Anche chi fa la guerra col preciso intendo di espandere gli interessi del proprio paese, del blocco di nazioni che rappresenta, può ad un certo punto rendersi palesemente conto che qualcuno sta platealmente esagerando, che sta chiedendo l’inesigibile. Almeno per il momento.
E’ tutto un tragico gioco di equilibri interni che si riverberano sulla grande piattaforma della concorrenzialità imperialista mondiale.
Ed è un gioco che alza l’asticella della tragicità e del dramma, della compulsione bellicista, dell’esorbitante necessità da parte di Volodymyr Zelens’kyj di dimostrare che il governo ucraino ha come solo intendimento quello di proteggere il suo popolo.
In realtà, con l’ossessiva richiesta di armi, per cui non passa giorno che non vi siano dichiarazioni in merito rivolte ai più svariati alleati occidentali, più che la difesa degli ucraini, il presidente in divisa verde militare altro non fa che esacerbare i toni e diminuire le speranze di trovare un accordo per il cessate il fuoco.
E’ quello che, andando per deduzione, vuole abbastanza esplicitamente. In un paese in cui i diritti delle minoranze sono calpestati, tanto quanto a Mosca, la presunta superiorità etica del governo di Kiev rispetto a quello del Cremlino è supportata solo dal fatto che l’Ucraina rappresenta per gli Stati Uniti d’America e per la NATO una occasione di espansione verso est e un controbilanciamento della potenza cinese (nonché di quella russa) in espansione.
Basta dare una occhiata al documento finale redatto a Vilnius dai paesi membri dell’Alleanza atlantica: l’argomento Cina è presente in larga parte dell’analisi che vi è contenuta e riguarda un problema definito come “sistemico“, quindi appartenente ad una congiuntura internazionale in cui Pechino è ormai direttamente opposta al dominio americano e all’asse del G7.
I sette grandi vengono chiamati in causa come una sorta di partenariato economico, politico e militare per la prima volta nella loro storia, direttamente, senza troppi bizantinismi, senza mezze parole: per sostenere un aumento del riarmo dell’Ucraina, mentre la grande controffensiva annunciata da Zelens’kyj ha prodotto per ora la conquista di due o tre villaggi sulla linea del fronte, e mentre la Russia putiniana archivia la rivolta di Prigožin, riorganizza le sue forze e attacca da Odessa ai maggiori centri del paese.
L’appoggio richiesto al G7 da parte della NATO è, in tutto e per tutto, una novità assoluta: prima di ogni altra considerazione perché coinvolge il Giappone e, quindi, allarga il campo dell’interesse politico-militare ad est, lasciando presagire che tutto questo non sia affatto casuale, ma rientri uno schema che fa rientrare la Cina negli obiettivi da tenere sotto massimo controllo.
La questione di Taiwan, del resto, è tutt’altro che chiusa, ed anzi rischia di allarmare una parte dello scacchiere internazionale su cui gli americani sarebbero costretti ad impegnarsi distogliendo in parte i loro approvvigionamenti alla guerra europea. Ad andare leggermente indietro di qualche mese, si fa presto a ricordare che proprio Tokyo aveva aperto ad un riarmo fino ad oggi vietato dalla Costituzione del Paese del Sol Levante.
L’amministrazione Biden ha disposto la fornitura di commesse militari che riguardano aeromobili dai costi esorbitanti (cinque “Grumman E-2 Hawkeye” varrebbero circa 1,30 miliardi di euro…) e che il Giappone acquisirebbe ovviamente nella duplice funzione “difensiva” dalle minacce sino-nordcoreane e russa.
Si sta creando una nuova situazione da guerra fredda e, questa volta, tradotta anche nella versione asiatica in cui i pretesti per delle provocazioni e, quindi, degli attacchi per risolvere questioni ultradecennali (proprio come quella di Taiwan) non mancano di certo.
Se si fa una disamina globale degli eventi, si può trarre, se non la conclusione, almeno le fila di una corsa al riarmo un po’ ovunque, dopo aver svuotato gli arsenali per armare il governo di Zelens’kyj e per consentirgli di fare la sua parte di fedele esecutore delle volontà espansionistiche di un Occidente dominato da Washington, con una NATO tutt’altro che “in morte cerebrale” (secondo la celebre definizione macroniana di pochi anni fa…), adesso l’industria degli armamenti leggeri e pesanti è in piena produzione.
Le azioni nelle borse volano ed una economia già dedita al sostegno dei singoli imperialismi è divenuta praticamente su scala mondiale una economia di guerra.
Mentre nei conflitti locali in tante parti dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina si combattono parti avverse che mirano a scopi essenzialmente geolocalizzabili nel limitrofo dei teatri di guerra, in Europa, là in Ucraina, sul fronte meridionale, si combatte un confronto tra due visioni in parte uguali e in parte opposte della vita sul pianeta.
Ciò che accomuna Russia e Occidente è la necessità, indotta dal sistema capitalistico e liberista, di primeggiare per sopravvivere in un pianeta con sempre meno risorse disponibili.
Ciò che accomuna Mosca a Washington è la lotta del potere per il potere: da una parte le oligarchie che si riuniscono attorno a Vladimir Putin, dall’altra i grandi poteri economici che testano la tenuta della declinante presidenza Biden, in attesa di un cambiamento che potrebbe, nell’affermazione dei peggiori istinti sovranisti e trumpiani, fare una differenza non da poco per gli Stati Uniti.
Ciò che divide invece Est da Ovest è l’inconciliabilità tra due blocchi di potere imperialista, tra due visioni nettamente esclusive ed esclusiviste dell’affermazione degli interessi nazionali o transnazionali. La stessa Europa, che si trova geopoliticamente in mezzo a questo scenario agghiacciante, è debolissima nel rivendicare un ruolo autonomo che non riscontra anzitutto nell’unità politica, e segnatamente di politica estera, oltre che nella condivisione delle scelte per il sostegno a Kiev.
Basti pensare alla dicotomia davvero imponente tra, ad esempio, i paesi baltici a la Mitteleuropa; oppure tra l’Ungheria di Orbán e la Gran Bretagna tutta dedita con Suniak a completare un trittico che prescinde persino dal contesto della UE, diventando con NATO e USA il principale sponsor dell’armamento pesante da inviare in Ucraina, persino di uomini delle intelligence e di truppe di terra.
Avendo citato i Paesi Baltici, il caso dell’Estonia è quanto meno paradigmatico ed emblematico: la vicinanza alla Russia ha sempre alimentato, dopo la fine dell’Unione Sovietica, una fobia quasi congenita nella costruzione del nuovo Stato, dopo la parentesi tra la prima e la seconda guerra mondiale.
In questi ultimi anni Tallin ha messo nei suoi bilanci cifre molto alte per la riconversione bellica, mostrandosi sempre più ostile verso Mosca, interrompendo i rifornimenti di gas russo e rivolgendosi ad Occidente per la stabilizzazione di una economia interna che, tuttavia, tocca picchi inflazionistici mai visti.
Lettonia e Lituania non sono da meno nel manifestare una sorta di “russofobia” che, oltre ad includerle ormai indissolubilmente nel perimetro dell’Unione Europa, ne fa gli avamposti più est dell’Alleanza atlantica. Almeno fino a quando non sarà la stessa Ucraina ad entrare nella NATO.
Un tema, questo, che ha fatto infuriare da un lato Zelens’kyj e dall’altro l’amministrazione Biden. Se Stoltenberg e i paesi membri dicessero di sì alla presunzione del governo di Kiev di entrare sin da ora nell’Alleanza, per quanto apprezzino certamente la supina e reverente fedeltà, cambierebbero a centottanta gradi i ruoli dei contendenti in guerra.
Sarebbe una guerra della Russia dentro la NATO e si dovrebbe, presumibilmente, far scattare il protocollo previsto dall’articolo che prevede: «Le Parti convengono che un attacco armato contro uno o più di loro in Europa o Nord America sarà considerato un attacco contro tutti loro». Sarebbe la guerra mondiale non per procura, ma effettiva, su ogni campo sperimentabile: terra, cielo, mare.
Del resto, se si pensa che, per un paese come l’Estonia, la decisione di rinunciare al gas russo vuol dire privarsi del 90% delle forniture di questa materia essenziale per la vita comune e per l’economia del paese, si può ben avere chiara la risolutezza che certe nazioni hanno nel non addivenire a nessun dialogo con l’orso moscovita e, allo stesso tempo, di sostenere l’imperialismo occidentale come nuovo campo della loro collocazione geografica e politica al tempo stesso.
Uno dei temi su cui provare a lambiccarsi il cervello con analisi disparate, pure attinenti a dati, fatti e non a mere ipotesi o complottismi di sorta, è provare a capire quanto la ridacalizzazione del conflitto sia entrata nelle politiche nazionali dei singoli Stati europei e quanto rappresenti una occasione di sviluppo, cinica e bara ma pur sempre una occasione economica e finanziaria, per dare fiato a politiche depressive e stagnanti sul terreno dell’espansione e della tenuta sociale.
Il dramma dell’economia di guerra, tra l’altro, è l’essere al tempo stesso una economia e una guerra, scambiandosi questi ruoli e interagendo per avere mano forte l’una dall’altra. Una vera tragedia e un fallimento della politica propriamente detta.
Ma si tratterebbe di andare indietro di millenni, agli albori dell’avvenuta disumana dell’umanità per cercare una ragione socio-antropologica che ci restituisca una evidenza abbastanza semplice da percepire: il potere è diventato necessario per la sopravvivenza della specie e, nello specifico, di singoli popoli che, attraverso il dominio di classe della vecchia prima e della nuova borghesia finanziaria e imprenditoriale oggi, perpetua una lotta per la preservazione dei privilegi conquistati nel corso dei secoli.
La peggiore illusione che ci possiamo autoinfliggere, ispirata dalle cronache di guerra, meglio conosciute come “propaganda bellica“, è quella di considerare una parte del mondo libera e un’altra parte schiava delle peggiori tirannie. Certo, di qua, in Occidente, le libertà civili sono mestamente rispettate, almeno fin dove le costituzioni dei paesi le garantiscono.
Ma non esiste un’etica superiore e una inferiore che si fanno la guerra nella guerra: non c’è un esempio da imitare al di qua dell’Ucraina e uno da condannare al di là del fronte.
La democrazia occidentale fallisce tanto quanto le oligarchie orientali nel momento in cui decide di non essere critica nei confronti del capitalismo e del liberismo e di farne la base erigente del nuovo futuro antisociale, specista e antiambientale a cui aggrapparsi tutti quanti.
Il fallimento del liberalismo moderno è tutto nella condiscendenza verso il liberismo dominante e, quindi, nell’adeguamento dei princìpi democratici alle esigenze del regime delle merci e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla natura, dell’uomo su tutti altri esseri viventi.
Questa condizione di logoramento della superiorità etica della democrazia rispetto alle dittature propriamente dette e propriamente tali, è la sconfitta più grande di un progresso sociale e civile che il capitalismo non ha potuto gestire. Perché gli sono congeniali i regimi in cui la garanzia del privato prevale sul pubblico, mentre si fanno alcune concessioni in tema di diritti civili e si negano i più evidenti diritti umani e sociali.
L’altra grande questione dei nostri tempi, quella delle migrazioni, è lì, altrettanto drammaticamente, a dimostrarcelo. Ogni giorno, ad ogni sciabordio di onda.
MARCO SFERINI
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