Ferdinando Pastore

La segregazione in Francia è sociale ma le rivolte delle periferie assumono i caratteri dell’impoliticità da parte di una folla smembrata, di individui solitari e indistinguibili che si trovano a correre insieme privi di un reale collettivo organizzato.

La Francia e il razzismo liberale

La rivolta dei sobborghi parigini vive di un’interpretazione squisitamente neo-coloniale. Viene direttamente sovrapposta alle race riots americane. Ma se da un lato le manifestazioni esteriori delle proteste, quali il saccheggio o gli atti di vandalismo, possono essere accomunate dalla medesima estetica, dall’altro nulla hanno a che vedere con il portato storico della segregazione ancor’oggi pulsante nelle faglie della società statunitense; lì dove la guerra civile appare mai definitivamente sopita.

La drammaturgia liberale spinge per incanalare le rivolte francesi sotto il segno della mancata integrazione ai valori occidentali delle comunità immigrate: i conservatori specificando che valori e tradizioni di culture trapiantate non potranno mai e poi mai abbracciarsi a quelle indigene, i progressisti spingendo per politiche atte a consolidare una sorta civilizzazione paternalistica dal retrogusto ottocentesco.

Ciò che al contrario sembra lampante è proprio il sentimento di frustrazione di quel sommerso rappresentato dagli immigrati di seconda generazione per l’esclusione dalla spirale spettrale che si condensa nei valori della società di mercato.

Essi non sono affatto rifiutati bensì inseguiti. Ma dato che si incentrano sul principio di concorrenza individuale presuppongono l’esistenza di categorie sconfitte.

La segregazione francese è dunque sociale ma le rivolte delle periferie assumono i caratteri dell’impoliticità. Sono difatti composte da una folla smembrata, composta da individui solitari e indistinguibili che si trovano a correre insieme privi di un reale collettivo organizzato.

Parafrasando Éric Sadin rappresentano quei momenti di sfiducia nei quali ogni singolo si sente “banchiere della propria ira” a cui non assegna alcun valore strategico o politico. È il motivo per cui la polveriera transalpina riassume tutte le contraddizioni dei nostri, tanto sbandierati, (dis)valori che si tramutano nel loro rovescio.

In Francia affiora una guerriglia individualista dipinta da un neo-luddismo apatico che riproduce sostanzialmente l’aura anonima del capitalismo contemporaneo. I giovani ribelli non hanno sigle, non sventolano bandiere, non propongono rivendicazioni.

Sembra che scelgano il proprio vestiario proprio per puntare all’invisibilità spoliticizzata conformandosi addirittura ai modelli proposti dai guru dell’economia digitale in felpa e cappuccio. Rispondono nichilisticamente alla violenza di regime e di classe che si fa sempre più feroce. Violenza che Macron esercita senza alcuna remora.

Quella repressione giù utilizzata nei confronti sia dei gilets jaunes che del movimento dei lavoratori e del sindacato in lotta contro l’innalzamento dell’età pensionabile. Ma in quei casi si parla di conflitto politicizzato, organizzato, almeno in Francia, da strutture collettive, anche estemporanee come nel primo esempio, che ancora immaginano i sentieri della lotta in chiave strategica e che riescono a contestare l’intero impianto ideologico del capitalismo concorrenziale.

Sta di fatto che proprio al di là delle Alpi quel modello, propagandato dai media per giustificare guerre ai popoli non allineati, esprime la propria inadeguatezza e il proprio fallimento. Così come il vecchio liberalismo entrò in crisi perché non in grado di far fronte ai problemi sociali generati dal laissez faire economico, oggi lo statalismo di mercato si accartoccia su sé stesso e definisce nuovi contorni totalitari per sopravvivere rantolando.

Tanto che attua nuove forme di censura, come quella di France Press che non divulgherà più scene di violenza urbana invocando una sorta di politicamente corretto dell’informazione.

Quello che nega pervicacemente la realtà per rassicurare un pubblico indifferente, spesso progressista, che fa finta di sopravvivere grazie all’ottimismo generato dalla propaganda mercantilista. Piena di buoni esempi da mostrare a tutti. Come l’insegnante, affascinato dal martirio, che non fa un giorno di assenza o lo sportivo che parte dal nulla e ottiene il meritato successo.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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