Imostri laicamente sacri della politica italiana ogni tanto ritornano. A volte nemmeno se ne sono andati mai; noi facciamo finta di non accorgercene, soprassediamo soprappensierando, divaghiamo per distrarci dalla monotonia incedente che percuote le nostre moralmente misere esistenze e perculiamo il primo sciroccato che incontriamo per strada ritenendoci così più accettabili dalla morale comune, dall’opinione pubblica, dal perbenismo del nuovo millennio.
Per sentirci eticamente altolocati e presuntuosamente diligenti ad una assuefazione costante di problemi da cui ci scansiamo, con il solito, tristo e retrivo alibi del “mica posso fare tutto io“, la distanza che poniamo tra noi e gli altri è quella dell’elevazione comica di chi un tempo ti dava l’America o il Brasile (che poi sta sempre in America) e poi è finito a fare il capopopolo, il condottiero delle truppe dell’onestà assoluta, della brillante, sciccosissima intangibilità da tutto il resto.
Il Grillo parlante ritorna ora, mentre l’estate sta per cominciare e non finendo e un anno ancora non se ne va. Sale sul palco di una manifestazione romana dove baci e abbracci si sprecano sperticatamente e dove giornali un tempo comunisti e ora timidamente riformisti, votati al “campo largo“, plaudono scorticandosi le mani mentre Fratoianni, Schlein e Conte si incontrano, non si scontrano, si stringono le mani e fanno le prove della lotta alla precarietà a trecentosessanta gradi.
Fa così caldo, da dare già un po’ alla testa. La folla assiepata, sotto le bandiere bianche dei Cinquestelle verso il 2050, ritma antiberlusconianamente un canto tribal-politico, quasi catartico, metafisico certamente, non appartenente a quella cultura di sinistra e progressista che pretenderebbe di rappresentare in parte: “C’è solo un presidente! Un presidenteeee…“.
A metà tra tifo calcistico e la fede nel Movimento dei movimenti, ognuno si gode un briciolo di rivincita: la piazza galvanizza, elettrizza e ci vuole davvero poco per credersi ad un megaconcerto.
Lo spettacolo, del resto, c’è: il comico rinascente sale sul palco tiene un discorso senza capo né coda, ma nella coda sta un po’ sempre il veleno. Almeno così se la raccontavano gli antichi, saggi, onniscientissimi progenitori delle stirpe italiche in quella romanità fatta propria un po’ da chiunque abbia provato a rifondare un impero, a proclamare il patriottismo come base angolare della nazione.
Insomma, il comico parla, riparla, straparla, antepone, pospone, dice e ridice cose già sentite, trite e ritrite. Poi aggiunge qualche battuta un po’ nuova, perché, alla fine della fiera, questi che lo ascoltano mica hanno pagato il biglietto e quindi qualcosa bisogna pure dargli per tenerli buoni sotto il sole ad ascoltare la giaculatoria delle facezie.
Così compaiono, accanto a vecchie lotte del Movimento dei movimenti, gli incappucciati che di notte – senza tutta questa calura – dovrebbero andare in giro a sistemare le aiuole. Battute a parte, Grillo alcune cose ipergiuste le dice: a partire dal “reddito universale incondizionato“. Questo per «contrastare i danni che farà l’intelligenza artificiale». Quella che alcuni anni fa proprio il gotha del pentastellatismo esaltava come progenitrice di una nuova forma di democrazia partecipata.
E’ chiaro che qui la intende al servizio delle grandi multinazionali, del capitalismo globale e continentale, di tutte quelle strutture economiche e finanziarie che sanno come sedurre le masse, come sostituirne la forza lavoro con robotizzazioni e algoritmi iper, iper e ancora ipermoderni.
Per questo quel tanto che di progressista si intravede nei discorsi surrealistici e pseudo-futuristi del grillismo sbiadito di oggi, va preso alla lettera, altrimenti si corre il rischio di non capire perché la svolta di Conte verso sinistra sia passata abbastanza indolore nelle traversie elettorali e in quelle parlamentari. Non senza gli inciampi clamorosi ma consueti delle amministrative, smentiti comunque dai sondaggi nazionali appena appena post-voto.
Il Movimento dei movimenti regge in mezzo al deserto ideologico, culturale, politicamente scorretto di un’era meloniana orfana del berlusconismo e ora anche di Berlusconi stesso. Non che questi sia di grande nocumento per la destra rinsaldatasi attorno alle fiamme tricolori, ai saluti romani e a quello che viene prontamente sminuito, minimizzato e quasi autoridicolizzato come rimembranza e niente più.
Ricordi. Ricordi del passato che non passa e che si fonde con un’applicazione del liberismo che, oggettivamente, è ferocissima e che comprende tutta quella povertà diffusa, la aggredisce, la vilipende e la lascia sul selciato a morire di inedia. Se dallo spettacolo grillino viene una voce di tenuta in considerazione di questo aspetto complesso della società italiana, evviva.
Il tema del reddito garantito, di un salario minimo orario di uguale fatta, è centrale nella rivendicazione di una alternativa di società, di una lotta per il cambiamento, per la continua denuncia che questo sistema di cosiddetto sviluppo è improcrastinabile e, qualora dovesse durare ancora decenni e decenni, forse secoli, la condanna per il pianeta sarebbe senza appello.
Il tema del reddito, dunque, è il collante di un neoprogressismo che i Cinquestelle fanno bene a porre, a cavalcare, a mettere sul tavolo della trattativa per il campo largo. La pienezza delle contraddizioni sta tutta nel PD: Bonaccini è difficile che la pensi come Elly Schlein in materia di sguardo quasi unilaterale verso il mondo del lavoro, critica su quello delle imprese, ma pure pronta ad un compromesso non archiviabile come metodo di unità interna e di proiezione elettorale susseguente.
Da Unione Popolare, quindi da Rifondazione Comunista e Potere al popolo!, al PD si può oggi, se non stabilire un campo largo di alleanze, quanto meno condurre singole lotte comuni: a cominciare dalla lotta per un salario minimo, per un reddito inclusivo, per quello universale citato da Grillo, per un contrasto senza mezzi termini alla precarietà diffusa, architrave del mantra ideologico liberista, dei primi anni ’80 e ’90 del Secolo breve, sulle privatizzazioni e sulla flessibilità lavorativa.
La globalizzazione ha disumanizzato, desertificato, sfruttato tutto quello che era sfruttabile e spinge, ed è pure spinta dai governi ad aumentare questi livelli di precarizzazione antipopolare, antisociale, incivile, immorale e innaturale per antonomasia. Nulla di quello che oggi viene prodotto può dirsi adeguato agli standard di sopportabilità della Natura con la enne maiscuola.
La lotta per il salario e per il reddito, quindi, è una lotta per aprire un varco, tra gli altri, nelle crepe del capitalismo iperbolico, riducendo qualunque considerazione ragionevole e pragmatica dei teorici del mercato a quello che veramente dimostra di essere: pura astrazione che fa leva su una insensibilità congenita di chi deve, per spirito di classe, per appartenenza a quella classe, porre una intercapedine tra il proprio profitto e il resto del mondo.
Questa nostra Italia maltrattata e violentata nei suoi più reconditi e preziosi ricordi resistenziali, nella sua conformazione ed essenza antifascista, nel suo essere il Paese moderno della solidarietà sociale e civile, dell’incontro tra morale e ragione, tra laicità e religiosità, tra fede e scienza, tra spirito e coscienza, deve sentire la necessità di un riscatto non più giustizialista ma giusto. Una riapertura di credito ad una sensibilità condivisa, ad una obiettività comune.
Da una parte c’è una destra plurale fatta di pregiudizi, precondizioni, odio, rabbia intestina, stomachevole e biliosa, che lavora al disfacimento della Repubblica parlamentare, tanto della sostanza quanto della forma dei diritti – e quindi anche dei doveri – dell’essere umano e del cittadino. Dall’altra deve potersi ricomporre uno spettro che si aggiri, tutt’altro che ectoplasmaticamente, per una Italia diroccata, franosa, allagata e siccitosa per farne l’esatto opposto.
Ognuno deve rimanere fedele alla propria visione, considerata pragmatica, reale, irreale, utopistica, fantasiosa, visionaria stessa e deve poter portare in questo dibattito costruente e costituente un contributo. Non ci possono essere esclusività e diritti di autore tanto sui termini quanto su quello che veramente si intende realizzare: una opposizione intransigente alle destre che sia il più ampia possibile e che non sia un carrozzone elettorale.
Che sia un sentimento diffuso nel Paese, una tensione emotiva che vada oltre l’emotività e che diventi coscienza critica. Ma per fare questo occorre che si parli anche un linguaggio diverso nei confronti del popolo e che si torni a considerarlo come una entità non astratta ed astraibile dai contesti ma, anzi, includente e includibile in ogni problema singolo e collettivo che si presenta come punto di caduta locale di tematiche molto più generali e globali.
Il neoprogressismo non è un neologismo irriverente, azzardato, privo di aderenza nella realtà: lo si può costruire, avendo sempre a mente che nessuno ha la sfera di cristallo o la bacchetta magica e che solo un lavoro di condivisione tra le differenze storiche della sinistra e le tendenze nuove di una stessa reinvenzione della medesima, può portare ad una riconoscibilità sua da parte non solo di un elettorato che torna a votare, ma di un popolo che torna ad essere protagonista della sua vita, della sua storia.
MARCO SFERINI