Mentre le opposizioni parlamentari, con l’eccezione di Italia Viva, cercano di avanzare una proposta al ribasso sul salario minimo legale, a 9 euro l’ora lordi e senza l’indicizzazione al costo della vita, e mentre altre opposizioni extra-parlamentari propongono una Legge di iniziativa popolare per una retribuzione oraria minima di 10 euro ma legata all’aumento dell’inflazione, i sindacati si dividono sulla necessità di adottare misure di questo tipo per frenare la crisi sociale, per dare un po’ di sollievo ai tanti milioni di italiani che vivono in sempre maggiori condizioni di precarietà e disagio.

Mentre la CISL si separa da CGIL e UIL proprio sul tema del salario minimo garantito per legge, schierandosi di fatto con il governo Meloni, mentre i lavoratori della ex GKN salgono sulla Torre di San Niccolò a Firenze per protestare contro la mancata erogazione della cassa integrazione, che ormai data da otto mesi a questa parte, il fronte politico fa almeno un tentativo di discussione in merito alla grave questione del mondo operaio, del lavoro in generale, di quella classe degli sfruttati che fa fatica a riconoscersi in quanto tale.

La risposta del governo, ovvia e su cui nessuno avrebbe accettato scommesse, è un sonoro NO a qualunque ipotesi di salario fissato per legge. Meglio la “fumosità” (così l’ha definita la ministra del lavoro Marina Elvira Calderone) delle contrattazioni e delle concertazioni tra le parti sociali e i rappresentanti dell’industria che, in sostanza, significa meglio meno garanzie per chi è in una posizione di debolezza e meglio meno regole per chi è in una posizione di forza.

Oggi, se un giovane (o anche meno giovane…) rider, o un qualunque lavoratore precario e a chiamata, riceve ufficialmente 10/11 euro l’ora per il suo lavoro, significa che, al netto delle trattenute (legali o meno che siano…) arriva ad avere un salario orario di 7 euro e mezzo. Se va bene, ma proprio bene, si arriva ad 8 euro. Il che significa che il lavoro è esattamente quello sfruttamento della forza-lavoro che il capitalismo esige ben oltre i limiti congeniti dettati dal meccanismo di formazione del plusvalore.

A partire da quegli anni ’70 che sono stati la fucina di elaborazione e di diffusione del modello liberista nella società moderna, i salari sono stati oggetto di una lotta veramente continua da parte della classe lavoratrice che era riuscita, con grandi battaglie sindacali e sociali, unitamente anche al fronte studentesco e a quello pensionistico, a perfezionare sempre di più il meccanismo della “scala mobile” introdotto nel 1945 solo nel nord del Paese e poi esteso a tutto il mondo produttivo italiano.

Per poter dare una qualche garanzia di uscita dalle mera sopravvivenza attuale, le lavoratrici e i lavoratori dovrebbero poter avere a disposizione una triangolare dei diritti sociali che riguardi: una nuova indicizzazione dei salari e delle pensioni rispetto all’inflazione reale (non a quella semplicemente programmata); un salario minimo orario almeno di 10 euro e comunque sempre e comunque compreso entro il quadro dell’aumento o meno del costo della vita; un aggiornamento  e rinnovo dei contratti di lavoro che, fatto salvo il comparto metalmeccanico, languono nella stagnazione di una procrastinazione tutta confindustriale e anche governativa.

A tutto questo andrebbe aggiunta la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali a parità di salario.

Questo quadro riformatore della condizione lavorativa in Italia sarebbe il minimo per aumentare il potere di acquisto, gonfiare la domanda, permettere all’economia nazionale di risollevarsi grazie ad una sostanziale rincorsa tra forza-lavoro impiegata e, se non al pari, almeno inseguente i volumi profittuali e i generosissimi dividendi che lo sfruttamento dei lavoratori regala ai grandi manager (visti i volumi di introiti che le produzioni generano, speculando magari sui conflitti in atto in Europa, dalla pandemia ormai finita alla guerra in Ucraina tutta da finire…).

Ma ai padroni e a Palazzo Chigi va bene lo stato di crisi attuale: la loro pace sociale è fatta di indebolimento del potere contrattuale del sindacato attraverso la divisione fra CGIL, CISL e UIL, con la confederazione di Sbarra che ormai è divenuta il ripetitivo eco delle posizioni del governo in merito al decreto lavoro, alla sua applicazione e ad una prospettiva di riformulazione dei diritti sociali tutta imperniata sul fulcro rappresentato dal punto di vista imprenditoriale.

Si parla di sviluppo quando invece si dovrebbe parlare, con grande mestizia, di “sviluppismo“, di qualcosa di soltanto auspicabile e mai veramente raggiungibile. E non perché non vi siano le condizioni economiche per mettere in partita una serie di riforme sociali che consentano di adeguare gli stipendi a livelli europei, se non proprio a quelli di singoli Stati come la Germania. Semmai perché la politica italiana è assolutamente china e prona nei confronti del dettame liberista.

La finzione della destra di governo di dirsi, proclamarsi ed essere una sorta di reminiscenza praticamente moderna di un passato missino dai tratti sociali, derivati dall’esperienza del fascismo di prima istanza e da quello grigio, tetro e omicidiario all’ennesima potenza rappresentato dalla lacustre infernalità della Repubblica Sociale Italiana, è degna solamente dei comizi enfatizzanti e galvanizzanti i propri sostenitori nelle piazze delle elezioni politiche.

Il governo, da questo punto di vista, è soltanto chiacchiere e servilismo nei confronti dell’industrialismo spinto all’eccesso, dell’idea tutta atlantica di compensazione tra economia in crisi ed economia di guerra. L’aumento delle spese militari, fatto senza battere ciglio, non è nemmeno compensato da una opposizione al MES che abbia i tratti della critica sociale, chiedendo agli altri paesi europei di unirsi in una lotta per il superamento di questi meccanismi perequativi del grande capitale e dell’alta finanza bancaria.

Il governo Meloni fa finta di essere il protettore, il custode, il principale amico della “Nazione“, mentre invece è il protettore dei profitti, il custode dei fondamenti del liberismo più sfrenato, il principale amico di un conservatorismo che è sinonimo di recrudescenza reazionaria, regressiva sul piano dei diritti tutti: sociali, civili, umani. Per questo la lotta dei lavoratori della GKN assume, ancora una volta, la fisionomia di una resistenza che va ben oltre la rivendicazione di otto mesi, in questo caso, di cassa integrazione mai erogata.

E’ un esempio di resistenza all’avanzamento di una unità di classe al contrario: una saldatura tra padronato, governo e una parte del sindacato che è il fronte da contrastare, riconoscendo in esso il nemico principale a cui rivolgere ogni critica e ogni opposizione. Nelle piazze e nelle istituzioni.

La diversità fra le proposte dell’opposizione parlamentare e quelle delle sinistre che sono costrette a stare fuori dalle Camere dal 2008 non deve essere letta come inconciliabilità insormontabile. Possiamo lavorare ad una formulazione comune di un campo largo per davvero laddove gli obiettivi sono simili o, se non addirittura, uguali. Come nel caso della necessità dello stabilimento per legge di un salario minimo orario. Se ne deve discutere coinvolgendo la popolazione in un dibattito ampio, per ridare spazio ad una dialettica politica che faccia sentire i cittadini parte delle decisioni.

Soprattutto di quelle che sono più difficili da prendere, perché sono chiaramente inconcretizzabili davanti al muro di insensibilità dettato dall’interesse di classe del padronato, da quello politico delle forze di governo, da quello più “fumoso” delle concertazioni tra parti (anti)sociali, imprenditoria ed esecutivo.

Qui non siamo al fumus perecutionis, bensì siamo innanzi ad una chiara identità capitalista e liberista che si sostanzia nell’evitamento del riconoscimento dei grandi temi dei nostri tempi che si declinano in problemi sociali enormi e che, spesso, devono quindi essere trattati come emergenze securitarie, come allarmi di un sovversivismo, non tanto delle classi dirigenti – che il loro lo stanno mettendo in pratica senza fare troppo rumore -, ma di una dinamica sociale che viene presentata coi tratti della disperazione feroce, dell’eversione manifesta, del vandalismo provocatorio e fine a sé stesso.

La Francia insegna. Ma ha degli scolari in Europa? Questo continente privo di anima sociale, tutto riverso sul conteggio dell’aumento dei tassi di interesse, fa finta di non accorgersi della tremenda condizione delle masse, di un impoverimento crescente, di una situazione sempre meno gestibile dell’immigrazione, di spostamenti di parti importanti di popoli che fuggono da situazioni di malessere endemico, di decenni e decenni di devastazioni di terre già martoriate dal colonialismo novecentesco (tanto in Africa quanto in Asia).

Dall’alto della torre di San Niccolò a Firenze, i lavoratori della GKN sono la luce intermittente di un faro che chiama la classe degli sfruttati alla lotta, alla sua provocazione continua, perché a questo governo e questo padronato non si deve concedere respiro. L’aria per sopravvivere manca a chi ha il fiato corto perché arrivare a fine mese è un miraggio nel miraggio.

I drammi che si costruiscono tutti intorno a questa crisi verticale delle democrazie, schiantate contro il muro dell’interesse privato dalla prepotenza liberista e dai governi che la interpretano così bene, come quello italiano, parlano poi il linguaggio della rivolta anche violenta, perché l’esasperazione è ormai incontenibile. Oppure parlano l’altra lingua, quella del disagio personale, del riversamento delle proprie frustrazioni su chi ci sta accanto e diventa un problema nell’enormità degli altri problemi.

I disagi singoli e collettivi si simbiotizzano in una società in cui non si investe praticamente nulla sull’educazione civile, sociale e morale, che è il frutto di un percorso scolastico privato di sostegni pubblici, lasciato alla conduzione da parte dell’ideologia della competizione, del rapporto tra scuola-lavoro. Dove, anche, si muore. L’assenza di empatia è uno degli aspetti tragici dell’idiosincrasia che si stabilisce tra i bisogni della persona e quelli del cittadino.

La scissione tra queste due sembianze che assumiamo di continuo, senza magari accorgercene (e questo è un altro problema ancora…), è evidente nel trattamento che il cittadino ottiene dalle istituzioni e in quello che la persona ha dalla società intera. Se lo Stato sopravanza la Repubblica, se quindi i doveri primeggiano sui diritti, a farne le spese sarà non la classe dirigente che ispira tutto questo ma la grande maggioranza della popolazione che subisce gli effetti di politiche che devastano il sociale, impongono il privato ovunque e consegnano al “si salvi chi può” il destino di ognuno di noi.

La lotta per il salario minimo legale, pertanto, è un momento di libertà, di riunione, di dialogo, di confronto, di rielaborazione concettuale, ideale e, al contempo, pratica di un insieme di prerogative che sindacati, partiti e associazioni devono rimettere in fila per rafforzare tanto la democrazia che si sta indebolendo progressivamente (le minacce presidenzialiste e quelle dell’autonomismo differenziato fanno parte di questo processo di svilimento dei valori collettivi e del ruolo del cittadino nel processo di delega politica) quanto la concretezza quotidiana di una vita sempre più povera e clamorosamente indigente.

La lotta dei lavoratori della ex GKN, là sulla Torre di San Niccolò a Firenze, è parte del tutto: è il coraggio che dovremmo avere tutte e tutti nel farci largo tra le resistenze del capitalismo e del governo delle destre per affermare i nostri diritti. I diritti di ognuno, i diritti di chiunque.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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