L’ex leader del Partito della Rifondazione Comunista (1994-2006) ed ex Presidente della Camera dei Deputati (2006-2008) analizza l’evoluzione dell’antifascismo e della sinistra e quella che considera la deliberata strategia del governo Meloni per distruggere le radici antifasciste e indebolire la Costituzione in Italia.

Intervista a cura di Roberto Morea – Transform! Europe

Grazie, Fausto, per aver accettato di chiacchierare con noi. Vorrei parlare con te di antifascismo. Il 25 aprile si è celebrato l’anniversario della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, che ha suscitato diverse polemiche per le dichiarazioni rilasciate prima dal Presidente del Senato Ignazio La Russa (di Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni) e poi da alcuni membri del governo. Queste ripetute dichiarazioni ci spingono a riflettere nuovamente sulla fase che stiamo vivendo in questo momento. Pensa che questa fase – in Italia e in Europa – abbia qualcosa da dirci in termini di un nuovo fascismo, di una nuova idea di destra reazionaria, anche se assume forme diverse nei vari Paesi?

Grazie per l’invito, siete sempre i benvenuti. Vorrei iniziare con due osservazioni preliminari. La prima è che in Italia la Repubblica non è mai riuscita a chiudere completamente i conti con il fascismo. Con questo voglio dire che, in diverse condizioni e in diversi cicli della storia italiana, l’antitesi tra fascismo e antifascismo potrebbe riemergere, anche se in modi sempre diversi.

La cultura antifascista ha vissuto molti alti e bassi. A volte ha goduto di un’egemonia assolutamente schiacciante, anche grazie alle sue rinascite – come nei primi anni Sessanta, e come nel lungo ciclo aperto dal 1968 e dal 1969, cioè nei momenti in cui ha resistito ai tentativi di cancellarla o di manipolarla – quando ha resistito ai tentativi di ridurre l’antifascismo a nient’altro che un’antica memoria storica. Ma quello a cui assistiamo oggi è un altro punto di svolta.

Per brevità, non citerò tutti gli episodi precedenti. Ma, tanto per rendere l’idea che l’egemonia antifascista non è mai stata conquistata per sempre, vorrei ricordare la rivolta antifascista del 1960 contro la scelta del governo democristiano di Fernando Tambroni di permettere che il congresso del Movimento Sociale Italiano (il partito dei reduci della Repubblica di Salò collaborazionista al nazismo) si svolgesse a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Questa decisione provocò una rivolta che spinse una nuova generazione a scendere in piazza per manifestare sotto la bandiera della nuova Resistenza. Un famoso slogan della protesta fu “Ora e sempre resistenza”, come è scritto sulla targa di Piazza Galimberti a Cuneo, una piazza cittadina intitolata a Duccio Galimberti, la figura più importante della Resistenza in Piemonte. Eppure, quei fatti del 1960 avvennero dopo un periodo in cui l’antifascismo era stato messo da parte. Una canzone importante per la storia della mia generazione è quella che Fausto Amodei scrisse in omaggio ai morti di Reggio Emilia (cinque operai comunisti uccisi durante una manifestazione antifascista del governo Tambroni del 1960). Canta di chi aveva già dimenticato Duccio Galimberti. Quindi, si parte da chi si era dimenticato di Galimberti e si arriva alla rivolta che impedì lo svolgimento del congresso del Movimento Sociale Italiano.

La loro strategia è quella di demolire l’antifascismo come unica religione civile in questo Paese – che, essendo profondamente radicata, può sempre rinascere.

Vi dico questo per farvi notare come la competizione fascista/antifascista sia ricominciata più e più volte. E ora sta accadendo di nuovo, ma questa volta su un territorio del tutto inedito. Perché senza precedenti? Non parlerò del quadro globale su scala mondiale, al quale dovremmo certamente prestare attenzione, ma mi concentrerò su quello interno.

Ci sono due fatti che ci dicono che siamo alla fine di un lungo ciclo apertosi nell’Italia del dopoguerra e all’inizio di uno nuovo. Il primo è l’esistenza di questo governo di destra: non si tratta di una destra più o meno camuffata, un po’ di destra, un po’ populista, un po’ liberale – no. Questo governo è pienamente e interamente di destra. Il secondo fatto è, per la prima volta dal dopoguerra, l’assenza di una sinistra politica di classe, cioè di una sinistra anticapitalista, che provenga dal movimento operaio.

Questi due fatti sono caratteristici della nuova fase. Il governo è di destra per molte ragioni, ma possiamo citarne almeno tre. Il primo, perché porta avanti una politica economica strutturalmente neoliberista; il secondo per il ritorno dei suoi elementi corporativi, a difesa delle proprie clientele, e il terzo, a mio avviso fondamentale per il governo di destra, è la grande offensiva ideologica che sta conducendo. A questa destra non basta l’ideologia finora dominante, quella del mercato che dice “non avrai altro Dio all’infuori di me”, riassunta dal motto “TINA”, “there is no alternative”. Non basta: partendo da questo dominio capitalistico, si vuole compiere un’operazione culturale che stabilisca un elemento del proprio approccio conservatore-reazionario come permanente.

Qual è questo elemento? La destra oggi al governo vuole eliminare la cultura politica che può opporsi al suo tentativo, una cultura che si rifà a una delle grandi storie di questo Paese, ovvero l’antifascismo. Allora, cosa c’è da temere nell’antifascismo? Sì, la memoria, certo. Ma anche, molto più della memoria, il sistema di valori, quello trasmesso dalla Costituzione, ma la cui sopravvivenza futura non è garantita. Infatti, proprio come l’antifascismo, la Costituzione in Italia non è fissata una volta per tutte, ma è essa stessa la posta in gioco della battaglia. Ci sono Paesi, come l’Italia, in cui, una volta scritta la Costituzione, si pone il problema di come attuarla. Ma in ogni caso rappresenta di per sé una conquista democratica, che va mantenuta viva sul terreno della lotta alle disuguaglianze, sul terreno della dignità del lavoro, su quello dei diritti della persona, della diversità della persona umana, sul tema dell’accoglienza (dei migranti), sul tema della solidarietà, per la scuola pubblica, per la pace.

In tutti questi ambiti, la conquista rappresentata dalla Costituzione appare come un peso per la destra. E la destra ha deciso di liberarsi di questo peso. Devo essere chiaro e sottolineare che non si tratta del ritorno del fascismo. Questa destra non pensa di fare l’impossibile. Ma pensa a ciò che purtroppo è possibile, cioè alla sconfitta dell’antifascismo, alla cancellazione dell’antifascismo dalla storia presente e concreta del Paese. A questo scopo utilizza tutti i mezzi. Uno di questi è la politica del governo. A mio avviso, cerca una posizione specifica su questo tema, che è quella che abbiamo ripetutamente chiamato afascismo – “né fascismo né antifascismo”. Questa è l’acqua in cui nuota per evitare di dover rispondere alla domanda: “ma voi siete antifascisti?”. “Lei, Presidente del Consiglio, lei, governo, è antifascista secondo i requisiti impliciti nella Costituzione repubblicana?

Per evitare di rispondere alla domanda se è esso stesso antifascista, il governo italiano ha inventato l’”afascismo”.

Per evitare di rispondere a questa domanda ha costruito uno spazio che possiamo chiamare afascismo. Per proteggere il governo dalla domanda che per loro è impossibile da gestire – “dichiarati antifascista” – hanno messo in piedi questa operazione per attaccare in modo subdolo l’antifascismo. Così, anche il Presidente del Consiglio, non un militante di partito a caso, può negare il carattere antifascista dei martiri dell’eccidio nazifascista di partigiani, prigionieri politici ed ebrei alle Fosse Ardeatine, chiamandoli “italiani”. Con una palese ipocrisia – perché, ovviamente, come dice lei le vittime erano italiane. Ma c’è anche il piccolo problema che i complici degli uomini che li hanno uccisi erano anch’essi italiani. Il Primo Ministro ha dato il via libera ai suoi seguaci e loro li hanno seguiti. Così, abbiamo il presidente del Senato – incurante del fatto che è la seconda carica dello Stato, che potrebbe essere chiamata a sostituire il presidente della Repubblica! – dice le cose oscene che ha detto su via Rasella, cioè attaccare un atto di lotta partigiana, grazie al quale il comandante in capo delle forze americane, alleate, ha detto “così gli italiani si sono guadagnati l’onore di essere combattenti”.

Non si tratta, quindi, di episodi isolati, perché fanno parte di una strategia che ha come obiettivo proprio la demolizione dell’unica religione civile di questo Paese – l’antifascismo – che, essendo profondamente radicata, può sempre rinascere, può sempre andare sott’acqua e poi riemergere perché è legata alla storia e all’identità del popolo italiano. Quindi, si propongono una lotta dura. Ma sono molto contento delle manifestazioni di questo 25 aprile, che sono cresciute rispetto agli anni precedenti. È come se una parte del popolo italiano avesse visto che questa lotta era ripresa e avesse deciso di schierarsi. È uno sviluppo molto incoraggiante. Occorre alimentarlo con un lavoro politico sistematico, pensando sia ai grandi movimenti di massa sia alle singole iniziative che stanno fiorendo nella società civile – sotto forma di scuole, attività didattiche, iniziative sulla storia di questo Paese, o per rimettere in circolo la cultura antifascista, che si tratti di canzoni, letteratura o occasioni di dibattito.

Perché lo scontro tra fascismo e antifascismo è di nuovo in corso. È uno scontro in cui il fascismo non è più in campo, ma è stato sostituito da questo schema che ho cercato di descrivere, che ha il compito di sconfiggere l’antifascismo, cosa che non potrebbe essere fatta da una rinascita del fascismo, chiaramente. Quindi, la destra ha scelto un terreno che considera più adatto ai suoi scopi, e sta a noi contrastarla ora.

Abbiamo bisogno di azioni coraggiose, anche se simboliche – e l’elemento simbolico è estremamente importante oggi. Per esempio, visto che Ignazio La Russa (Fratelli d’Italia) è presidente del Senato, perché tu, senatore democratico e antifascista, non te ne vai, dimostrando che non accetti che La Russa rappresenti l’intera assemblea? La sua ripetuta trasgressione dei confini antifascisti richiede, a mio avviso, che i parlamentari democratici respingano la sua legittimità come presidente del Senato.

Guardando alla risposta politica, pensa che sia possibile creare un nuovo fronte antifascista in Italia?

No, penso che non sia possibile. Un “fronte” richiede un’alleanza di forze. Il fronte antifascista, nel lontano passato, significava l’alleanza di partiti prevalentemente di sinistra, anche se non solo di sinistra, che magari fino ad allora erano stati in conflitto ma che si univano in nome della lotta al nemico comune. In Italia, ad esempio, possiamo guardare all’esempio del primo governo di Ferruccio Parri (giugno-dicembre 1945), perché fu un’alleanza di forze popolari che rappresentavano il popolo. Si unirono, determinando così le condizioni per un’unità visibile, concreta, manifesta del popolo. Ma chi potrebbe rappresentare oggi l’alleanza del popolo?

Quindi, a mio avviso, la piramide deve essere rovesciata. Non so se si può definire un fronte, forse una coalizione – non una coalizione di forze antifasciste, ma piuttosto una coalizione per l’antifascismo. Ci deve essere questo processo che ho cercato di descrivere prima, fatto di iniziative, di studi, di generazione di idee, di rinascita del pensiero antifascista. Deve essere alimentato, sia attingendo alla storia sia portando la Costituzione nel presente. Ciò significa anche indagare su ciò che è vivo e ciò che è morto – non dell’antifascismo, che è ancora vivo – ma dell’antifascismo come sancito dalla Costituzione, e della Costituzione stessa come effettivamente trasposta nella realtà concreta del Paese. Insomma, un antifascismo vivo che sia anche parte della lotta sociale, economica, politica e culturale. Questo deve essere un processo dialettico, perché – lungi da me immaginare che ci siano meccanismi automatici – penso che ci debba essere una rinascita dell’antifascismo, piuttosto che riunire un fronte di forze.

Vede qualcosa di simile a livello europeo?

La comprensione del livello europeo richiede una riflessione strutturata e organica. Ci sono molte parti in movimento sul fronte politico-istituzionale. C’è una crisi mondiale che le guerre fanno emergere, ma che può essere letta anche su terreni diversi. Possiamo riassumerla come una “instabilità sistematica” di tutte le relazioni, siano esse economiche, culturali, sociali, nazionali o sovranazionali. Possiamo anche chiamarla ingovernabilità del mondo.

Come sappiamo, ciò è causato proprio da questo tipo di capitalismo finanziario globale che stiamo affrontando. Ma ha anche un contenuto politico specifico, si pensi ad esempio allo scontro strategico tra Cina e Stati Uniti d’America. È come se questo cuneo si conficcasse nel corpo vivo del mondo intero, sconvolgendo tutti gli equilibri e dando vita a nazionalismi e super-nazionalismi che alimentano guerre ma anche tensioni di ogni tipo. Questo mondo disordinato ha totalmente smentito le previsioni dei campioni della globalizzazione. Invece di un ordine capitalistico globalizzato, vediamo la sua marcia verso il disordine. Questo si spinge fino a mandare in frantumi la parvenza di un’Europa unita.

In pochi mesi il panorama è cambiato radicalmente. Dopo un periodo disperato di austerità, l’Europa sembrava mostrare segni promettenti sulla scia dell’emergenza Covid. Sembrava aver riscoperto la possibilità di un intervento espansivo – sarebbe eccessivo definirlo keynesiano, ma indubbiamente ha segnato una certa distanza dal ciclo dell’austerità. Pur rimanendo, ovviamente, all’interno di un ordine basato sul primato del mercato, sembrava muoversi – ipoteticamente – verso una posizione anticiclica.

Ma la crisi più recente ha mandato in frantumi tutto questo. Francia e Germania, che sono le due locomotive dell’Europa realmente esistente – l’Europa di Maastricht e l’Europa dei governi, l’Europa intergovernativa – hanno deciso di muoversi per la loro strada. Non so dove questo ci porterà.

Nel frattempo, sono accaduti nuovi eventi che ritengo di importanza davvero gigantesca. La rivolta, in senso pieno, è tornata in scena. La tesi dominante era che con questa composizione sociale del lavoro e del capitale, il conflitto sindacale è impraticabile, per tutte le ragioni che i sociologi ci hanno spiegato un milione di volte. Eppure, guardate cosa è successo. Le lotte sociali e sindacali stanno mettendo Londra sottosopra, tanto che la Gran Bretagna ha dovuto inventare un nuovo termine per il suo eccezionale Natale di lotte, le sue “strikemas”. Poi si va in Francia e si vedono undici, dodici scioperi generali. Per spiegare perché non si sia diffuso anche in Italia, beh, ci vorrebbe un’intera conferenza per discuterne. Tuttavia, la rivolta è tornata in scena. Perché a Lisbona c’è un’enorme mobilitazione sulla questione dell’aumento dei prezzi degli alloggi e Parigi è stata invasa, come ho detto, da dieci o dodici scioperi generali. Ogni settimana Parigi è stata oggetto di lotte talvolta aspre e violente.

Quindi, le altezze dell’Europa sono in crisi. L’Europa sta lottando molto anche per prendere provvedimenti immediati, come abbiamo visto di recente, anche sulla questione dell’intervento europeo per ridisegnare il patto di stabilità – non riescono a trovare un accordo. C’è il rischio che, se non si trova un accordo, si ritorni in qualche modo al ciclo dell’austerità – o a qualcosa di simile. Ciò significherebbe frenare la fase di espansione e le politiche attive. E mentre ciò accade, la rivolta torna al centro della scena. Credo che questo sia l’aspetto di cui dovremmo occuparci. Non ho suggerimenti da offrire. Ma diciamo che, se dovessi farlo, direi: “Sapete una cosa? Per una volta, occupiamoci un po’ meno di loro e un po’ più di noi stessi”.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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