Oltre 40mila agenti schierati, auto incendiate, commissariati assaltati, saccheggi, nella terza notte di violenze in Francia per l’uccisione, martedì scorso a Nanterre, nella periferia di Parigi, del giovane Nahel. Il ragazzo, di 17 anni, che guidava una Mercedes senza patente, non si è fermato come richiesto da due agenti. E uno di loro ha sparato, uccidendolo. Eppure, nonostante la ciclicità delle rivolte nelle banlieue, il dibattito tra politica e società civile non sembra adeguato alla complessità della questione.

Le liberaldemocrazie bruciano nelle banlieue

Di Andrea Zhok*

Alla luce dei gravi scontri a Parigi seguiti all’uccisione del 17enne Nael per mano di un agente di polizia, molti interrogativi sorgono.

In prima battuta salta agli occhi l’assenza di un quadro intelligibile da parte dei media circa le possibili cause di questo scoppio di violenza (oramai ciclicità costante in Francia).

Nella descrizione degli eventi che si ritrovano sulla maggior parte dei giornali si fatica non poco a comprendere perché mai le banlieue si sarebbero rivoltate. Per come descrivono il fatto le autorità e i giornali, sembra di trovarsi di fronte ad uno sciagurato incidente che potrebbe capitare a chiunque.

Ma la percezione da parte del sottoproletariato urbano delle banlieue è manifestamente che riguardi loro e non i “giovani francesi” in generale. Dobbiamo dire che sono vittime di un’illusione? Se si tratta di un’illusione è qualcosa di assai persistente perché le rivolte nelle banlieue sono eventi ricorrenti da decenni.

I pochi, di solito dall’estrema sinistra francese, che danno una lettura non contingente degli eventi utilizzano l’usuale inutile chiave di lettura del “razzismo”. Ma di fronte ad un ragazzo dalla pelle chiara, con origini del Maghreb ma nato in Francia, in un paese in cui il 21% dei nuovi nati ha un nome di origine araba e l’8,8% è musulmana, è insensato pensare che l’identificazione “razziale” sia decisiva. La polizia peraltro è piena di reclute con caratteristiche etniche simili.

Naturalmente nella marmellata mentale dell’odierna sociologia politicamente corretta “razzismo” è diventato un termine buono per tutti gli usi, utilizzato per stigmatizzare un sacco di cose diverse, di carattere culturale, economico, di ceto, religioso, che con il senso biologico di “razza” non hanno niente a che fare.

Ciò che è essenziale in questi usi verbali è infatti l’intento mistificatorio, la volontà di utilizzare le categorie non con lo scopo di definire i loro oggetti ma al contrario con quello di impedire di definirli. Questo intento mistificatorio è peraltro ben visibile anche a livello istituzionale, dove, ad esempio in Francia, è vietato nei censimenti ufficiali raccogliere qualunque dato relativo alla composizione etnica e religiosa.

Secondo lo stilema orwelliano che caratterizza l’odierna cultura occidentale, i problemi si fanno scomparire cambiando o cancellando i concetti per identificarli.

Davanti agli scontri ricorrenti di carattere economico-culturale che caratterizzano gli Stati Uniti non meno che l’Europa è interessante notare come per anni la sociologia si sia seriosamente impegnata nel cercar di stabilire se fosse meglio il sistema “assimilazionista” francese o il sistema “comunitarista” britannico.

Anche qui la categorizzazione serve non a capire, ma a coprire.

Infatti nel momento in cui si imposta un problema su questa base oppositiva sembra che tutta la questione stia nel capire quale delle due soluzioni sia la soluzione. In questi casi tra gli intellettuali si formano serissime fazioni impegnate a supportare l’uno o l’altro corno di questi dilemmi premasticati, il che consente di sbarcare il lunario in allegria.

Una volta impegnate le migliori risorse intellettuali in questo torello, la realtà può continuare a dispiegare le proprie logiche, intoccata.

In verità la differenza tra il sistema “assimilazionista” francese e quello “comunitarista” (o “pluralista”) britannico è una mera differenza di retorica ad uso pubblico.

In entrambi i casi la dinamica sociale è esattamente la stessa:

1) L’immigrazione ha una funzione economica nel breve periodo in quanto fornisce al sistema produttivo manodopera adulta a basso costo; per questo motivo essa è sostenuta con argomenti fioriti, proclami di multiculturalismo, glorificazioni del melting pot e altre innumerevoli buaggini da rotocalco.

2) Idealmente questa funzione economica dello “sradicato” la si vorrebbe dosata sulla base dei bisogni economici minuto per minuto, come nei grafici della domanda e dell’offerta: quando servono dovrebbero esserci, quando non servono dovrebbero magicamente sparire; purtroppo questi soggetti, oltre ad essere utili lavoranti a buon prezzo sono anche ingombranti esseri umani, e qui iniziano i problemi.

3) Tutte le chiacchiere sull’integrazione di cui si riempie la bocca l’intellighenzia occidentale sono pura fuffa benpensante, ad uso della plebe: in verità le società di impianto capitalista sono società che generano per essenza e continuamente la dis-integrazione: la divisione, l’esclusione, la compartimentazione competitiva.

Beninteso, lo fanno verso chiunque, nel proverbiale spirito liberale dell’eguaglianza etnica e culturale, dove l’unica differenza che davvero rileva è quella sull’estratto conto. Ma naturalmente i nuovi arrivati alla ricerca di un impiego purchessia tendono a concentrarsi sui gradini più bassi, e il meccanismo ordinario del sistema è: i soldi producono soldi, la miseria altra miseria. Dunque l’esclusione sociale tende a permanere e consolidarsi intergenerazionalmente.

4) Ed è qui che la cultura ritorna in gioco. La cultura non cavalca su alati destrieri al di sopra della società e dell’economia, ma vi si intreccia sempre e necessariamente. Nel modello occidentale odierno la cultura è ancella della società che a sua volta è ancella dell’economia. Per quanto si catechizzino gli insegnanti affinché a loro volta catechizzino il sottoproletariato urbano perché “si senta integrato”, in verità l’identità culturale dei quartieri popolari si autonomizza su linee di appartenenza di ceto, che niente hanno a che fare con la “cultura ufficiale”.

5) L’identità culturale è essenziale quando la tua vita dipende dalla possibilità di fidarti di altri (altri che non puoi pagare). Perciò nelle periferie degradate dei grandi centri urbani si costituiscono subculture identitarie ben più solide di quanto si possa trovare nei quartieri bene. Queste subculture identitarie hanno poco a che fare con le eventuali autentiche origini etniche o religiose, ma risultano comunque distintive.

Gli afroamericani hanno creato la loro identità subculturale negli USA così come i maghrebini lo hanno fatto in Francia: non come effettiva eredità di una cultura diversa, ma come creazione funzionale a sopravvivere nella nazione in cui risiedevano senza appartenervi.

Se si guarda alla biografia degli attentatori islamisti in Francia e Inghilterra di qualche anno fa, si nota come fossero “islamici di ritorno”, nati in Francia, apparentemente “integrati” come laici, salvo scoprire, come seconda generazione, che non esiste in Francia (come ovunque in occidente) alcuna integrazione che crei appartenenza. In occidente neppure i ceti apicali, che pure sarebbero nelle condizioni di sottrarsi in buona parte al gioco della dis-integrazione competitiva, possiedono più alcuna appartenenza.

Cultura e reddito

Tirando le fila di questo quadro, vediamo come il vicolo cieco strutturale in cui si sono infilate le società occidentali non è risolvibile né guardando unilateralmente alla cultura né guardando unilateralmente al reddito.

Da un lato i meccanismi economici di efficientamento della redditività a breve termine spingono alla liquefazione di ogni cultura e di ogni appartenenza: al netto delle chiacchiere sul multiculturalismo, si lavora per un sistema in cui hanno legittimo posto solo individui autoreferenziali, intercambiabili, senza cultura, senza appartenenze. Per questo la “mobilità”, interna o internazionale, è santificata.

Dall’altro lato i “perdenti” del sistema hanno un bisogno vitale di crearsi una qualche identità culturale che definisca un’appartenenza del gruppo su cui poter contare nelle difficoltà. E questo avviene attraverso la creazione di subculture difensive altamente problematiche, subculture in conflitto con le pretese di legalità, ostili alla cultura ufficiale del paese in cui vivono (cultura peraltro spesso in stato di abbandono presso gli stessi autoctoni).

In questo quadro non ci sono eroi, ma solo diverse forme di degrado

Le “élite” nazionali hanno tradito tutto ciò che potevano tradire, diventando una patetica melassa cosmopolita senza appartenenze, senza lealtà, senza una cultura propria, pronta a lasciare qualsiasi barca su cui stiano navigando se dovesse dare segni di instabilità.

Il popolo dei lavoratori autoctoni è stato sedotto con le perline del mercato, o ricattato quando non si riusciva a sedurlo: l’esito comunque è stato la disintegrazione, da cui cercano di difendersi aggrappandosi alle rimanenze di tradizioni, credenze, costumi sempre più effimeri.

I più giovani o i più sprovveduti trangugiano le pillole ideologiche degli influencer a libro paga delle élite, aderendo alle campagne emancipatorie del giorno.
Quelli con una memoria un po’ più lunga si arroccano e finiscono per identificare nei disperati non autoctoni gli “invasori culturali” che hanno fatto a pezzi il senso del mondo che fu.

Il sottoproletariato non autoctono, che anche se con cittadinanza nazionale, non sente alcuna appartenenza, si costruisce fortificazioni di fortuna nei propri quartieri dormitorio, sviluppando subculture illegali o parassitarie, usando reminiscenze di culture e tradizioni come mattoni funzionali alla propria sopravvivenza.

Tre disfunzionalità di cui ci accorgiamo solo quando prendono fuoco i cassonetti.

* Ripreso da Andrea Zhokfilosofo e accademico italiano, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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