per le anime dei proletari caduti nel fascismo, ma anche per quelle dei piccoli e medi borghesi, dei piccoli contadini, degli intellettuali – in una parola, di tutti gli strati che oggi sono posti, per la loro posizione economica e sociale, in un conflitto sempre più acuto con il capitalismo di larga scala.
Antonio Gramsci in seguito si riferì a questa battaglia come alla lotta per l’egemonia.
Clara Zetkin prosegue:
Il fascismo non chiede se l’operaio in fabbrica ha un’anima dipinta con i colori bianchi e blu della Baviera, o se si ispira ai colori neri, rossi e oro della repubblica borghese, o al vessillo rosso con la falce e il martello. Non si chiede se l’operaio voglia restaurare la dinastia dei Wittelsbach, se sia un fan entusiasta di Ebert o se preferisca vedere il nostro amico Brandler alla presidenza della Repubblica Sovietica Tedesca. Per il fascismo conta solo incontrare un proletario cosciente della propria classe e poi prenderlo a bastonate. Ecco perché i lavoratori devono unirsi per lottare senza distinzioni di partito o di appartenenza sindacale.
E più specificamente, dovrebbero unirsi per formare, come lo chiama Zetkin, un “fronte unito proletario” – in altre parole, l’antitesi stessa della politica di divisione dei bolscevichi.
Clara Zetkin aveva frequentato da giovane Friedrich Engels, già anziano a quel tempo. Engels era sempre stato propenso a inquadrare le masse organizzate come Gewalthaufen (“folle di forza” o “folle di violenza”) che la forza militare poteva fare ben poco per contrastare. Clara Zetkin fece eco a questo concetto:
Non dobbiamo combattere il fascismo alla maniera dei riformisti in Italia, che li pregavano di “lasciarmi in pace, e poi io lascerò in pace te”. Al contrario! Rispondere alla violenza con la violenza. Ma non la violenza sotto forma di terrore individuale, che sicuramente fallirà. Ma piuttosto la violenza come forza della lotta di classe proletaria rivoluzionaria organizzata.
Mentre i bolscevichi avevano sempre considerato la classe operaia russa e i suoi contadini onnipotenti come obiettivi primari della loro politica, Zetkin ampliò il campo d’azione: invece della divisione, il primo passo per lei era il fronte unito proletario. Ma non si fermò lì:
Dobbiamo sforzarci di affrontare gli strati sociali che ora stanno scivolando nel fascismo e incorporarli nelle nostre lotte o almeno neutralizzarli nella lotta. … A mio avviso, è estremamente importante portare avanti in modo mirato e coerente la lotta ideologica e politica per le anime di questi strati, compresa l’intellighenzia borghese.
Il discorso di Clara Zetkin fu accolto da lunghi ed entusiastici applausi. Ma non ebbe alcun impatto sulle macchinazioni dell’Internazionale Comunista. Non una sola delle proposte della Zetkin fu attuata.
In realtà, a partire dal 1928, i bolscevichi seguirono la strada opposta: non vedevano i fascisti come i loro avversari più pericolosi, ma piuttosto i “socialfascisti”, cioè i socialdemocratici. Piuttosto che combattere per le anime delle classi non proletarie, adottarono lo slogan “Classe contro classe!”.
Clara Zetkin visse per assistere all’ascesa al potere dei nazisti in Germania nel 1933. Fuggì a Mosca, dove morì il 20 giugno 1933.
L’ultima parola spetta ad Angelica Balabanoff, che nel 1920 parlò del suo ex compagno Nikola Bombacci, che i bolscevichi avevano contribuito a plasmare:
Durante una riunione del Congresso dell’Internazionale Comunista, ai presenti fu chiesto di scrivere qualcosa su Lenin in un album dedicato alla celebrazione di un anniversario o altro. Ciò che Bombacci scrisse era talmente insensato e dimostrava una così palese ignoranza del socialismo che, quando gli feci notare questo particolare contributo, Lenin esclamò con rabbia: “Non parlarmi di quell’idiota analfabeta”.
Nel 1933, Bombacci cambiò schieramento e divenne il più stretto confidente di Benito Mussolini. Un’immagine iconica, entrata nella memoria visiva collettiva europea, mostra una stazione di servizio a Milano con quattro persone appese alle travi, a testa in giù, sospese per i piedi: uno dei corpi è quello di Mussolini, un altro è quello della sua fidanzata Clara Petacci; uno degli altri due uomini è Nikola Bombacci – a lungo lodato dai bolscevichi come leader dei comunisti italiani.
*Jörn Schütrumpf ha diretto la ricerca su Rosa Luxemburg della Fondazione Rosa Luxemburg fino al suo pensionamento nel 2022.
Traduzione in italiano a cura di Sinistra in Europa
Note:
[1] Rossana Rossanda (1924-1920) si considerava una marxista nella tradizione di Rosa Luxemburg, Valentino Parlato (1931-2017) è stato uno dei principali funzionari del PCI negli anni Sessanta, e Luciana Castellina (nata nel 1929) è stata una delle principali giornaliste del PCI fino alla sua espulsione – dal 2016 è membro di Sinistra Italiana.
[2] Angelica Balabanoff (1869-1965) nacque nell’alta borghesia ucraina. Nel 1921 ruppe con i bolscevichi, che privilegiavano sempre più la ricerca del potere rispetto alla realizzazione dei loro obiettivi socialisti, e tornò in esilio.
[3] Angelica Balabanoff, Lenin oder: Der Zweck heiligt die Mittel, 2a edizione riveduta, Berlino 2018, p. 73.
[4] Il conte Antonio Graziadei (1873-1953), generalmente indicato come Antonio, fu espulso dal PCI nel 1928.
[5] Clara Zetkin a Paul Levi, 10 gennaio 1921.