Rapito“, il nuovo film di Marco Bellocchio, è liberamente ispirato al libro di Daniele Scalise “Il caso Mortara”, che narra una vicenda davvero accaduta nel periodo risorgimentale ed ebbe una vasta risonanza culturale e politica.

Rapito, Bellocchio affronta nuovamente il tema della religione

Siamo a Bologna, nel XIX secolo. La sera del 23 giugno 1858, le guardie di Papa Pio IX, per ordine dell’inquisizione di Bologna, irrompono nella casa della famiglia ebrea dei Mortara e portano via Edgardo, il figlio di appena sei anni.

L’inquisitore aveva scoperto che, poco dopo la nascita del bambino, la giovane domestica cattolica lo aveva battezzato all’insaputa dei genitori, credendolo in fin di vita, con l’intento di salvarlo dall’inferno; s’impone quindi, in base alle leggi pontificie, una rigida educazione cattolica contro il rischio di apostasia (ripudio del proprio credo).

Come molti altri nella sua condizione, Edgardo non ritornerà più nella sua famiglia di origine, divenendo addirittura un pupillo del papa. Sotto un’enorme pressione psicologico-culturale, ormai adulto, non solo accetta questa imposizione, ma si fa prete, e per tutta la vita si dedicherà in modo ossessivo alla conversione degli ebrei, arrivando a rinnegare la sua famiglia e perfino a cercare di convertire la madre in punto di morte.

La sofferenza del bambino e dei suoi familiari, assieme alla rabbia per l’ingiustizia, per la prevaricazione del potere religioso, per quella presunzione assolutamente arbitraria di chi impone codici morali nel nome di un dio, portano lo spettatore a una partecipazione emotiva profonda.

Non è solo l’abominio del ratto a scuotere l’albero delle riflessioni ma sono le trasformazioni che opera l’educazione religiosa nell’essere umano, qualsiasi essa sia. Edgardo era un bambino come tanti e si trasforma in un volto indifferente ai suoi familiari, come se amarli potesse essere un tradimento per la sua fede in quanto ebrei.

La storia nasce grazie a una paura indotta, dovuta a una credenza, il limbo, in nome della quale si commette il rapimento. In quel luogo, sorta di proiezione del giustizialismo umano, di discriminazione ed emarginazione, finiscono tutte le anime dei non cristiani, cui è precluso il paradiso; tuttavia, le anime dei bambini nati prima di Cristo e di quelli non battezzati “vivrebbero” così in uno stato tra il gioioso e il tranquillo, una specie di serenità che però non può conoscere felicità piena, perché il dio a loro viene negato.

In vero, riguardo al limbo, la Chiesa ancora oggi non chiarisce quella che persino papa Ratzinger definì solo un’ipotesi teologica, da lasciar cadere, perché il dio accoglierebbe tutti in ogni caso.

Ma l’ambiguità viene comunque mantenuta, dato che la sua dismissione abolirebbe il peccato originale e la conseguente necessità del battesimo. E il potere, specie quello religioso di qualunque confessione, ha bisogno di simbolismi, di ritualità da enfatizzare per essere sempre più invasivo e imporre, attraverso una mentalità contorta, la propria arbitraria distinzione tra ciò che è bene e ciò che non lo è.

Direbbe Christopher Hitchens (saggista e giornalista), a fare da supervisore a questo processo c’è una dittatura celestiale, una specie di Corea del Nord del regno dei cieli. La salvezza c’è e viene offerta al prezzo di venir meno del nostro spirito critico. Ed Edgardo si è salvato così, ha dovuto donare la sua vita perché la religione terrorizza i bambini con l’immagine dell’inferno e della dannazione eterna, non solo per loro ma per i loro genitori e per le persone cui vogliono bene.

A Edgardo, così come agli altri bambini nella sua stessa condizione, si insegna a scuola e in chiesa che quel Cristo sulla croce, sanguinante e con la corona di spine, è stato ucciso dagli ebrei. Allora, in una poetica scena, Bellocchio fa immaginare al piccolo di arrampicarsi per togliere a uno a uno i chiodi dai palmi di Cristo, che con dolcezza scende dalla croce. Edgardo gli toglie anche la corona pungente e finalmente lo vede allontanarsi libero.

Ci potremmo fermare qui, con quest’ultimo sogno, ma è inevitabile che l’opera ci riporti ai nostri giorni, all’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica fin dall’infanzia, una sorta di ratto istituzionalizzato, affinché la Chiesa si assicuri la sua eternità.

Bellocchio ci interroga sull’origine stessa della religione, sulle narrazioni arbitrarie, inventate da più parti sulla divinità, e tutto resta una mera rappresentazione umana, perché il regista ci lascia con un dio senza racconto, che si cristallizza nell’urlo disumano, in un momento (l’unico) di sorprendente ribellione di Edgardo durante il funerale del Papa tiranno. Saranno pesanti le sue parole: Quel porco! – mentre assieme ai rivoltosi cercherà di gettare nel Tevere la carrozza con il feretro di Pio IX.

Anche la figura della madre, interpretata in modo magistrale da Barbara Ronchi, si contrappone all’umiliante sopruso del potere in quanto tale. Lei è l’unica che durante una visita al collegio-prigione riesce a far piangere suo figlio, a fargli gridare il desiderio di ritornare a casa, di rompere quel muro di freddezza caustica.

E l’oggetto che di nascosto gli consegna, un puntatore della Torah, più che un simbolo di fede, appare come un segnale di non resa, di ribellione contro un Papa che minaccia di rinchiudere di nuovo gli ebrei nel ghetto. Anche in punto di morte, quando Edgardo le si avvicina per tentare di convertirla, lei rifiuta con gesto debole ma deciso, rinnegando ancora una volta ciò che adesso lui rappresenta, la trasfigurazione del potere.

https://www.kulturjam.it/arte-musica-e-spettacolo/rapito-il-simbolismo-e-la-trasfigurazione-del-potere/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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