Iministri del governo Meloni li stiamo imparando a conoscere per le loro esternazioni, per le loro gaffes, per le loro uscite a gamba tesa su argomenti che riguardano tanto gli ambiti istituzionali e i rapporti tra i poteri dello Stato quanto le fondamenta dei diritti sociali e civili. Sappiamo ciò che pensano. Molto poco ciò che stanno facendo. In nove mesi di governo l’enfasi è stata tanta, la capacità di gestire i problemi concreti, quotidiani e anche di lungo corso, del Paese è stata pressoché irrilevante.
Nonostante ciò, il governo fa danni ogni volta che mette mano ai conti pubblici e li converte in economia di guerra; ogni volta che rifiuta un dialogo con i sindacati su specifiche vertenze di ampio raggio, così come su una riforma del mercato del lavoro che prenda in considerazione un recupero salariale mentre la crisi avanza, il potere di acquisto diminuisce, l’inflazione va oltre la media europea e per comperare un po’ di verdura si svuota letteralmente il portafoglio.
Ci siamo già detti e scritti che compito di un esecutivo di destra conservatrice e reazionaria, dichiaratamente liberista e atlantista, non può non essere quello di spalleggiare l’imprenditoria, l’alta finanza, i rapporti commerciali con partner che rientrano nella sfera di influenza occidentale, guardando ai paesi arabi, alle loro immense fortune, al petrolio, al gas, a tutte quelle risorse che, se sfruttate a dovere, riportano in auge una sorta di neocolonialismo tanto europeo quanto americano, in cui si sfidano le potenze continentali.
Per cui, attendersi dal governo Meloni un aumento dei salari, magari legati ad un meccanismo di indicizzazione degli stessi al costo della vita, è come attendersi da Putin il ritiro delle truppe dall’Ucraina, oppure da Stoltenberg e Biden la cessazione dell’espansionismo NATO, dell’imperialismo a stelle e strisce, la rimessa negli arsenali dell’orrore delle bombe a grappolo.
Preoccupante è, in aggiunta, il conflitto tutto interno tra governo e magistratura, soprattutto se lo si fa rientrare in una dinamica davvero ripetitiva che origina molto indietro nel tempo, quando l’epopea del berlusconismo aveva inizio e inanellava i primi scontri acerrimi con quelle che sarebbe state definita per decenni le “toghe rosse“, una sorta di braccio giuridicamente armato della sinistra (o del centrosinistra) per colpire gli avversari.
Questa delegittimazione del ruolo dei pubblici ministeri e dei giudici è rientrata a pieno titolo nella controriforma di una giustizia con la proposta della separazione delle carriere. Oggi quel sogno berlusconiano sembra inverarsi nella riforma del ministro Nordio.
E i toni, infatti, si alzano perché a tutto questo si aggiungono le inchieste su Delmastro e Santanché, proposte all’opinione pubblica col solito refrain della “giustizia ad orologeria“, del voler fare politica attraverso le carte degli inquirenti.
Ecco, i ministri del governo li stiamo conoscendo a poco a poco per i loro interventi su mille argomenti diversi, tutti abbastanza divisivi, tutti per niente trattati con quel rispetto politico che si deve a temi che riguardano se non l’interezza della popolazione direttamente, sicuramente tutta quanta in modo almeno indiretto. Perché siamo parte di una comunità dove quella che viene intersezionalità per riferirsi ai rapporti tra generi e identità, alla fine riguarda anche piani e problematiche che coinvolgono un po’ tutte e tutti noi.
E, nel suo insieme, conosciamo la politica di questo esecutivo che verte sull’italianità come elemento distintivo, divisivo, escludente, dirimente e preponderante.
In linea con questa autoctonia fortemente esaltata da un finto neonazionalismo, tutto di facciata, adatto ai proclami elettorali, raramente trasposto nell’azione di gestione degli interessi concreti, se non distorcendone il senso e adeguandolo alle esigenze delle alleanze internazionali, a cominciare da Washington e NATO, si trova il culto di una famiglia eterosessuale, perbene e magari pure un po’ perbenista.
E sempre accanto a tutte queste fondamenta para-ideologiche può essere messa la concezione di uno Stato in cui la forma repubblicana sia bipolarmente intesa come unità federale di autonomie che sono la diretta espressione dei livelli economici di porzioni dell’Italia, dal più ricco nord / nord-est al più indigente Mezzogiorno, e presidenzialismo rivoluzionario, capace di squadernare l’equipollenza dei poteri e il loro reciproco rapporto.
Se mettiamo insieme le esternazioni ministeriali, i silenzi di Giorgia Meloni, le uscite ufficiali ai grandi tavoli internazionali e negli incontri bilaterali con i più diversi Stati del mondo, con quanto fino ad ora fatto dal governo, trattando il Parlamento come se fosse una protesi di Palazzo Chigi e, soprattutto, con l’apertura del fronte magistratuale, la somma che fa il totale è veramente molto alta per un Paese che avrebbe bisogno di convergenze minime per attuare delle riforme che, quanto meno, facessero sopravvivere un po’ meglio la povera gente.
Ci troviamo davanti ad una vera e propria impossibilità a cercare di condizionare la politica nazionale; anche perché la sinistra di alternativa, non trovandosi in Parlamento ed avendo uno scarso radicamento sociale, un ascendente molto debole nei confronti di quello che dovrebbe essere il suo popolo di riferimento (in altri tempi si sarebbe detto: “la sua classe“), mentre un capovolgimento culturale rischia di fare breccia nel vecchio impianto solidale, classista e partecipativo creato dal “paese nel paese” ormai molti decenni addietro, è praticamente ridotta ad un ruolo di mera testimonianza.
Questo almeno è quello che, anche una parte delle forze progressiste moderate, vorrebbero far credere e contribuire a determinare. Nonostante tutto, però, in questa lunga traversata nel deserto della resistenza per l’esistenza, l’insistenza della sinistra di alternativa può avere un valore se punta su alcuni temi dirimenti, che ne distinguano le lotte rispetto al resto del panorama politico.
La Legge di iniziativa popolare sul salario sociale (detto anche impropriamente “minimo“) a 10 euro l’ora è, come lo era un tempo la campagna per le 35 ore (ora dovremmo farla per 32 ore) a parità di salario, una leva con cui sollevare il coperchio dell’acriticismo stagnante delle masse, del loro depensamento assoluto o relativo che sia, del disinteresse verso questioni che riguardino non soltanto una fabbrica, ma l’insieme del mondo del lavoro e della precarietà.
Così la proposta di riformulazione in chiave pubblica della finanza locale, promossa da comitati e singole personalità dell’economia, della cultura e della politica più propriamente intesa come tale, è un altro tassello che esprime la tentazione lanciata e rilanciata sul tavolo del coinvolgimento su tematiche anche piuttosto ostiche dal punto di vista tecnico: ma se vogliamo tornare, come sinistra, a parlare francamente alle persone più deboli, sfruttate e trattate peggio dal “sistema” (tanto dal capitalismo quanto dal nostro Stato), allora è necessario anche provare a spiegare i concetti più difficili e meno reperibili sui grandi mezzi di informazione.
E così pure le raccolte di firme sui referendum contro l’invio delle armi in Ucraina: una posizione pacifista che è largamente condivisa nel Paese ma che, sondaggi a parte, stenta a venire fuori e a radicarsi come chiave di volta di una protesta che si leghi alle altre.
Si opera ancora troppo per percorsi separati. Per questo è stato indubbiamente utile ascoltare all’assemblea organizzativa del percorso costituente di Unione Popolare i giovani di Ultima Generazione.
Lo è stato perché noi non dobbiamo dare la parola a nessuno, ma chiedere a tutti parlare con noi, di condividere le esperienze e metterci su un piano orizzontale di compenetrazione delle idee, di condivisione delle esperienze, di elaborazione delle proposte e delle lotte. Tuttavia, seppure giustificata dalla passione giovanile, una certa supponenza nei toni non aiuta a questi scopi.
L’umiltà non è richiesta, ma il rispetto sì. Se dobbiamo relazionarci fra diverse posizioni e impostazioni, politiche, sociali e culturali che siano, dobbiamo farlo partendo dal presupposto oggettivo che ogni posizione deve avere diritto di stare accanto alle altre. Ma poi occorre anche arrivare ad una sintesi, ad una organizzazione politica del conflitto.
Questo governo parla alla pancia di un Paese che rischia di avere sempre meno mente e, quel poco che gli rimane di cerebro finisce con l’essere inquinato da una sequela di prevenzioni e pregiudizi che sono utili soltanto a dividere la classe degli sfruttati, a cercare la guerra tra i poveri e a rinunciare a verticalizzare il conflitto.
La sinistra di alternativa deve essere pienamente consapevole di tutti questi problemi che si sommano di giorno in giorno e deve poter mettere al centro delle rivendicazioni un nuovo modello di sviluppo che veda nel lavoro, e non nell’impresa, il fulcro della ricchezza nazionale e, quindi, anche dell’esistenza di ogni cittadina e cittadino.
A questo proposito, dobbiamo fare in modo di unire le lotte, di non sovrapporle, ma di affiancarle e di scongiurare qualunque classifica dei diritti: non ci sono lotte più giuste di altre e, tanto meno, vi sono diritti più impellenti di altri.
Ma è ovvio che, senza una rinascita di un vasto fronte progressista dell’alternativa, senza una sottrazione del tema della difesa del lavoro e dei diritti sociali a queste destre che stanno governando anche col favore di una buona parte di società ed elettorato che dovrebbe invece trovare nella sinistra il suo naturale interlocutore e punto di appoggio sindacale, politico, culturale e sociale, ogni tentativo singolo diventa solitario.
L’unità che oggi tocca ricostruire è qualcosa di molto diverso dalla configurazione di una somma di forze politiche, piccole o grandi che siano. Prima di tutto viene una dimensione condivisa di valori che, a loro volta, siano la base su cui fondare una riproposizione dello scontro di classe: perché oggi molte lavoratrici e molti lavoratori si riconoscono di più nei programmi antisociali, xenofobi, omofobi e conservatori delle destre piuttosto che nella proposta solidale ed egualitaria delle sinistre.
Una sera ho sentito dire questa frase da un amico: «I comunisti, la sinistra, devono dialogare di volta in volta con chi può essere un alleato su lotte comuni. Non devono pensare che fare politica significhi difendere soltanto le proprie posizioni nel nome di una intangibile ed entusiasmante coerenza». Ho condiviso questa frase, perché mi ha portato alla mente quella di Marx sul proletariato che non ha il diritto di separarsi dal grosso del grande esercito democratico, ma deve invece marciare alla punta estrema dell’ala sinistra dello schieramento.
Per favore, nessuno vi legga il tentativo di supporre o proporre una qualche forma di grande alleanza democratica, di un nuovo “centrosinistra”.
Ma una cosa deve essere chiara: ogni esclusione a priori del dialogo, ogni “apriorismo” come forma di indefessa rettitudine politica, di fedeltà ad una linea escludente, è di nocumento a quella ricomposizione di classe, anche culturale, che dobbiamo innescare con le singole proposte di legge mediante strumenti previsti dalla Costituzione e che, paradossalmente, nell’essere lunghi e laboriosi (perché le raccolte di decine di migliaia o centinaia di firme sono così…) ci consentono di interagire con i cittadini e di spiegare criticamente le nostre posizioni, le nostre proposte.
Abbiamo troppo velocemente dato per sconfitta una sinistra la cui domanda nella gran parte del Paese è diminuita nel momento in cui la logica dell’alternanza si è sommata a quella liberista delle privatizzazioni. Siamo passati dalle grandi ideologie di massa al culto leaderistico e alla individualizzazione della politica come trampolino di lancio, come mezzo per fare carriera, come massima espressione dell’intromissione privata nel pubblico, nelle istituzioni repubblicane.
Rovesciare questa narrazione con un nuovo impegno personale e di comunità è necessario, senza dare per scontato nulla; sapendo bene che dall’altra parte ci sono forze economiche capaci di trasmettere messaggi con una amplificazione devastante e molto elevata rispetto alle nostre possibilità ed ai nostri standard. E’ una lotta impari, ma, come avrebbe detto qualcuno nel finale di una celebre saga interstellare: «Noi siamo di più».
MARCO SFERINI